Pubblico con piacere, qui di seguito, il testo del ricorso al TAR di Latina attivato dall'Avv. Carla Corsetti, Segretario nazionale del Partito Democrazia Atea, nell'interesse del figlio minore, per ottenere la rimozione dei crocifissi dalla scuola media di Ceprano o, in subordine, per ottenere l'esposizione del simbolo dell'UAAR a fianco dei crocifissi.
TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
PER IL LAZIO SEZIONE DISTACCATA DI LATINA
Ricorso
In proprio e nella qualità delego a rappresentarmi e difendermi nel presente giudizio, anche nella eventuale fase di gravame e di esecuzione, in ogni suo stato e grado l’avv.Carla Corsetti cui conferisco ogni più ampia facoltà di legge, ivi compresa quella di nominare procuratori, anche quali sostituti processuali, proporre domande rinconvenzionali ed appelli anche incidentali, chiamare in causa, riassumere e proseguire il processo, transigere, rilasciare quietanze conciliare, riscuotere, rinunziare ed accettare rinunce. Eleggo domicilio assieme a lei presso la Segreteria del TAR Lazio Sezione Distaccata di Latina. Ricevuta informazione sulla utilizzazione dei miei dati personali ai sensi e per gli effetti della L.196/03 artt.7 e 13, consento il loro uso.
L’avv.Carla Corsetti (CRSCRL62P65H501K) in proprio e quale genitrice di XXXXXX, la quale sta in giudizio da sola ai sensi dell’art.86 cpc, unitamente al coniuge XXXXXX (XXXXXX) anch’egli in proprio e quale genitore di XXXXXXX, difeso e rapp.to in forza di delega a margine del presente atto dall’avv. Carla Corsetti, tutti elett.te domiciliati presso la Segreteria dell’intestato TAR
contro
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro in carica dom.to per la carica presso l’Avvocatura Generale dello Stato in Roma Via dei Portoghesi n. 12
nonché contro
ISTITUTO COMPRENSIVO STATALE DI CEPRANO in persona del Dirigente Scolastico legale rapp.te, con sede in Ceprano Via Vittorio Alfieri n. 78
PER L’ANNULLAMENTO
della decisione assunta con delibera il 5.2.2010 dal Consiglio di Istituto Comprensivo Statale di Ceprano ed approvata dallo stesso Consiglio nella seduta del 19.2.2010 - verbale n. 3 – nella parte in cui delibera all’unanimità di tenere esposto il crocifisso nelle aule e nei locali dell’Istituto; nonché per l’annullamento degli atti presupposti e conseguenti, comunque connessi con quello impugnato.
IN FATTO
Con nota del 26 gennaio 2010 la sottoscritta genitrice/difensore inoltrava al Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo di Ceprano l’invito alla immediata rimozione del crocifisso nell’aula frequentata dal proprio figlio XXXXXX, sostenendo che: “la predetta affissione è in violazione dei principi di laicità sanciti dalla Costituzione” ed inoltre che “l’esposizione di un simbolo di morte non è compatibile con i principi di civiltà democratica cui intendo educare mio figlio ”.
Nella predetta missiva si richiamava la sentenza della Corte Europea del 3.11.2009 in forza della quale l’affissione dei simboli religiosi ed in particolare del crocifisso era stata rappresentata come una autentica “violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni”.
I ricorrenti sono genitori di XXXXXXXXX il quale non si è avvalso dell’insegnamento della religione cattolica e nell’anno scolastico 2009/2010 frequenta la II media sezione A del predetto Istituto Comprensivo.
La sottoscritta avv. Carla Corsetti, nelle qualità di cui in epigrafe, impugna la delibera sopra richiamata del 5.2.2010, approvata in data 19.2.2010, che deve essere dichiarata illegittima per i seguenti motivi.
PREMESSA
Dal punto di vista storico va rammentato che, in seguito all'annessione del territorio dello Stato Pontificio al Regno d'Italia, i rapporti tra Stato e Chiesa degenerarono: il crocifisso fu "bandito dai pubblici uffici" per circa 70 anni e, come reazione alla pregressa dominazione pontificia, vi fu un lungo periodo di intolleranza anticlericale. Il crocifisso fece ritorno nelle aule giudiziarie solo verso la metà degli anni '20, come gesto "riconciliativo" dello Stato Fascista nei confronti della Chiesa Cattolica: questo è il chiaro senso e la chiara portata delle circolari e dei regolamenti fascisti che, poco prima della consacrazione dei Patti Lateranensi, reintrodussero il crocifisso nelle aule giudiziarie, nelle scuole e negli edifici pubblici.
Questa "normativa" di privilegio risente, ovviamente, delle connotazioni illiberali della dittatura fascista. Va ricordato, in particolare, che durante la permanenza della dittatura fascista fu abolito il pluralismo delle ideologie politiche e dei partiti: esisteva un unico partito politico -per l'appunto quello fascista- che godeva, in quanto tale, del "privilegio" (illiberale) di essere esposto, da solo, nei luoghi pubblici. Anche la religione cattolica divenne -in quest'ottica illiberale e in seguito al concordato stipulato da Mussolini con la Santa Sede- la sola "religione di stato", quasi si trattasse (come il partito fascista) dell'unica vera fonte di "Verità". Anche la religione cattolica, pertanto, godette in via esclusiva -come il partito politico "fascista"- del "privilegio" di poter esporre il crocifisso nei pubblici uffici con "diritto di esclusiva".
Caduta la dittatura fascista, però, la Carta Costituzionale della novella Repubblica Italiana ha decisamente ripudiato tutte queste connotazioni illiberali della dittatura fascista e sono stati sanciti dei principi costituzionali che "navigano" in direzione diametralmente opposta. Al partito politico "unico" della dittatura fascista, ad esempio, si è sostituito il "pluralismo" democratico dei partiti politici (art. 49 Cost.) e, ovviamente, nessuno si è mai sognato, dopo il 1948, di esporre nei pubblici uffici il simbolo di un "unico" partito politico: magari quello di "maggioranza"!
Al principio della "confessionalità" dello Stato fascista, poi, si è contrapposto quello, supremo, della "laicità" dello Stato democratico repubblicano, fondato sul diritto inviolabile all’eguaglianza di tutte le religioni di fronte alle legge (art. 8), sul diritto inviolabile all’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, senza distinzione (tra l’altro) di religione (art. 3), sulla indipendenza ed autonomia dello Stato e della Chiesa Cattolica (art. 7), sul riconoscimento dei diritti inviolabili dell'uomo (art. 2), sul diritto inviolabile di libertà religiosa, sia in senso positivo che in senso negativo (art. 19), sulle pari garanzie riconosciute a tutte le associazioni ed istituzioni religiose (art. 20) e sul diritto all’educazione secondo le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori (art. 2 e 117 Cost. in relazione all’art. 2 Prot. addizionale alla L. 4.8.1955 n. 848).
Collocata nell'ottica di tutti questi princìpi fondamentali della Costituzione repubblicana, tutta la normativa fascista sull'ostensione del crocifisso negli edifici pubblici (peraltro di natura prettamente regolamentare, come ad esempio l’art. 118 del R.D. 30.4.1924 n. 965, recante norme sull’ordinamento interno degli istituti di istruzione media, e l’art. 119 del R.D. 26.4.1928 n. 1297, Tabella C, quanto agli istituti di istruzione elementare) appare come il retaggio di un regime illiberale, da ritenere tacitamente abrogata ex art. 15 disp. prel. cod. civile perché del tutto incompatibile con i succitati princìpi fondamentali della Costituzione repubblicana.
