Il prossimo martedì 8 ottobre la quarta Sezione del Consiglio di Stato, presieduta dal dott. Giorgio Giaccardi (Giudice relatrice la dott.ssa Francesca Quadri) si pronuncerà sul ricorso attivato nel lontano 2004 dall'ex giudice di Camerino Luigi Tosti per ottenere la rimozione dei crocifissi da tutti i tribunali italiani. Il Tribunale Amministrativo delle Marche aveva eluso, nel 2006, qualsiasi decisione nel merito, dichiarando il proprio difetto di giurisdizione. A distanza di 10 anni il Consiglio di Stato si dovrà pronunciare sull'appello proposto da Tosti Luigi, e cioè stabilire se il ricorso dovrà essere esaminato dal giudice del lavoro oppure -come sostenuto dal Tosti- dallo stesso TAR di Ancona. Nel frattempo la "Giustizia" non è stata altrettanto lenta nei confronti dell'ex giudice che, nell'arco di 7 anni, ha dovuto subire due processi penali -con ben sette gradi di giudizio- due procedimenti disciplinari con altri ben 5 gradi di giudizio e, altresì, la rimozione dall'ordine giudiziario.
Qui di seguito si riporta il testo della memoria che è stata presentata dal difensore del Tosti, l'Avv. Fabio Pierdominici di Camerino, per la discussione che si terrà l'8 ottobre 2013, ore 10, davanti alla quarta Sezione del Consiglio di Stato a Roma (Palazzo Spada).
CONSIGLIO
DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE - IV SEZIONE
Memoria
per l’udienza di discussione dell’8.10.2013
per:
Luigi Tosti, difeso dal sottoscritto Avv. Fabio Pierdominici
parte appellante
avverso la sentenza del
T.A.R. delle Marche n. 94/2006 del 21.12.2005, depositata il 22.3.2006.
La
difesa del dr. Luigi Tosti, richiamati i motivi di gravame, illustra i seguenti
punti di rilievo.
PRIMO
PUNTO.
In
primo luogo si premette che il ricorso per la rimozione dei crocifissi dalle
aule di giustizia avrebbe potuto essere deciso, nel merito, in tempi
rapidissimi: esso non presenta infatti problematiche giuridiche di particolare
complessità.
E’
infatti pacifico che la circolare del Ministro Rocco del 29.5.1926 è stata “disapplicata”
-sin dal 1948- per ciò che concerne l’esposizione nelle aule di giustizia dell’
“effige di Sua Maestà il Re”: l’obbligo
di esposizione del ritratto del Re è da ritenere infatti tacitamente abrogato,
ex art. 15 delle disposizioni preliminari del cod. civile, perché incompatibile con l’art. 1 della
Carta Costituzionale del 1948 che sancisce che “l’Italia è una Repubblica democratica”, e non più una Monarchia. Alla
stessa stregua, pertanto, la circolare doveva essere disapplicata -sin dal 1948-
per ciò che concerne l’obbligo di esporre il crocifisso nelle aule di giustizia,
posto che:
1.
Italia non è più uno Stato confessionale ma uno
Stato laico che, come si desume dagli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della
Costituzione, deve essere neutrale, imparziale ed equidistante in materia
religiosa nei confronti dei singoli cittadini e delle confessioni religiose, sicché
l’esposizione di un simbolo confessionale nelle aule di giustizia è
incompatibile col rispetto del pluralismo religioso e del canone dell’eguaglianza
e pari dignità di tutte le ideologie religiose, senza alcuna discriminazione
e/o privilegio a discapito o a favore di una o più di una di esse;
2.
l’obbligo di esercitare l’attività giurisdizionale
sotto la tutela simbolica del crocifisso (o di altro simbolo partigiano) è parimenti
incompatibile con l’obbligo di
“imparzialità” dei giudici, che l’art. 111 della Costituzione commina anche
sotto il profilo della mera apparenza;
3.
la circolare del ministro della giustizia del 29
maggio 1926 n. 2134/1867 è un atto amministrativo generale, che appare però
privo di fondamento normativo e quindi incompatibile
con il principio di legalità dell'azione amministrativa (artt. 97 e 113 Cost.),
che comporta che ogni atto
amministrativo deve essere espressione di un potere riconosciuto
all’amministrazione da una norma;
4.
l’imposizione dell’obbligo di “condividere” un
simbolo religioso -e addirittura di esercitare l’attività giurisdizionale sotto
la sua tutela simbolica- viola poi il diritto di libertà religiosa del dipendente
che è costretto a subirlo e, quindi, è incompatibile
col diritto di libertà religiosa garantito dall’art. 19 della Costituzione;
5.
infine, l’imposizione di un SOLO simbolo religioso -col
divieto cioè di esporre altri simboli- è incompatibile
col rispetto del diritto all’eguaglianza e non discriminazione, che è sancito
dall’art. 3 della Costituzione.