Alla luce di questa premessa appaiono evidenti i vizi della delibera, che si enucleano nei seguenti motivi.
PRIMO MOTIVO
Violazione del principio di legalità dell’azione amministrativa (articoli 97 e 113 Costituzione).
Il principio fondamentale sul quale si regge il diritto amministrativo, desunto dal 1° comma dell’art. 97 e dall’art. 113 della Costituzione, è quello secondo cui tutta l’attività espletata dalla Pubblica Amministrazione si deve fondare su norme di LEGGE che accordano alla P.A. un siffatto potere.
Ebbene, nel caso di specie è pacifico che non esiste alcuna norma di “legge” -né del regime monarchico né di quello repubblicano- che abbia attribuito al Consiglio di Istituto Comprensivo Statale di Ceprano -e neppure al Ministero dell’Istruzione- il potere di disporre l’esposizione dei “crocifissi” nelle aule scolastiche.
I crocifissi -come qualsiasi altro simbolo religioso- non sono infatti meri oggetti di “arredamento”, come le sedie, le cattedre, i banchi etc., ma sono invece simboli IDEOLOGICI di natura religiosa, sicché la loro esposizione esula dai compiti organizzativi della P.A. ed integra -per converso- una manifestazione di culto e di venerazione. E la prova inconfutabile è nel fatto che il vilipendio dei crocifissi -a differenza del vilipendio delle “sedie” e delle “lavagne”- viene represso da norme penali come offesa al sentimento religioso, proprio in quanto oggetto di “culto”.
D’altro canto, nessuno può negare che le esposizioni dei crocifissi nelle abitazioni private, nelle chiese, nelle processioni o sulla propria persona costituiscano palesi atti di devozione e di culto o, comunque, scelte di adesione ad una confessione religiosa.
Dalla particolare natura religiosa del crocifisso scaturisce, dunque, che l’art. 118 del R.D. 30.4.1924 n. 965, recante norme sull’ordinamento interno degli istituti di istruzione media, e l’art. 119 del R.D. 26.4.1928 n. 1297, Tabella C, quanto agli istituti di istruzione elementare, debbano ritenersi non più in vigore già dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana: essi debbono infatti ritenersi tacitamente abrogati, ex art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile, innanzitutto perché privi di un qualche supporto LEGISLATIVO e, quindi, incompatibili col principio di legalità dell’azione amministrativa (artt. 97 e 113 della Costituzione).
In tale senso si è sono espressamente pronunciati:
a) la VI Sez. Penale della Cassazione, che nella recente sentenza 10 luglio 2009, n.28482, ha affermato: “la circolare del Ministro di Grazia e Giustizia del 29/5/1926 è un atto amministrativo generale, che appare però privo di fondamento normativo e quindi in contrasto con il principio di legalità dell' azione amministrativa (artt. 97 e 113 Cost.)”;
b) il Consiglio Superiore della Magistratura che, pronunciandosi sulla liceità della circolare fascista che impone i crocifissi nelle aule di giustizia, ha affermato nell’ordinanza depositata il 23.11.2006: “Si deve in primo luogo rilevare che, come è pacifico (si veda in proposito la nota del ministero degli interni del 5 ottobre 1984, n. 5160/M/l, citata da cass. 1° marzo 2000), la circolare del ministro della giustizia del 29 maggio 1926 n. 2134/1867 è un atto amministrativo generale, privo di fondamento normativo e quindi contrastante con il principio di legalità dell’azione amministrativa, desumibile dagli articoli 97 e 113 Cost., dal quale deriva che l’attività della pubblica amministrazione deve sempre svolgersi nel rispetto della Costituzione, delle norme comunitarie e delle leggi, con l’ulteriore conseguenza che ogni atto amministrativo deve essere espressione di un potere riconosciuto all’amministrazione da una norma (Cons. Stato, sez. II, 3 novembre 1999, n. 1401; sez. VI, 17 febbraio 1999, n. 173; sez. V, 8 giugno 1994, n. 614; sez. VI, 3 marzo 1993, n. 214)”, evidenziando, a tal proposito, che “In conformità con questo principio il legislatore ha disciplinato l’esposizione dei simboli non religiosi nei luoghi pubblici (legge 5 febbraio 1998, n. 22 sull’uso della bandiera della Repubblica italiana e di quella dell’Unione europea; l’art. 38 del d.lgs. n. 267 del 2000, che disciplina la stessa materia con riferimento all’ordinamento degli enti locali)”;
c) il giudice monocratico del Tribunale dell’Aquila che, nell’ordinanza cautelare 22.10.2003, così si esprime: “L’esplicita abrogazione del principio della religione cattolica come religione di Stato, contenuta nel punto 1, in relazione all’art. 1, del Protocollo addizionale agli Accordi di modifica del Concordato del 1929, ha sicuramente introdotto un nuovo assetto normativo che si pone in contrasto insanabile con la disciplina (scolastica e non) che impone l’esposizione del crocifisso.
Per quanto l’accordo di revisione del 1984 non contenga alcun riferimento esplicito all’affissione del crocifisso, assorbente è il rilievo che i provvedimenti che ciò prescrivono, peraltro di rango secondario, in quanto intimamente legati al principio della religione di Stato, debbano ritenersi abrogati.
Come noto, l’abrogazione esplicita di un principio giuridico comporta necessariamente e naturalmente l’abrogazione tacita delle disposizioni che vi fanno riferimento, in particolare se si tratta di normativa di rango secondario, che offre una minore resistenza nell’eventuale contrasto determinatosi con l’introduzione di una nuova disciplina della materia, dovendo le disposizioni regolamentari, per loro stessa natura, eseguire il dettato di determinate disposizioni di legge.”
Riepilogando, se per poter esporre i simboli dell’identità nazionale negli uffici pubblici è addirittura necessaria una “LEGGE”, altrettanta “LEGGE” occorrerebbe per poter esporre i simboli religiosi negli stessi uffici: in assenza di una siffatta “legge”, però, il Consiglio di Istituto di Ceprano non poteva deliberare di esporre i crocifissi nelle aule scolastiche.
SECONDO MOTIVO
Violazione del diritto di libertà religiosa del minore XXXXXXXXX (articoli 19 Cost. e 9 L. 848/1955 di ratifica della Convenzione per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo).
Come sopra rilevato, le esposizioni dei crocifissi cattolici nelle chiese, nei conventi, nelle processioni, nelle abitazioni private e sulla propria persona sono delle libere scelte che rientrano, legittimamente, nell’ambito dell’esercizio del diritto di professare una fede religiosa (art. 19 Cost.). Questa libertà non implica, però, il diritto di invadere la sfera di libertà altrui: nessuno, infatti, può essere costretto a subire l’imposizione di siffatti simboli, né a casa propria né sulla propria persona né nei propri edifici di culto.
Ebbene, imporre l’esposizione di un simbolo religioso (come innegabilmente il crocifisso è) nelle scuole pubbliche -che cioè appartengono alla generalità dei cittadini -e non alla Chiesa Cattolica o ai cattolici- e che, per di più, sono frequentate da alunni che appartengono anche ad altre confessioni religiose o che sono atei o agnostici- è un vero e proprio atto di prevaricazione che lede il diritto “negativo” di libertà religiosa di tutti gli alunni che non si identificano, per i più disparati motivi, in quel simbolo religioso o che, addirittura, aborrono qualsiasi forma di “idolatria”.
Sotto questo profilo basta considerare che il minore XXXXXXXXX non espone a casa sua o sulla sua persona crocifissi, sia perché aborre l’idolatria come comportamento troglodita ed insulso, sia perché si tratta di una persona che è stata educata, ispirata ed informata al rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, al rispetto della Costituzione repubblicana, al rispetto dei principi fondamentali che reggono gli Stati democratici moderni e al rispetto delle norme penali e di quelle inderogabili e, dunque, così come non tollererebbe che lo Stato italiano gli imponesse la lercia e criminale svastica nazista -cioè il vessillo di quei criminali cristiani che si sono resi artefici della persecuzione razziale e del genocidio di sei milioni di ebrei, rom ed omosessuali- a maggior ragione non tollera che il Consiglio d’Istituto di Ceprano gli imponga la presenza - nell’aula scolastica dove è costretto a frequentare le lezioni - di un simbolo che è il vessillo di quell’associazione religiosa la quale, in circa 1.700 anni di storia nefasta, si è resa responsabile dei più efferati crimini contro l’umanità, provocando lo sterminio di centinaia di milioni di esseri umani.
XXXXXXXXX è rispettoso dei diritti di libertà religiosa altrui e, dunque, non si sognerebbe mai di imporre ai propri compagni di classe i propri “simboli” ideologici religiosi (per esempio quello dell’UAAR): dunque, egli pretende eguale rispetto dai propri compagni e dall’Istituto.
“Tolleranza” significa infatti “reciproco rispetto” in regime di pluralismo religioso, culturale ed etnico. e non “rispetto a senso unico”, come sono adusi fare i cattolici: chi pretende di imporre i propri simboli agli altri dimostra di essere un “razzista”, se non altro perché nega agli altri pari diritti e pari opportunità.
Su questi concetti è peraltro superfluo dilungarsi perché:
1°) la Corte Costituzionale Tedesca con la sentenza 16.5.1995 ha statuito che “il diritto di libertà religiosa garantito dalla Legge fondamentale non assicura soltanto la facoltà di partecipare agli atti di culto in cui si esprime il credo di appartenenza, ma anche la facoltà di tenersi lontani dalle attività e dai simboli implicati nell'esercizio del culto medesimo. Al riguardo occorre distinguere tra i luoghi che sono sottomessi al diretto controllo statale, e quelli che sono lasciati alla libera organizzazione della società. Lo Stato, nel primo caso, è obbligato a proteggere l'individuo dagli interventi o dagli ostacoli che possono provenire dai seguaci di altre fedi o di gruppi religiosi concorrenti con quello di appartenenza. Anche quando lo Stato collabora con le confessioni religiose, esso non può pervenire ad una IDENTIFICAZIONE con ALCUNA di QUESTE. Lo Stato, inoltre, deve rispettare il diritto naturale dei genitori di curare ed allevare i loro figli secondo le proprie convinzioni religiose. Confliggono con questo diritto garantito dall'art. 6 Abs. 2s.i della Legge fondamentale le prescrizioni dello Stato della Baviera e le decisioni assunte in forza di legge, che impongono l'affissione del crocifisso in tutte le aule scolastiche delle scuole popolari”.
2°) La VI Sez. penale della Corte di Cassazione, poi, con sent. 10 luglio 2009 n.28482 ha statuito, a proposito dei crocifissi nelle aule giudiziarie, che “la circolare del Ministro di Grazia e Giustizia del 29/5/1926 ..... non sembra essere in linea ..con il principio costituzionale di laicità dello Stato e con la garanzia, pure costituzionalmente presidiata, della libertà di coscienza e di religione”, sicché “occorre individuare l'eventuale sussistenza di una effettiva interazione tra il significato, inteso come valore identitario, della presenza del crocifisso nelle aule di giustizia e la libertà di coscienza e di religione, intesa non solo in senso positivo, come tutela della fede professata dal credente, ma anche in senso negativo, come tutela del credente di fede diversa e del non credente che rifiuta di avere una fede”.
3°) Da parte sua il Consiglio Superiore della Magistratura, nella succitata ordinanza del 23.11.2006, ha affermato: “....la circolare del ministro della giustizia del 29 maggio 1926 n. 2134/1867.... appare in contrasto con il principio costituzionale di laicità dello Stato e con la garanzia della libertà di coscienza e di religione, essendo pacifico (v. in tal senso cass. sez. unite 18 novembre 1997, n. 11432 e sez. disciplinare 15 settembre 2004, Sansa) che nessun provvedimento amministrativo può limitare diritti fondamentali di libertà, al di fuori degli spazi eventualmente consentiti da una legge ordinaria conforme a costituzione”
4°) Nell’ordinanza cautelare del Giudice dell’Aquila dr. Montanaro del 22.10.2003 si legge, poi: “Le giustificazioni addotte per ritenere non in contrasto con la libertà di religione l’esposizione del crocifisso nelle scuole (e negli uffici pubblici), così come di ogni altra forma di confessionalismo statale, sono divenute ormai giuridicamente inconsistenti, storicamente e socialmente anacronistiche, addirittura contrapposte alla trasformazione culturale dell’Italia e, soprattutto, ai principi costituzionali che impongono il rispetto per le convinzioni degli altri e la neutralità delle strutture pubbliche di fronte ai contenuti ideologici.
Per tale ragione, non può concordarsi con quell’opinione che ritiene che il crocifisso potrebbe rimanere nella aule scolastiche «quando l’insieme degli studenti (se maggiorenni, o dei loro genitori se minorenni) di una scuola pubblica vi colgano tutti pacificamente, implicitamente, un comune significato culturale (oltre a quello di fede dei soli cristiani); se viceversa anche un solo alunno ritenga di essere leso nella propria libertà religiosa negativa, essi andrebbero rimossi».
Proprio perché è in questione non solo la libertà di religione degli alunni, ma anche la neutralità di un’istituzione pubblica, non è possibile prospettare una realizzazione del principio di laicità dello Stato e, quindi, della libertà di religione dei consociati “a richiesta”, ma piuttosto deve essere connaturato all’operare stesso dell’amministrazione pubblica.
A ciò si aggiunga che ritenere il crocifisso sia solo un “simbolo passivo”, oltre a sviare la forte valenza religiosa per la fede cristiana di tale simbolo, costituisce una forzatura. Il crocifisso assume, infatti, nella sua sinteticità evocativa una particolarmente complessa polivalenza significante: se ogni simbolo è costituito da una realtà conoscitiva, intuitiva, emozionale molto più ampia di quella contenuta nella sua immediata evidenza, per il crocifisso ciò si esalta, comprende una realtà complessa, che intrinsecamente non si può esprimere per tutti nello stesso modo univoco....In particolare, nell’ambito scolastico, la presenza del simbolo della croce induce nell’alunno ad una comprensione profondamente scorretta della dimensione culturale della espressione di fede, perché manifesta l’inequivoca volontà –dello Stato, trattandosi di scuola pubblica– di porre il culto cattolico «al centro dell’universo, come verità assoluta, senza il minimo rispetto per il ruolo svolto dalle altre esperienze religiose e sociali nel processo storico dello sviluppo umano, trascurando completamente le loro inevitabili relazioni e i loro reciproci condizionamenti”:
5°) Infine, dirimente è la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 3.11.2009 (Lautsi Soile c./Italia) che ha così statuito: “55. La presenza del crocifisso può facilmente essere considerata da allievi di qualsiasi età un segno religioso e questi si sentiranno quindi istruiti in un ambiente scolastico influenzato da una religione specifica. Ciò che può essere gradito da alcuni allievi religiosi, può essere sconvolgente emotivamente per allievi di altre religioni o per coloro che non professano nessuna religione. Questo rischio è particolarmente presente negli allievi che appartengono a minoranze religiose. La libertà negativa non è limitata all’assenza di servizi religiosi o di insegnamenti religiosi. Essa si estende alle pratiche e ai simboli che esprimono, in particolare o in generale, una credenza, una religione o l'ateismo. Questo diritto negativo merita una protezione particolare se è lo Stato che esprime una credenza e se la persona è messa in una situazione di cui non può liberarsi o soltanto con degli sforzi e con un sacrificio sproporzionati.