Alla luce di queste banali
considerazioni,
l’istanza di rimozione dei crocifissi avrebbe potuto essere decisa in un
attimo, facendo corretta applicazione dello stesso identico principio della “tacita
abrogazione” per incompatibilità della circolare con le nuove norme
costituzionali (art. 15 preleggi) che è stato utilizzato per rimuovere le “effigi
del Re” dalle aule di giustizia: purtroppo il TAR delle Marche ha dichiarato il
difetto di giurisdizione e la decisione del merito -a distanza di più di nove
anni- non è ancora arrivata.
SECONDO
PUNTO.
In
secondo luogo si rappresenta che
a causa del rifiuto di tenere le
udienze sotto l’imposizione del crocifisso (che il Tosti ha posto in essere dal
maggio 2005 dopo che la sua istanza cautelare di rimozione dei crocifissi non è
stata accolta dal TAR) l’appellante è stato sottoposto a due procedimenti
penali e ad un procedimento disciplinare, i cui esiti hanno, ad avviso del
difensore, un rilievo nel presente giudizio.
A)
Il primo procedimento penale è sfociato con una condanna a sette mesi di
reclusione inflitta dal tribunale di L’Aquila per il reato di omissione di atti
di ufficio con sentenza del 18 novembre 2005, poi confermata dalla Corte di
appello. Tuttavia, la VI Sezione penale della Corte di cassazione ha assolto
Luigi Tosti con la formula “il fatto non sussiste” con sentenza 17 febbraio
2009 n. 28482, che si produce in questa fase di giudizio sub doc. n. 1.
Sebbene
non sia vincolante per il Giudice Amministrativo, si segnala che la Corte di Cassazione
penale ha sostanzialmente condiviso la tesi del ricorrente, affermando che
l’esposizione del crocifisso non pare compatibile né col principio di legalità
dell’azione amministrativa, né col principio supremo di laicità né, infine, col
rispetto dei diritti di libertà religiosa e di coscienza del dipendente. La
Corte ha addirittura auspicato che il Ministro di giustizia “riveda la
propria scelta di arredare le aule con i crocifissi” ed ha suggerito, in
caso contrario, la proposizione di un ricorso giurisdizionale al giudice
amministrativo, la cui piena giurisdizione ha confermato, richiamando l’ordinanza
n. 15.614/2006 delle SS.UU. civili della Cassazione e la sentenza n. 556/2006
del Consiglio di Stato,
in aperto dissenso con quanto statuito dal TAR delle Marche nell’impugnata
sentenza.
B)
Luigi Tosti è stato sottoposto anche ad un parallelo procedimento disciplinare,
nel quale gli è stato mosso l’addebito di “avere, esasperando fino al limite
della pretestuosità la pretesa di veder rimosso, ad opera della amministrazione
dello Stato, da tutte le aule di giustizia, il crocifisso o, in alternativa, di
esporre nelle medesime anche il simbolo della menorà della religione ebraica,
omesso, sin dai primi giorni del maggio 2005, di svolgere la propria attività
di magistrato presso il tribunale di Camerino, così sottraendosi alla doverosa
prestazione del proprio servizio, che scaturiva da un rapporto di impiego sorto
e tuttora in corso per sua libera determinazione; e tanto anche dopo che il
Presidente del Tribunale gli aveva messo a disposizione un’aula di udienza
priva di ogni simbolo religioso”.
Con
delibera del 31 gennaio 2006, depositata il 23 novembre 2006 (che si produce
sub doc. n. 2), la Sezione disciplinare del CSM, pur ritenendo fondata la
richiesta del Tosti di rimozione dei crocifissi, ne ha disposto la sospensione
cautelare dalle funzioni e dallo stipendio.
Per
qual che qui rileva, si segnala che il CSM ha affermato (al pari di quanto farà
nel 2009 la Cassazione penale) che l’esposizione del crocifisso, siccome
disposta in base ad una semplice circolare priva di fondamento legislativo,
viola il principio di legalità dell’azione amministrativa, sancito dagli articoli
97 e 113 della Costituzione italiana, viola il principio supremo di laicità,
desumibile dagli artt. 2,3,7,8,19 e 20 Cost., e viola infine la garanzia della
libertà di coscienza e di religione del magistrato (art. 19 Cost.). Ha tuttavia
disposto la sospensione cautelare del magistrato perché ha escluso che potesse “autotutelare”
i suoi diritti inviolabili col rifiuto di tenere le udienze, ritenendo
applicabili al suo caso i principi sanciti dalla Corte costituzionale nella
sentenza n. 196/1987, relativa al caso di un giudice tutelare che, per “obiezione
di coscienza” legata ai suoi convincimenti religiosi, pretendeva di “rifiutarsi”
di autorizzare una minorenne ad abortire.
Così
si è espresso il CSM:
“la sezione disciplinare ritiene che la
richiesta di rimozione del crocifisso dalle aule d’udienza avanzata dal
dott. Tosti non sia manifestamente infondata.