56. L’esposizione di uno o più simboli religiosi non può giustificarsi né con la richiesta di altri genitori che desiderano un’istruzione religiosa conforme alle loro convinzioni, né, come il governo sostiene, con la necessità di un compromesso necessario con le componenti di ispirazione cristiana. Il rispetto delle convinzioni di ogni genitore in materia di istruzione deve tenere conto del rispetto delle convinzioni degli altri genitori. Lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale nel quadro dell’istruzione pubblica obbligatoria dove la presenza ai corsi è richiesta senza considerazione di religione e che deve cercare di insegnare agli allievi un pensiero critico. La Corte non vede come l’esposizione nelle aule di scuole pubbliche di un simbolo che è ragionevole associare al cattolicesimo (la religione maggioritaria in Italia) potrebbe servire al pluralismo educativo che è essenziale alla preservazione d’una "società democratica" come la concepisce la Convenzione, e alla preservazione del pluralismo che è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale nel diritto nazionale (vedi paragrafo 24).
57. La Corte ritiene che l’esposizione obbligatoria di un simbolo confessionale nell’esercizio del settore pubblico relativamente a situazioni specifiche che dipendono dal controllo governativo, in particolare nelle aule, viola il diritto dei genitori di istruire i loro bambini secondo le loro convinzioni e il diritto dei bambini scolarizzati di credere o non di credere. La Corte considera che questa misura violi questi diritti poiché le restrizioni sono incompatibili con il dovere che spetta allo Stato di rispettare la neutralità nell’esercizio del settore pubblico, in particolare nel settore dell’ istruzione.”
Né varrebbe sostenere che il “crocifisso” non è un simbolo religioso ma è un simbolo “culturale” (o “anche” culturale). Infatti, al di là dell’assurdità di questa affermazione -che è palesemente smentita dalla normativa penale che punisce, come offesa al “sentimento religioso”, chi “vilipende” i crocifissi- resta il fatto che il diritto all’eguaglianza e alla non discriminazione non è limitato alla sfera “religiosa” dell’individuo, ma è esteso anche alle “culture” ed alle “tradizioni”, sicché qualsiasi privilegio o discriminazione di queste ultime finisce per integrare atti discriminatori vietati al pari delle discriminazioni “religiose”.
Su questo punto non possono esservi dubbi, dal momento che lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura, richiamando specifiche sentenze della Corte Costituzionale, ha respinto questa insulsa argomentazione affermando nella citata ordinanza del 23.11.2006:
“Meno convincente sembra invece l’orientamento che, per negare il rilevato contrasto, nega o quanto meno riduce fortemente il valore del crocifisso come simbolo religioso. In tal senso si sono espressi il citato parere del Consiglio di Stato (sezione li, 27 aprile 1988, n. 63) - secondo cui il crocifisso “a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendente da specifica confessione religiosa” -, l’ordinanza del Tribunale dell’Aquila del 31 marzo 2005 - incentrata sul carattere culturale che il crocifisso ormai avrebbe assunto - e la sentenza del TAR. del Veneto 22 marzo 2005, n. 1110, la quale, sulla base del rilievo della secolarizzazione della società e della posizione di minoranza assunta dai credenti e praticanti, alla quale si contrapporrebbe la larga adesione ai valori secolarizzati del cristianesimo, ha affermato che “nell’attuale realtà sociale il crocifisso debba essere considerato non solo come simbolo di un ‘evoluzione storica e culturale, e quindi dell’identità del nostro popolo, ma come simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, principi questi che innervano la nostra Carta costituzionale.”
A parte il rilievo, efficacemente espresso nella sentenza del Bundesverfassungsgericht 16 maggio 1995, secondo cui costituirebbe “una violazione dell’autonomia confessionale dei cristiani ed una sorta di profanazione della croce non considerare questo simbolo come segno di culto in collegamento con uno specifico credo” e l’evidente contraddizione logica tra l’affermazione del valore identitario e quella della portata universale del simbolo, resta il fatto che, anche a poter condividere la tesi del significato meramente culturale del crocifisso, il problema della tutela della libertà di coscienza e del pluralismo si sposterebbe dal terreno esclusivamente religioso a quello appunto culturale, ma non sarebbe risolto, in quanto dai principi costituzionali in precedenza individuati deriva che l’amministrazione pubblica non può scegliere di privilegiare un aspetto della tradizione e della cultura nazionale, sia pure largamente maggioritaria, a discapito di altri minoritari, in contrasto con il progetto costituzionale di una società in cui “hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse” (Corte cost. n. 440 del 1995)”.
Riepilogando: dalla natura inconfutabilmente “religiosa” del “crocifisso” consegue che la sua ostensione nelle aule scolastiche debba ritenersi lesiva del diritto inviolabile di libertà religiosa (art. 19 Cost.) degli alunni che frequentano -o addirittura sono costretti a frequentare, come nel caso di XXXXXXXXX- le scuole pubbliche italiane.
Va soggiunto, a chiusura di questo motivo, che il diritto di libertà religiosa implica anche il diritto di “non essere costretti a manifestare i propri convincimenti religiosi, né in modo diretto né in modo indiretto”. Questo principio è stato affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande camera, 21 febbraio 2008, ric. 19516/06, Alexandridis c. Grecia, che così si è espressa:
“38. la Corte ritiene che la libertà di manifestare le proprie convinzioni religiose comporta ugualmente anche un aspetto negativo, vale a dire salvaguardare il diritto del singolo a non essere costretto a manifestare la sua religione o credenze religiose e non essere costretto ad agire in modo che si possa trarre la conclusione che egli ha - o non ha - tali convinzioni. Agli occhi della Corte, le autorità non hanno alcun diritto di intervenire nel dominio della libertà di coscienza dei singoli individui e di cercare il loro credo religioso, o per chiedere loro di manifestare il loro credo religioso concernenti il loro concetto di divinità”.
Negli stessi termini si è pronunciata la Corte Costituzionale italiana nelle sentenze n. 12 del 1972 e n. 117 del 1979, laddove si è evidenziato che il diritto di libertà religiosa implica anche quello di “non rivelare le proprie convinzioni”.
TERZO MOTIVO
Violazione del diritto primario dei genitori di impartire ai figli nelle scuole pubbliche un’educazione conforme alle proprie convinzioni religiose e filosofiche (articoli 2 e 117 Cost. in relazione all’art. 2 Prot. addizionale alla L. 4.8.1955 n. 848).
L’art. 2 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo sancisce, al comma 2°, che “lo Stato, nell’attività che svolge nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, rispetterà il diritto dei genitori di assicurare questa educazione e questo insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche”.
Ebbene, l’imposizione del crocifisso nelle aule scolastiche pubbliche -che il minore XXXXXXXXX è costretto a frequentare per assolvere l’obbligo scolastico- è completamente difforme dalle convinzioni religiose dei suoi genitori che, oltre a non essere cattolici né aderenti ad altra setta religiosa, aborrono l’idolatria e considerano il messaggio sublimale del crocifisso altamente immorale e diseducativo: si tratta, infatti, di un inconcepibile figlicidio perpetrato da un Dio-padre per “salvare” (non si sa da che) un terzo colpevole, cioè l’umanità “peccatrice” (non si sa di cosa)
Ma i genitori di XXXXXXXX ritengono che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche sia anche -e soprattutto- un atto altamente ingiurioso, offensivo ed oltraggioso dei valori di onestà, di civiltà e di tolleranza che dovrebbero ispirare il genere umano: sotto il profilo strettamente storico, infatti, il crocifisso rappresenta il vessillo della più grande associazione di criminali che si è resa artefice, in circa 1.700 anni di storia nefasta (dalle crociate, all’inquisizione, ai genocidi nelle Americhe) dei più efferati crimini contro l’umanità, provocando lo sterminio di centinaia di milioni di esseri umani. Esporre il crocifisso nelle aule, dunque, è un oltraggio alla memoria di queste centinaia di milioni di poveri disgraziati, vittime della criminalità della Chiesa e dei cristiani.
In ogni caso, anche alla luce della sentenza della CEDU del 3.11.2009 e dell’ordinanza del Giudice dell’Aquila del 22.10.2003, è innegabile che l’imposizione del crocifisso nelle aule scolastiche violi il diritto dei genitori ricorrenti. Sotto questo profilo è da evidenziare, anzi, la protervia del Consiglio di Istituto di Ceprano che, pur essendo a perfetta conoscenza della sentenza della Corte Europea, l’ha deliberatamente disattesa con un’arroganza che dimostra -semmai ce ne fosse bisogno- come i cattolici non abbiano ancora percepito il significato dell’espressione “reciproco rispetto” che dovrebbe stare alla base della tanto sbandierata “tolleranza” che, a loro dire, promanerebbe dal loro “crocifisso”. Essi, infatti, seguitano a “razzolar male”, disattendendo proprio quel principio di tolleranza nei confronti di tutti coloro che la pensano in modo diverso.
QUARTO MOTIVO
Violazione del diritto di eguaglianza e non discriminazione (art. 3 Cost., art. 14 L. 848/1955 e 117 Cost., art. 43 d.lgs. n. 286/1998).
L’esposizione del SOLO crocifisso cattolico nelle aule scolastiche -in vero e proprio regime di monopolio- costituisce non soltanto un’arrogante “appropriazione” di uno spazio “pubblico” -che cioè appartiene a TUTTI gli italiani- da parte di una minoranza religiosa, ma costituisce anche un atto discriminatorio del tutto illegittimo nei confronti di tutti coloro che non sono cattolici, che cioè professano altra religione o non ne hanno alcuna: a tutti costoro, infatti, è inibito esporre i propri simboli in regime di pari dignità, di pari diritti e di pari opportunità.
Questo comportamento discriminatorio della P. A. viola, dunque:
1°) l’art. 3 della Costituzione, che sancisce che “tutti i cittadini -quindi anche XXXXXXXXX- “hanno pari dignità e sono uguali dinanzi alla legge, senza distinzione di religione”;
2°) l’art. 14 della medesima convenzione, intitolato “Divieto di discriminazione”, che sancisce che “il godimento dei diritti civili e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere garantito a tutti, quindi anche a XXXXXXXXX, senza alcuna distinzione, fondata soprattutto sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o altre opinioni...”;
3°) l’art. 3 della legge 13.10.1975 n. 654, che punisce con la reclusione sino a tre anni “chi commette atti di discriminazione per motivi...religiosi”, sicché è grottesco che l’alunno XXXXXXXXX sia discriminato “impunemente” dallo Stato italiano per motivi religiosi.
4°) l’art. 43 del D. L.vo n. 286/1998, titolato “Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, che sanziona come atto discriminatorio “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulle........ convinzioni e pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica” e stabilisce che “compie un atto di discriminazione... il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione....... di appartenente ad una determinata..... religione lo discriminino ingiustamente” nonché “il datore di lavoro o i suoi preposti i quali....... compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una.............confessione religiosa”.
Conseguentemente, l’art. 44 del medesimo d.lgs. dispone che, “Quando il comportamento....... della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi..... religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione”.
E che l’esposizione del “SOLO” crocifisso sia un atto discriminatorio lo afferma, in termini espliciti, la IV Sezione penale della Corte di Cassazione nella sentenza 1.3.2000 n. 4273 (Montagnana), laddove afferma che “l'ostensione del solo crocifisso urta contro il chiaro divieto posto in questa materia dall'art. 3 cost., come ha recentemente ricordato corte cost. 14.11.1997, n. 329, laddove ha sottolineato - con un'affermazione tale da assumere la portata di un orientamento generale, al di là della specifica questione dell'art. 404 c.p. ivi scrutinata - come "il richiamo alla cosiddetta coscienza sociale, se può valere come argomento di apprezzamento delle scelte del legislatore sotto il profilo della loro ragionevolezza, è viceversa vietato laddove la Costituzione, nell'art. 3, 1° comma, stabilisce espressamente il divieto di discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l'appunto la religione". E, nella specie, si differenzia appunto in base alla religione nel momento in cui si dispone l'esposizione del SOLO crocifisso”.
Ma esistono anche altre norme che stigmatizzano la “discriminazione” motivata da convincimenti religiosi. E cioè:
A) la direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che sancisce “il diritto di tutti all'uguaglianza dinanzi alla legge” e dispone che “la protezione contro le discriminazioni costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, dalla convenzione delle Nazioni Unite sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, dai patti delle Nazioni Unite relativi rispettivamente ai diritti civili e politici e ai diritti economici, sociali e culturali e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali di cui tutti gli Stati membri sono firmatari”. Tale direttiva dispone anche che “la discriminazione basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali può pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del trattato CE, in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera circolazione delle persone.”
B) L’art. 2 del D. Lgs. n. 216/2003 che, recependo la direttiva europea 2000/78/CE, sanziona qualsiasi forma di “discriminazione” da parte del datore di lavoro pubblico o privato, e cioè sia la “discriminazione diretta” (“quando, per religione...... una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga”) che quella “indiretta” (“quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione ...... in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”). Dunque, è a dir poco lampante che lo Stato non può discriminare i suoi dipendenti non cattolici o atei (ad es. gli insegnanti), imponendo il “crocifisso” e vietando loro l’esposizione degli altri simboli. E se questo principio vale per i “dipendenti”, deve anche valere per gli alunni che -come puntualizza la Corte europea dei diritti dell’Uomo- “sono messi in una situazione di cui non possono liberarsi o di cui si possono liberare soltanto con degli sforzi e con un sacrificio sproporzionati”.
C) Anche l’art. 8 della Costituzione, sancendo che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”, afferma un principio di eguaglianza a favore dell’alunno XXXXXXXXX: anche la sua “ideologia religiosa negativa”, infatti, merita lo stesso rispetto di quella “positiva” dei cattolici, che espongono i loro “idoli”.
D) L’art. 19 della Costituzione sancisce che “tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, di farne propaganda e di esercitarne il culto anche in pubblico”: se i cattolici “professano” la loro fede con l’esposizione dei crocifissi, a XXXXXXXXX deve essere quantomeno accordato il diritto di professare la sua “fede” con l’esposizione del simbolo dell’UAAR (Unione Atei Agnostici Razionalisti).
E) L’art. 9 della Convenzione internazionale sui diritti dell’Uomo dice che “ogni persona -e quindi anche XXXXXXXXX- ha diritto alla libertà di.... religione; questo diritto importa la libertà di cambiare religione.... come anche la libertà di manifestare la propria religione.... individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, per mezzo del culto, dell’insegnamento, di pratiche e di compimento di riti”.