Si
deve in primo luogo rilevare che, come è pacifico (si veda in proposito
la nota del ministero degli interni del 5 ottobre 1984, n. 5160/M/l, citata da
cass. 1° marzo 2000), la circolare del ministro della giustizia del 29
maggio 1926 n. 2134/1867 è un atto amministrativo generale, privo di fondamento
normativo e quindi contrastante con il principio di legalità dell’azione
amministrativa, desumibile dagli articoli 97 e 113 Cost., dal quale
deriva che l’attività della pubblica amministrazione deve sempre svolgersi nel
rispetto della Costituzione, delle norme comunitarie e delle leggi, con
l’ulteriore conseguenza che ogni atto amministrativo deve essere espressione di
un potere riconosciuto all’amministrazione da una norma (Cons. Stato, sez.
II, 3 novembre 1999, n. 1401; sez. VI, 17 febbraio 1999, n. 173; sez. V, 8
giugno 1994, n. 614; sez. VI, 3 marzo 1993, n. 214). In conformità con questo
principio il legislatore ha disciplinato l’esposizione dei simboli non
religiosi nei luoghi pubblici (legge 5 febbraio 1998, n. 22 sull’uso della
bandiera della Repubblica italiana e di quella dell’Unione europea; l’art. 38
del d.lgs. n. 267 del 2000, che disciplina la stessa materia con riferimento
all’ordinamento degli enti locali).
In
secondo luogo, anche a poter ritenere non decisivo questo profilo, resta
poi che la predetta circolare appare in contrasto con il principio
costituzionale di laicità dello Stato e con la garanzia della libertà di
coscienza e di religione, essendo pacifico (v. in tal senso cass.
sez. unite 18 novembre 1997, n. 11432 e sez. disciplinare 15 settembre
2004, Sansa) che nessun provvedimento amministrativo può limitare
diritti fondamentali di libertà, al di fuori degli spazi eventualmente
consentiti da una legge ordinaria conforme a costituzione.
Come
è noto la corte costituzionale, con sentenza n. 203 del 1989 (nonché con
le sentenze n. 259 del 1990 e 195 del 1993), ha affermato che il principio
di laicità (o di aconfessionalità) dello Stato, pur non essendo
esplicitamente menzionato (come invece avviene nell’art. 1 della Costituzione
francese del 1958), è certamente desumibile dagli articoli 2,3,7,8,19 e 20
Cost. e ha trovato un importante conferma, a livello di legge ordinaria,
nell’art. 1 del Protocollo addizionale degli Accordi con la Santa sede di cui
alla legge n. 121 del 1985 (abrogazione della regola secondo la quale la
religione cattolica è la sola religione dello Stato). Tale principio,
inoltre, è uno delle caratteristiche della nostra forma di Stato e appartiene
al novero dei principi supremi dell’ordinamento che, secondo un costante
orientamento della giurisprudenza costituzionale, hanno valenza superiore
rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale.
Quanto
al contenuto del principio di laicità la giurisprudenza costituzionale ha
affermato che lo stesso non implica irrilevanza o indifferenza rispetto
all’esperienza religiosa, secondo l’impostazione dello Stato liberale classico,
ma garanzia per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di
pluralismo confessionale e culturale e, in senso più ampio, possibilità di
convivenza in condizioni uguaglianza non solo di fedi, ma anche di
culture e tradizioni diverse (corte cost. n. 440 del 1995). Ne
consegue, da un lato, che in materia religiosa, lo Stato deve essere
equidistante, imparziale (sentenze nn. 329 del 1997, 508 del 2000, 327
del 2002) e neutrale (sentenza n. 235 del 1997) e, dall’altro,
che l’ordine delle questioni religiose e quello delle questioni civili
debbono rimanere separati, con la conseguenza che “in nessun caso il compimento di atti appartenenti, nella loro essenza,
alla sfera della religione possa essere l’oggetto di prescrizioni obbligatorie
derivanti dall’ordinamento giuridico dello Stato e (il) divieto di ricorrere a
obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei precetti
statali;... la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono
essere imposti come mezzo al fine dello Stato” (sentenza n. 334 del
1996).
Per
quanto riguarda la libertà di coscienza - espressamente riconosciuta
anche dall’art. 9 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 (ratificata con
legge n. 848 del 1955) e dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, sottoscritta dai Presidenti del parlamento europeo, del
consiglio e della commissione in occasione del Consiglio europeo di Nizza il 7
dicembre 2000 - la corte costituzionale ha ripetutamente affermato (sentenza n.
149/1995, n. 422/1993, n. 467 del 1991, 409 del 1989) che la coscienza
individuale ha rilievo costituzionale “quale
principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo”
e che “specie se correlata all’espressione dei propri convincimenti morali o
filosofici (art. 21 Cost.) ovvero... alla propria fede o credenza religiosa
(art. 19 Cost.), dev’essere protetta in misura proporzionata alla priorità
assoluta e al carattere fondante ad essa riconosciuta nella scala dei valori
espressa dalla Costituzione italiana”. Libertà di coscienza e libertà
religiosa che, alla luce del principio di eguaglianza, debbono essere lette
come affermazione non solo positiva, di tutela delle convinzioni o della fede
professata, ma anche in senso negativo, come tutela di chi rifiuti di avere una
fede, e che, pertanto, deve essere garantita sia ai credenti che ai non
credenti, siano essi atei o agnostici (sentenza n. 117 del 1979 e n. 334
del 1996). Dal carattere “fondante” della libertà di coscienza deriva
anche che nelle valutazioni costituzionali relative ai profili dell’eguaglianza
in materia religiosa il dato quantitativo, l’adesione più o meno diffusa a
questa o a quella confessione religiosa, non può essere rilevante (sentenza n.
925 del 1988 e n. 440 del 1995, n. 508 del 2000), “il richiamo alla coscienza sociale... è...vietato là dove la
Costituzione, nell’art. 3 primo comma stabilisce espressamente il
divieto di discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi,
tra i quali sta per l’appunto la religione...Diversamente ragionando, si
finirebbe per rendere cedevole la garanzia costituzionale dell’uguaglianza
rispetto a mutevoli e imprevedibili atteggiamenti della società” (sentenza
n. 329 del 1997).
Alla
luce dei rilievi ora svolti appare convincente la tesi dell’incolpato secondo
la quale l’esposizione del crocifisso nella aule di giustizia, in funzione
di solenne “ammonimento di verità e
giustizia”, costituisce un’utilizzazione di un simbolo religioso come
mezzo per il perseguimento di finalità dello Stato e, pertanto appare in
contrasto con il principio supremo di laicità dello Stato. Del pari persuasiva
sembra l’affermazione che l’indicazione di un fondamento religioso dei doveri
di verità e giustizia ai quali i cittadini sono tenuti, può provocare nei non
credenti “turbamenti, casi di
coscienza, conflitti di lealtà tra doveri del cittadino e fedeltà alle proprie
convinzioni” (corte cost. n. 117 del 1979) e pertanto può ledere la
libertà di coscienza e di religione.
Meno
convincente sembra invece l’orientamento che, per negare il rilevato
contrasto, nega o quanto meno riduce fortemente il valore del crocifisso
come simbolo religioso. In tal senso si sono espressi il citato parere del
consiglio di Stato (sezione li, 27 aprile 1988, n. 63) - secondo cui il
crocifisso “a parte il significato per
i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana,
nella sua radice storica, come valore universale, indipendente da specifica
confessione religiosa” -, l’ordinanza del tribunale dell’Aquila del 31
marzo 2005 - incentrata sul carattere culturale che il crocifisso ormai avrebbe
assunto - e la sentenza del t.a.r. del Veneto 22 marzo 2005, n. 1110, la quale,
sulla base del rilievo della secolarizzazione della società e della posizione
di minoranza assunta dai credenti e praticanti, alla quale si contrapporrebbe
la larga adesione ai valori secolarizzati del cristianesimo, ha affermato che “nell’attuale realtà sociale il crocifisso
debba essere considerato non solo come simbolo di un ‘evoluzione storica e
culturale, e quindi dell’identità del nostro popolo, ma come simbolo altresì di
un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza
religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, principi questi che
innervano la nostra Carta costituzionale.”
A
parte il rilievo, efficacemente espresso nella sentenza del Bundesverfassungsgericht 16 maggio
1995, secondo cui costituirebbe “una
violazione dell’autonomia confessionale dei cristiani ed una sorta di
profanazione della croce non considerare questo simbolo come segno di culto in
collegamento con uno specifico credo” e l’evidente contraddizione logica tra l’affermazione
del valore identitario e quella della portata universale del simbolo, resta il
fatto che, anche a poter condividere la tesi del significato meramente
culturale del crocifisso, il problema della tutela della libertà di coscienza e
del pluralismo si sposterebbe dal terreno esclusivamente religioso a quello
appunto culturale, ma non sarebbe risolto, in quanto dai principi
costituzionali in precedenza individuati deriva che l’amministrazione pubblica
non può scegliere di privilegiare un aspetto della tradizione e della cultura
nazionale, sia pure largamente maggioritaria, a discapito di altri minoritari,
in contrasto con il progetto costituzionale di una società in cui “hanno da convivere fedi, culture e
tradizioni diverse” (Corte cost. n. 440 del 1995).