F) Non è senza significato la circostanza che l’art. 58 del regolamento penitenziario (D.P.R. 30.6.2000 n. 230) accordi a tutti i detenuti il sacrosanto diritto di esporre, nella propria camera o nel proprio spazio di appartenenza, immagini e simboli della propria confessione religiosa, evitando così qualsiasi possibile discriminazione tra i credenti o assurdi “privilegi” a favore dei cattolici. Da tale norma si evince dunque il principio che l’esposizione di un solo simbolo è da considerare discriminatoria, se a tutti coloro che si identificano in altri simboli è negata eguale facoltà.
G) La convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995 e ratificata con Legge 28 agosto 1997, n. 302, sancisce all’art. 6 che “Le Parti incoraggeranno lo spirito di tolleranza ed un dialogo inter-culturale, ed adotteranno misure effettive per promuovere il rispetto e la comprensione reciproca, nonché la cooperazione tra tutte le persone che vivono sul loro territorio, a prescindere dalla loro identità ......religiosa....... e si s’impegnano ad adottare ogni misura appropriata per proteggere le persone che potrebbero essere vittime di minacce o di atti di discriminazione, di ostilità o di violenza in ragione della loro identità...... religiosa”.
H) L’art. 2, parte I^, della L. 8.3.1989 n. 101 ha sancito che, “in conformità ai principi della Costituzione, è riconosciuto il diritto di professare e praticare liberamente la religione ebraica in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto e i riti”, che “é assicurata in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa, senza discriminazione tra i cittadini e tra i culti”.
Concludendo, sulla base di tutta questa univoca normativa -che “rema” contro qualsiasi forma di “discriminazione”- appare francamente grottesco che vi sia ancora chi sostenga, in Italia, di avere il “diritto” di “marcare” le aule scolastiche coi propri simboli in regime di “monopolio”, escludendo cioè tutti gli altri. Questo comportamento “razzistico” denota un’inaccettabile intolleranza e, in ogni caso, viola il diritto del minore XXXXXXXXXXX all’eguaglianza: non a caso la Corte Costituzionale, con sent. n. 195/1993, ha affermato che “qualsiasi DISCRIMINAZIONE in danno dell'una o dell'altra fede è COSTITUZIONALMENTE INAMMISSIBILE in quanto contrasta con il diritto di libertà di religione e con il principio di eguaglianza”.
Si rammenta, poi, che la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale esclude che in materia di “diritti individuali inviolabili” (tra i quali primeggiano quelli di libertà di religione e di eguaglianza religiosa) possa valere il “criterio della maggioranza numerica”: dunque, nessun valore potrebbe essere attribuito alla circostanza che la delibera dell’Istituto Comprensivo Statale di Ceprano sia stata presa a maggioranza o all’unanimità (cfr. sentenze Corte Cost. n. 925/1988, n. 203 del 1989, n. 259 del 1990, n. 195 del 1993, n. 440/1995, n. 329 del 1997, n. 508 del 2000, n. 327 del 2002 e n. 168 del 2005).
E il motivo per il quale nessuna maggioranza può "dettare legge" in materia di diritti individuali è intuibile anche da persone completamente digiune di diritto: se ciò fosse possibile, infatti, la "maggioranza" degli italiani -che è costituita da uomini di pelle "bianca"- potrebbe ad esempio approvare leggi discriminatorie nei confronti dei "neri", non essendo in dubbio che i neri costituiscono, in Italia, una minoranza!
QUINTO MOTIVO
Violazione del principio supremo di laicità (articoli 2,3,7,8,19 e 20 Cost).
Questi i riferimenti normativi e i princìpi di cui si dovrà tenere conto.
L'art. 3 della Costituzione sancisce che "tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di....religione..." Questo significa che i cittadini che credono in religioni diverse da quella cattolica -o che non credono in nessuna religione- sono eguali ai "cattolici": conseguentemente, i cattolici non possono godere di anacronistici "privilegi" tra i quali, appunto, vi è quello dell' "occupazione", in "regime di monopolio", degli spazi pubblici per l'esposizione del loro simbolo.
Pertanto le pareti dei tribunali, delle scuole, dei seggi elettorali e degli uffici pubblici in genere, essendo "pubbliche", cioè appartenendo a "TUTTI" i cittadini italiani, non possono essere "legittimamente" utilizzate dai soli cattolici o, peggio ancora, non può essere lo Stato stesso ad "addobbare" queste pareti all'esplicito scopo di connotare di "cristianità" le funzioni pubbliche esercitate dai dipendenti e dai funzionari.
Come sopra visto, nessun rilievo assume l'eventuale circostanza (peraltro oggi tutta da verificare) che la "maggioranza" dei cittadini italiani appartenga alla confessione cattolica. L'art. 8 della Costituzione sancisce infatti che tutte le confessioni religiose sono eguali di fronte alla legge: pertanto lo Stato non può privilegiare o discriminare alcuna confessione religiosa.
Il necessario completamento di questi principi di eguaglianza è contenuto nell'art. 19 della Costituzione, a mente del quale "tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto". Quindi, lo Stato si deve astenere da assurdi atti di "professione" o di "propaganda" di fede, attuati attraverso l'esposizione pubblica dei crocifissi e, in ogni caso, non può comprimere o impedire l'esercizio del medesimo culto o della medesima propaganda di fede da parte degli altri cittadini e da parte della altre confessioni religiose.
Il cd. principio SUPREMO di "laicità" dello Stato, dunque, nient’altro è se non il "rovescio della medaglia" del diritto soggettivo assoluto all'EGUAGLIANZA, che compete ai singoli cittadini ed alle confessioni religiose, tant’è che la Corte Costituzionale oramai costantemente lo definisce come "l'obbligo di equidistanza, l'imparzialità e la neutralità che lo Stato ha verso tutte le religioni secondo il disposto dell'art. 8 della Costituzione, ove è appunto sancita l'eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge" (da ultimo, in tal senso, Corte Cost. 18.4.2005-29.4.2005 n. 168).
In estrema sintesi, se tutti i "cittadini" sono eguali dinanzi alla legge, senza distinzione di religione, lo Stato non può privilegiare o discriminare, in relazione al credo religioso, nessuno dei suoi cittadini.
E se lo Stato ha l'obbligo di non discriminare i cittadini, è assai ovvio che i cittadini hanno il DIRITTO soggettivo a non essere discriminati e ad essere trattati con imparzialità, neutralità ed equidistanza in relazione al proprio credo o alla propria religione.
E se i cittadini e le confessioni religiose hanno un “diritto” (all’eguaglianza e non discriminazione) nei confronti dello Stato, è chiaro che ci si trova di fronte ad un vero e proprio “rapporto giuridico”, in virtù del quale lo Stato è tenuto a non discriminare alcun cittadino o alcuna confessione.
Il cd. "principio di laicità", dunque, non è un oggetto "marziano" o un'invenzione della Corte Costituzionale, bensì un vero e proprio "rapporto giuridico" che scaturisce dalla circostanza che tutti i cittadini e tutte le fedi religiose hanno eguali diritti e pari dignità, sicché tutti gli altri consociati -e quindi anche e soprattutto lo Stato- hanno il corrispondente obbligo di non discriminare i cittadini e le confessioni religiose in ragione del credo.
Si verte, dunque, nella classica fattispecie dei diritti soggettivi assoluti di rango costituzionale: di diritti, cioè, che possono essere fatti valere -dai cittadini e dalle confessioni religiose- nei confronti di chiunque, ivi incluse le Autorità.