Deve
infine osservarsi che, anche a ritenere, come questa sezione ritiene, non
manifestamente infondata la tesi secondo la quale, con l’entrata in vigore
della Costituzione (che afferma i principi di legalità dell’azione
amministrativa e di laicità dello Stato e garantisce libertà di
coscienza e di religione) si è verificata un’invalidità sopravvenuta
della circolare ministeriale, non ne deriverebbe che l’amministrazione
della giustizia sarebbe per ciò stesso legittimata a disapplicarla, perché il
potere di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi spetta solo al
giudice e non all’amministrazione che ha emesso l’atto. Tuttavia
l’amministrazione, ove ritenga un proprio atto (originariamente o per
circostanze sopravvenute) illegittimo ha il potere di abrogarlo o revocarlo.”
Il procedimento disciplinare è stato
definito con sentenza n. 88 del 22 gennaio/26 maggio 2010 (che si produce
sub doc. n. 3) con la quale la sezione disciplinare del CSM ha condannato Luigi
Tosti alla rimozione dalla magistratura.
La motivazione di questa sentenza
diverge in modo sostanziale da quella dell’ordinanza di sospensione. Infatti,
mentre i giudici della precedente Sezione disciplinare avevano sospeso Luigi
Tosti perché avevano escluso che egli potesse “autotutelare” i suoi diritti di
libertà religiosa e di coscienza col rifiuto di tenere le udienze, i giudici
della nuova Sezione disciplinare hanno affermato il principio opposto, e cioè
che “l’obbligo di esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica
del crocifisso metteva in discussione il fondamentale diritto soggettivo di
libertà religiosa e di opinione del Tosti”. Ciononostante, il CSM ha rimosso
il magistrato perché aveva “persistito” nel rifiuto anche dopo
che il Presidente del Tribunale gli aveva offerto il “rimedio provvisorio” di tenere le udienze in un’aula senza
crocifisso, in attesa che il Giudice Amministrativo si pronunciasse su questo
ricorso.
La sanzione massima della “rimozione”
è stata peraltro scelta dal CSM per finalità di “prevenzione speciale”,
e cioè per evitare che il dr. Tosti, una volta riassunto in servizio, potesse “pretendere”
dal Ministro di Giustizia il rispetto dei suoi diritti inviolabili, ovverosia
che venissero rimossi i crocifissi che, a giudizio dello stesso CSM, ledevano
il principio supremo di laicità e i suoi diritti inviolabili.[3]
Questa sentenza del CSM è stata
impugnata ma le SS.UU. della Cassazione civile hanno respinto il ricorso con
sentenza n. 5924 dell’8 febbraio/14 marzo 2011 (che si produce sub doc. n. 4).
Per
quel che qui rileva, la Cassazione ha chiarito che Luigi Tosti è stato
condannato solo per il secondo addebito – e cioè per “aver persistito nel
rifiuto nonostante la messa a disposizione da parte del Presidente del
Tribunale di un’aula priva di simboli religiosi.
Così
motivano infatti le SS.UU. a pag. 22 della sentenza:
“la
Sezione disciplinare non ha ritenuto la responsabilità del dr. Tosti, perché si
era rifiutato di fare udienza in un'aula ove fosse esposto il crocifisso: anzi
ha specificato che solo in questo caso, e cioè se gli fosse stato imposto di
esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica del crocifisso, ciò
poteva mettere in discussione il suo diritto soggettivo di libertà religiosa e
di opinione”.
C) A causa del rifiuto di tenere le udienze sotto l’imposizione dei
crocifissi il dr. Luigi Tosti è stato sottoposto anche ad un secondo
procedimento penale, subendo in data 21 febbraio 2008 un’ulteriore condanna a
cinque mesi di reclusione da parte del Tribunale di L’Aquila, contro la quale ha
proposto appello. La discussione di questo appello è stata
fissata per l’udienza del 5.7.2012 e, nella sua “nuova” veste di imputato, il
dr. Tosti ha chiesto alla Corte di L’Aquila di attivarsi presso il Ministero di
Giustizia per ottenere la rimozione dei crocefissi al fine di garantirgli il
rispetto dei diritti di libertà di religione e di coscienza durante la
celebrazione del dibattimento, invitando i giudici -in caso di persistente
inottemperanza del Ministro- a sollevare un conflitto di attribuzione dinanzi
la Corte Costituzionale. Anche i due difensori del Tosti si sono associati a
questa richiesta, perché ritenevano che la presenza dei crocifissi ledesse i
loro pari diritti di libertà di religione e di coscienza e di rispetto dei
principi supremi di laicità e di imparzialità dei giudici.
Con
ordinanza dibattimentale del 5.7.2012 -che si produce sub doc. n. 5- la
Corte d’Appello ha ritenuto fondate le pretese dell’imputato e dei difensori,
affermando che era “meritevole di
tutela, alla luce dei principi costituzionali, il diritto dei difensori e
dell'imputato a presenziare e ad esercitare le prerogative difensive in un'aula
di giustizia priva di espliciti simboli religiosi”. Tuttavia, anziché
invitare il Ministro di Giustizia e rimuovere i crocefissi -oppure a sollevare
un conflitto di attribuzione davanti la Consulta- la Corte ha reputato che “la tutela di detti diritti poteva
agevolmente essere garantita mediante la celebrazione del processo in altra
aula della Corte, priva dei predetti simboli”.
All’esito
del dibattimento il dr. Tosti è stato assolto con formula piena con sentenza
della Corte d’Appello di L’Aquila n. 2072 del 5.7.2012, che si produce sub
doc. n. 6.
Per
quel che qui rileva, la Corte d’Appello ha “in
primo luogo, ribadito e confermato il contenuto dell'ordinanza emessa in udienza
sulla questione preliminare sollevata dall'appellante e dai suoi difensori”,
asserendo che “l’imputato ed i suoi
difensori avevano ed hanno il diritto a presenziare e ad esercitare le proprie
prerogative difensive in un'aula di giustizia priva di espliciti simboli
religiosi”. I Giudici hanno tuttavia ritenuto che “tale diritto, espressione e manifestazione dei diritti primari, costituzionalmente
riconosciuti, di libertà di
coscienza, di libertà di
religione e di uguaglianza, oltre che del principio di laicità
dello Stato al quale è pacificamente ispirata la Costituzione repubblicana,
doveva ritenersi essere stato sufficientemente ed adeguatamente garantito
attraverso la concreta ed effettiva celebrazione del processo di appello in
un'aula di fatto priva di crocifisso od altri simboli religiosi.” Hanno osservato
che, “d'altra parte, non sarebbe stato
possibile disporre, come richiesto dalla difesa dell'imputato, la sospensione
del processo in attesa delle determinazioni del competente Ministro di
Giustizia circa il permanere, nelle aule giudiziarie italiane in generale, del
crocifisso, simbolo della religione cattolica”, perché “il caso non rientrava tra quelli nei quali fosse
possibile tecnicamente sospendere il processo ai sensi degli artt. 45 e segg. c.p.p., né, del resto,
sarebbe stato possibile sollevare conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte
Costituzionale, dal momento che era il Ministro di Giustizia (e non
altri, quali, ad esempio, il Presidente del Tribunale ovvero la Corte di
Appello) l'espressione del potere dello Stato abilitato a disporre per
l'eventuale eliminazione del simbolo della religione cattolica dalle aule
giudiziarie.”
Anche i giudici della Corte
d’Appello, infine, hanno riconosciuto la legittimità del rifiuto del dr. Tosti
di esercitare le sue mansioni di magistrato sotto l’imposizione del crocifisso
cattolico, esprimendosi nella sentenza assolutoria in questi significati
termini: “si ravvisa
indubbiamente, in capo all'imputato, il diritto primario ed
inviolabile di libertà di coscienza e di libertà religiosa, nonché
il suo diritto al rispetto del principio di laicità dello Stato enucleato e
ricavabile dalla Costituzione repubblicana, diritti tutti traducentisi in
quello di esercitare la propria attività lavorativa di magistrato in un'aula
priva del crocifisso (quale simbolo della religione cattolica ) o di
altri simboli religiosi”.
Traendo le debite conclusioni dalle
succitate pronunce della Cassazione penale, della Sezione disciplinare del CSM,
delle SS.UU. della Cassazione civile e, infine, della Corte di Appello di
L’Aquila, si deve affermare che TUTTI questi giudici hanno affermato l’assoluta
incompatibilità della
circolare del ministro fascista Rocco col rispetto dei diritti primari
inviolabili del “dipendente” Luigi Tosti di libertà religiosa, di
coscienza, di eguaglianza e non discriminazione e di rispetto del principio
supremo di laicità, confermando dunque la piena fondatezza -nel merito- del
presente ricorso, che è stato attivato nel lontano aprile del 2004.
Ma
si deve anche grottescamente affermare che il dr. Luigi Tosti è stato “rimosso”
dalla magistratura perché non ha accettato di essere “confinato” in un’aula
speciale a causa dei propri convincimenti religiosi “dissidenti”, mentre i
crocifissi – di cui è stata riconosciuta da parte di tutti questi giudici l’assoluta
incompatibilità col principio supremo di laicità e col rispetto dei diritti di
libertà religiosa, di eguaglianza e di coscienza del Tosti (come peraltro di
qualsiasi altro dipendente)– seguitano ad essere tranquillamente esposti nelle
aule giudiziarie italiane.
TERZO
PUNTO
Permanenza
dell’interesse del dr. Luigi Tosti alla decisione del ricorso.