Così, in effetti, ha sentenziato la Corte Costituzionale nella sent. n. 195/1993: "qualsiasi DISCRIMINAZIONE in danno dell'una o dell'altra fede è COSTITUZIONALMENTE INAMMISSIBILE in quanto contrasta con il diritto di libertà di religione e con il principio di eguaglianza" (cfr anche Corte Cost., sent. n. 122/1970: "le libertà fondamentali affermate, garantite e tutelate dalla Costituzione della Repubblica sono riconosciute come diritti del SINGOLO, che il singolo deve poter far valere erga omnes. Essendo compresa tra tali diritti anche la libertà di manifestazione del pensiero proclamata dall'art. 21, deve senza dubbio imporsi al rispetto di tutti, delle autorità come dei consociati. Nessuno può quindi recarvi attentato, senza violare un bene assistito da rigorosa tutela costituzionale".)
E’ da evidenziare che il “principio supremo di laicità” non è una prerogativa esclusiva della Costituzione italiana o di altri Stati, ma è un principio fondamentale condiviso dalla Convenzione sui diritti dell’uomo, approvata nel 1950 e recepita dall’Italia con la legge 4.8.1955 n. 848 (artt. 9 e 14), sicché lo Stato Italiano è obbligato a rispettare questo fondamentale principio di “neutralità” e ne risponde dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
E non è fuori luogo ricordare che -oltre alla Corte Costituzionale Tedesca- anche la Corte Federale Svizzera con sentenza 26.9.1990 ha dichiarato l'illegittimità dell'esposizione del crocifisso per violazione dei principi di eguaglianza e di laicità dello Stato: “"La laicità dello Stato si riassume in un obbligo di neutralità che impone allo Stato di astenersi negli ATTI PUBBLICI, da qualsiasi considerazione confessionale, suscettibile di compromettere la libertà dei cittadini in una società pluralista. L'esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole elementari non adempie alle esigenze di neutralità previste dall'art. 27 cpv 3 della Costituzione".
Per altro verso, infine, l'art. 3 della L. 13.10.1975 n. 654 (ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 17.3.1966) addirittura "punisce con la reclusione sino a tre anni chi.....commette atti di discriminazione per motivi ...religiosi", sicché il "privilegio" accordato ai soli cattolici integra anche gli estremi di un atto di discriminazione religiosa, quantomeno perché si impedisce a cittadini di "razza inferiore" (leggi: non credenti o credenti in altre religioni) di esporre i propri simboli.
Traendo le debite conclusioni da tutte le surrichiamate norme, appare evidente che l'esposizione del solo crocifisso nelle aule scolastiche e negli uffici pubblici viola patentemente il principio supremo di laicità.
Val la pena di ribadire che il concetto di laicità, che la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione hanno esplicitamente identificato nella neutralità, nell'equidistanza e nell'imparzialità dello Stato nei confronti delle religioni, implica che le religioni, in uno Stato laico, debbano essere necessariamente relegate nell'ambito della sfera "privata" dei cittadini e, dunque, rimanere al di fuori della sfera "pubblica" dei poteri e delle istituzioni statuali. Si ribadisce, infatti, che lo Stato e gli enti pubblici non possono reclamare alcun assurdo diritto di "professare la propria fede", dal momento che l'art. 19 della Costituzione riserva tale diritto solo ai "cittadini", sia singolarmente che in forma associata, e NON AGLI ENTI PUBBLICI!!!!.
Solo una "scelta confessionale", a livello costituzionale, potrebbe giustificare che una "religione di stato" venga inserita (anche) nel settore pubblico e che, nell'ambito di questo settore, possa godere di veri e propri "privilegi", ivi incluso quello di esporre il simbolo religioso nei luoghi pubblici. Dal momento, però, che lo Stato Italiano è uno stato laico -che ha espressamente ripudiato il confessionalismo della dittatura fascista- l'ostensione del simbolo della "ex Religione di Stato" è da ritenere palesemente illegittima, sia perché discrimina e viola i diritti costituzionali di eguaglianza dei "diversi", sia perché, evocando, affermando e trasmettendo un "messaggio" di "confessionalità", viola patentemente il principio supremo della laicità dello Stato.
Tutte queste motivazioni giuridiche sono state puntualmente affermate dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 508 del 13.11.2000, dep. il 20.11.2000, che così si è espressa: "Posta dal legislatore penale del 1930, la norma impugnata, insieme a tutte le altre che prevedono una protezione particolare a favore della religione dello Stato-religione cattolica, si spiega per il rilievo che, nelle concezioni politiche dell'epoca, era riconosciuto al cattolicesimo quale fattore di unità morale della nazione. In questo senso, la religione cattolica era "religione dello Stato" - anzi necessariamente "la sola" religione dello Stato (formula risalente all'art. 1 dello Statuto albertino e riportata a novella vita dall'art. 1 del Trattato fra la Santa Sede e l'Italia del 1929): oltre che essere considerata oggetto di professione di fede, essa era assunta a elemento costitutivo della compagine statale e, come tale, formava oggetto di particolare protezione anche nell'interesse dello Stato. Le ragioni che giustificavano questa norma nel suo contesto originario sono anche quelle che ne determinano l'incostituzionalità nell'attuale. In forza dei principi fondamentali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3 della Costituzione) e di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 della Costituzione), l'atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti di queste ultime, senza che assumano rilevanza alcuna il dato quantitativo dell'adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997) e la maggiore o minore ampiezza delle reazioni sociali che possono seguire alla violazione dei diritti di una o di un'altra di esse (ancora la sentenza n. 329 del 1997), imponendosi la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza (così ancora la sentenza n. 440 del 1995)..... Tale posizione di equidistanza e imparzialità è il riflesso del principio di laicità che la Corte costituzionale ha tratto dal sistema delle norme costituzionali, un principio che assurge al rango di «principio supremo» (sentenze nn. 203 del 1989, 259 del 1990, 195 del 1993 e 329 del 1997), caratterizzando in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse (sentenza n. 440 del 1995)".
Negli stessi termini, con riferimento specifico al caso dell’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici, si è pronunciata la IV Sez. Pen. della Cassazione (sentenza n. 4273/2000) e la VI Sez. penale (sentenza n. 28482/2009).
Sul punto, peraltro, è inutile dilungarsi, perché la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sent. 3.11.2009 (Lautsi Soile) ha “tagliato la testa al toro” statuendo che: “l’esposizione di uno o più simboli religiosi non può giustificarsi né con la richiesta di altri genitori che desiderano un’istruzione religiosa conforme alle loro convinzioni, né, come il governo sostiene, con la necessità di un compromesso necessario con le componenti di ispirazione cristiana. Il rispetto delle convinzioni di ogni genitore in materia di istruzione deve tenere conto del rispetto delle convinzioni degli altri genitori. Lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale nel quadro dell’istruzione pubblica obbligatoria dove la presenza ai corsi è richiesta senza considerazione di religione e che deve cercare di insegnare agli allievi un pensiero critico. La Corte non vede come l’esposizione nelle aule di scuole pubbliche di un simbolo che è ragionevole associare al cattolicesimo (la religione maggioritaria in Italia) potrebbe servire al pluralismo educativo che è essenziale alla preservazione d’una "società democratica" come la concepisce la Convenzione, e alla preservazione del pluralismo che è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale nel diritto nazionale (vedi paragrafo 24).
57. La Corte ritiene che l’esposizione obbligatoria di un simbolo confessionale nell’esercizio del settore pubblico relativamente a situazioni specifiche che dipendono dal controllo governativo, in particolare nelle aule, viola il diritto dei genitori di istruire i loro bambini secondo le loro convinzioni e il diritto dei bambini scolarizzati di credere o non di credere. La Corte considera che questa disposizione violi questi diritti poiché le restrizioni sono incompatibili con il dovere che spetta allo Stato di rispettare la neutralità nell’esercizio del settore pubblico, in particolare nel settore dell’ istruzione”.