Come sopra segnalato, il dr. Luigi
Tosti è stato rimosso dalla magistratura con sentenza del CSM n. 88 del 2010. Il
suo difensore ritiene dunque doveroso affrontare la questione relativa alla
permanenza dell’interesse del Tosti alla decisione del suo ricorso col quale,
nel lontano aprile del 2004, ha chiesto la rimozione dei crocifissi dalle aule
giudiziarie italiane sul presupposto che la circolare fascista del ministro
Rocco dovesse considerarsi tacitamente abrogata, ex art. 15 preleggi, per
incompatibilità col principio supremo di laicità, col diritto di libertà di
religione e di coscienza, col diritto all’eguaglianza religiosa e con l’obbligo
di imparzialità del giudice, così come peraltro affermato dalla Cassazione
penale nella sentenza n. 4372 del 2000 (imputato Montagnana). Qualcuno, in
effetti, potrebbe sostenere che, non facendo più parte della magistratura, sia
venuto meno l’interesse il Tosti a vedere rimossi i crocifissi.
Questa tesi non potrebbe essere
accolta per le motivazioni che seguono.
1.
In primo luogo si rappresenta che un’ipotetica
pronuncia di “cessazione della materia del contendere” concretizzerebbe una
chiara ipotesi di “diniego di giustizia” che, nel caso specifico, avrebbe per
oggetto addirittura “diritti primari” (inviolabili) garantiti (al Tosti) dalla
Costituzione italiana e dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti e
delle libertà dell’uomo. Si ribadisce, infatti, che col suo ricorso il dr.
Luigi Tosti ha chiesto la tutela di diritti primari quali quello del rispetto
del principio supremo di laicità, del rispetto del diritto di libertà di
religione, del rispetto del diritto di eguaglianza e non discriminazione
religiosa e del rispetto del diritto di libertà di coscienza legato
all’imparzialità dell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali.
Pertanto, un’omessa pronuncia da
parte del G.A. integrerebbe la violazione del “diritto ad un ricorso effettivo”
garantito dall’art. 13 della Convenzione sui diritti dell’uomo, a mente del
quale “ogni persona i cui diritti e
libertà riconosciuti nella presente Convenzione fossero violati, ha diritto di
presentare un ricorso avanti ad una magistratura nazionale, anche quando la
violazione fosse stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio di
funzioni ufficiali”: il che autorizzerebbe il Tosti a proporre un immediato
ricorso alla CEDH per ottenere un’equa riparazione.
2.
In secondo luogo un’omessa pronuncia sul merito del
ricorso violerebbe anche l’art. 1 del codice del processo amministrativo, posto
che “La giurisdizione amministrativa
assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della
Costituzione e del diritto europeo.”
3.
In terzo luogo l’omessa pronuncia violerebbe anche
l’art. 24 della Costituzione (“Tutti
possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi
legittimi”) e l’art. 6 della Conv. sui diritti dell’uomo (“Ogni persona ha diritto che la sua causa sia
esaminata .....da parte di un tribunale..... che deciderà sia in ordine alle
controversie sui suoi diritti....”).
4.
In quarto luogo si rappresenta che sussiste tuttora
l’interesse del ricorrente -sia materiale che morale- alla rimozione dei crocifissi
dalle aule giudiziarie. Infatti, sebbene il dr. Tosti non faccia più parte
della magistratura e non sia più legato da un rapporto di lavoro col Ministero
di Giustizia, egli mantiene il sacrosanto diritto di frequentare le aule
giudiziarie senza subire lesione di diritti inviolabili: e questo sia nella
veste di “cittadino utente” della giustizia (civile e penale) che nella veste
di avvocato. Va rimarcato, infatti, che i diritti primari fatti valere in
questo giudizio sono “individuali” -cioè del singolo individuo- sicché sarebbe
arbitrario scindere in capo all’ “individuo” dr. Luigi Tosti i diritti di
libertà religiosa e di eguaglianza che gli competono come “magistrato” da
quelli che gli competono -per gli stessi identici motivi, e cioè a causa
dell’illegale imposizione dei crocifissi e del divieto di esporre i propri
simboli- come “cittadino utente” della giustizia e come cittadino “avvocato”. Permane,
dunque, l’interesse concreto ed attuale del Tosti ad ottenere la rimozione dei
crocifissi dalle aule di giustizia, anche perché una declaratoria di cessazione
della materia del contendere lo obbligherebbe a promuovere, immediatamente, un
altro identico ricorso per la tutela degli stessi identici diritti, sempre conseguente
all’illegittima imposizione dei crocifissi nelle aule giudiziarie!
5.
In quinto luogo si rappresenta che la pronuncia
sull’illegittimità dell’esposizione dei crocifissi è in ogni caso prodromica rispetto
all’azione per risarcimento dei danni conseguenti all’imposizione del
crocifisso. Dunque, negare una siffatta pronuncia significherebbe negare il
diritto al risarcimento del danno (cfr. TAR Firenze, n. 182 del 2011 e Cons
Stato 27.12.2010 n. 9395). E questo non è consentito, sia perché l’art. 35
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo impone -come
condizione di ricevibilità dei ricorsi alla CEDH- che la parte abbia dapprima
esaurito le vie di ricorso interne per ottenere il ristoro dei danni [sicché
non si giustificherebbe che le Giurisdizioni dei singoli Stati omettano di
pronunciarsi su tali lesioni], sia perché in ogni caso il terzo comma dell’art.