Anche il Consiglio Superiore della Magistratura, peraltro, con l’ordinanza dep. il 23.11.2006, sopra menzionata, si era pronunciato negli stessi termini a proposito del crocifisso esposto nelle aule giudiziarie. Così scrive il CSM: “In secondo luogo, anche a poter ritenere non decisivo questo profilo, resta poi che la predetta circolare appare in contrasto con il principio costituzionale di laicità dello Stato e con la garanzia della libertà di coscienza e di religione, essendo pacifico (v. in tal senso cass. sez. unite 18 novembre 1997, n. 11432 e sez. disciplinare 15 settembre 2004, Sansa) che nessun provvedimento amministrativo può limitare diritti fondamentali di libertà, al di fuori degli spazi eventualmente consentiti da una legge ordinaria conforme a costituzione.
Come è noto la Corte Costituzionale, con sentenza n. 203 del 1989 (nonché con le sentenze n. 259 del 1990 e 195 del 1993), ha affermato che il principio di laicità (o di aconfessionalità) dello Stato, pur non essendo esplicitamente menzionato (come invece avviene nell’art. 1 della Costituzione francese del 1958), è certamente desumibile dagli articoli 2,3,7,8,19 e 20 Cost. e ha trovato un importante conferma, a livello di legge ordinaria, nell’art. 1 del Protocollo addizionale degli Accordi con la Santa sede di cui alla legge n. 121 del 1985 (abrogazione della regola secondo la quale la religione cattolica è la sola religione dello Stato). Tale principio, inoltre, è uno delle caratteristiche della nostra forma di Stato e appartiene al novero dei principi supremi dell’ordinamento che, secondo un costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, hanno valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale.
Quanto al contenuto del principio di laicità la giurisprudenza costituzionale ha affermato che lo stesso non implica irrilevanza o indifferenza rispetto all’esperienza religiosa, secondo l’impostazione dello Stato liberale classico, ma garanzia per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale e, in senso più ampio, possibilità di convivenza in condizioni uguaglianza non solo di fedi, ma anche di culture e tradizioni diverse (corte cost. n. 440 del 1995). Ne consegue, da un lato, che in materia religiosa, lo Stato deve essere equidistante, imparziale (sentenze nn. 329 del 1997, 508 del 2000, 327 del 2002) e neutrale (sentenza n. 235 del 1997) e, dall’altro, che l’ordine delle questioni religiose e quello delle questioni civili debbono rimanere separati, con la conseguenza che “in nessun caso il compimento di atti appartenenti, nella loro essenza, alla sfera della religione possa essere l’oggetto di prescrizioni obbligatorie derivanti dall’ordinamento giuridico dello Stato e (il) divieto di ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei precetti statali;... la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo al fine dello Stato” (sentenza n. 334 del 1996).”
DOMANDA DI SOSPENSIVA
Si chiede che il provvedimento e gli atti impugnati, siccome incidenti su diritti inviolabili del minore XXXXXXXXX e dei loro genitori, vengano sospesi dal TAR adito -con conseguente ordine di immediata rimozione dei crocifissi dall’Istituto Comprensivo Statale di Ceprano, sussistendo il requisito del fumus boni iuris -così come acclarato anche dalla recente sentenza della CEDU- nonché gli estremi, altrettanto evidenti, dei danni gravi ed irreparabili.
Sotto quest’ultimo profilo è utile richiamare la motivazione esposta dal Tribunale civile dell’Aquila nell’ordinanza cautelare del 22.10.2003: “Il danno lamentato, poi, è per definizione irreparabile. Come più volte si è ripetuto, si è in presenza di un diritto di libertà assoluto e costituzionalmente garantito, non suscettibile di essere risarcito in relazione alla lesione medio tempore patita. Non a caso, infatti, la domanda di merito proposta dal ricorrente è di risarcimento in forma specifica attraverso la condanna dell’Istituto convenuto alla rimozione del simbolo della croce, trattandosi di lesione per definizione non risarcibile in termini economici.
A tal proposito non appare superfluo osservare che la rimozione del crocifisso, che il ricorrente invoca come indispensabile per prevenire la (ulteriore) lesione, è l’unica misura possibile per inibire la lesione del diritto di libertà dei figli minori, poiché l’alternativa sarebbe non far partecipare all’attività didattica i piccoli A. e K.. In relazione al primo, in partcolare, non è neanche rimesso alla discrezione dell’utente (o dei genitori di questo) la scelta se fruire o meno del servizio di istruzione pubblica: infatti, la L. 31 dicembre 1962, n. 1859 prevede l’obbligo e prevede all’art. 8 la responsabilità dei genitori o di chi ne fa le veci - anche penale per l’istruzione elementare (art. 731 c.p.) – per l’adempimento dell’obbligo da parte dei figli minori per complessivi dieci anni (cfr. L. 20 gennaio 1999, n. 9).
Nel caso di specie, peraltro, l’adito TAR dovrà considerare che il minore XXXXXX Guerrera ha maturato un irreversibile stato di frustrazione indotto dagli atti di discriminazione religiosa cui è stato sottoposto da parte dell’Autorità scolastica, sicché ha maturato l’intenzione di rifiutarsi -per diritto di libertà di coscienza- di soggiacere agli atti discriminatori e, dunque, di seguitare a frequentare l’Istituto Comprensivo di Ceprano se non verranno rimossi i crocifissi o se, in via alternativa, non verranno esposti al loro fianco i suoi simboli, cioè i loghi dell’UAAR (Unione degli Atei ed Agnostici Razionalisti).
Ricorrono dunque gli estremi per un’urgentissima emissione, da parte del TAR, dei provvedimenti urgenti atti ad eliminare la lesione, in atto, dei diritti inviolabili di libertà di religione, di libertà di coscienza e dei diritti di eguaglianza e non discriminazione del minore Guerrera XXXXXXXX, nonché del corrispondente diritto dei genitori di assicurare al minore un’educazione conforme ai loro convincimenti religiosi.
Questi provvedimenti vengono richiesti anche ai sensi dell’art. 44 del d.lgs. 286/1998, che dispone che, “Quando il comportamento....... della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi..... religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione”.
A tal proposito si evidenzia che il d.lgs. n. 286/1998 si applica -oltre che agli stranieri- anche “ai cittadini degli Stati membri dell'Unione europea....in quanto si tratti di norme più favorevoli” (art. 1).
Si confida pertanto nella concessione delle misure cautelari idonee, e cioè nell’ordine di rimozione dei crocifissi dall’intero Istituto di Ceprano o, in subordine, nell’affissione, a fianco dei crocifissi, dei loghi dell’UAAR.
Pertanto, quanto sopra premesso,
SI CHIEDE
che l'Ecc.mo T.A.R. del Lazio, Sezione distaccata di Latina, voglia annullare, previa sospensiva dell’atto impugnato e degli atti presupposti e connessi e previa emissione dei provvedimenti cautelari atti ad eliminare la palese discriminazione ai danni del minore XXXXXXXXX, la delibera del 5.2.2010 dell’Istituto Comprensivo Statale di Ceprano, con ogni riserva di più ampiamente dedurre nel corso del giudizio. Vinte le spese, sia in virtù del principio di soccombenza, sia in considerazione del contegno intollerante, razzistico e sopraffattore tenuto dall’Istituto scolastico nei confronti dell’alunno e dei suoi genitori.
Ai sensi del DPR 115/2002 e successive modifiche, si dichiara che il presente procedimento è di valore interminabile e per tanto il C.U. è di € 500,00#.
Sarà prodotta, unitamente al presente ricorso, la delibera impugnata.
Ceprano, 3 marzo 2010
avv. Carla Corsetti
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