34 del codice del processo amministrativo dispone che “quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento
impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta
l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori.”
Le considerazioni sin qui esposte
sono supportate dalla costante Giurisprudenza amministrativa. Si richiama Cons.
Stato, sent. 9395 del 13.7-27.12.2010, che ha così motivato: “nel processo amministrativo la dichiarazione
di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse può essere
pronunciata a seguito dell’intervento di una situazione di fatto o di diritto
del tutto nuova e sostitutiva rispetto a quella esistente al momento della
proposizione del ricorso, tale da rendere certa e definitiva l’inutilità della
sentenza, per avere fatto venire meno per il ricorrente qualsiasi (anche
soltanto strumentale o morale o comunque residua) utilità della pronuncia del
Giudice.
Tale circostanza deve tuttavia essere
accertata con il massimo rigore, per evitare che la declaratoria di
improcedibilità si trasformi in una sostanziale elusione del dovere da parte
del Giudice di pronunciarsi sulla domanda (Consiglio di Stato, IV, 21 agosto
2003, n. 4699) e, pertanto, devono di volta in volta essere verificate le
concrete conseguenze del nuovo atto sul rapporto preesistente, al fine di
stabilire se, nonostante il suo sopravvenire, l'eventuale sentenza di
accoglimento del gravame, a prescindere dal suo contenuto eliminatorio del
provvedimento impugnato, possa comportare o meno ulteriori effetti
conformativi, ripristinatori o anche solo propedeutici a future azioni rivolte
al risarcimento del danno che potranno essere proposte anche in futuro
(Consiglio Stato, A.P., 26 febbraio 2003 n. 4; Consiglio Stato, sez. VI, 18
marzo 2008 n. 1137).
Nel caso che occupa l’appellante sostiene che
permane, nonostante che l’atto impugnato fosse di natura organizzativa, il suo
interesse morale, anche se nelle more è stato collocato in pensione, ad
ottenere l’annullamento di un atto che ha inciso comunque sul suo prestigio,
avendo leso la sua immagine professionale, nonché strumentale, ai fini del
conseguimento del risarcimento dei danni che afferma aver subìto.
Il Collegio ritiene quindi che l’appellante
conservi nel caso che occupa un interesse attuale all’annullamento del
provvedimento impugnato (pur se di natura organizzatoria), anche in seguito al
suo collocamento in pensione, perché il mancato apprezzamento della legittimità
o meno dello stesso (essendo di ostacolo all’apprezzamento della ingiustizia
del danno o della illiceità della condotta tenuta dall'Amministrazione)
frustrerebbe comunque, a prescindere dalla ammissibilità della richiesta di
risarcimento danni (formulata nel caso di specie per la prima volta in appello,
che sarà oggetto di successiva disamina), il suo interesse strumentale a
dimostrare il danno al suo prestigio professionale subito nel corso della sua
attività fintantoché l’atto impugnato ha spiegato i suoi effetti ,al fine di
ottenerne, anche in separata sede, il risarcimento.” In senso conforme
si sono pronunciati: Cons. Stato, IV, 3.11.2008, n. 5478; Cons. Stato, V,
8.9.1995, n. 1301; TAR Toscana, III, 25.11.2010-2.2.2011, n. 182; TAR Campania,
Salerno, II, 14.7.2009, n. 4013.
Questa difesa rappresenta comunque che
il dr. Luigi Tosti, oltre a vantare un interesse materiale ed attuale alla
rimozione dei crocifissi -o, in alternativa, all’ostensione dei propri simboli
religiosi nelle stesse aule di giustizia- vanta un eclatante interesse “morale”
alla definizione del proprio ricorso nel merito. Un’eventuale pronuncia di “cessazione della materia del contendere”,
infatti, sarebbe ai limiti del grottesco e dell’immoralità, posto che finirebbe
per “premiare” l’illegale permanenza dei crocifissi “grazie” alla “lentezza”
del presente giudizio amministrativo: e questo a fronte di una “rimozione”
dalla magistratura del dr. Luigi Tosti che, per converso, è stata deliberata in
tempi rapidi e che lo ha visto oggetto, nell’arco di appena sei anni, di ben
due processi penali con 5 gradi di giudizio, di una sospensione cautelare dalle
funzioni e dallo stipendio e di due procedimenti disciplinari con 5 gradi di
giudizio, all’esito dei quali egli è stato sì rimosso dalla magistratura, ma
con motivazioni che hanno affermato l’assoluta illiceità, ai suoi danni,
dell’imposizione del crocifisso da parte del Ministro di Giustizia. Sarebbe
dunque beffardo che al Tosti -dopo che è stato rimosso dalla magistratura a
causa dell’illecita imposizione dei crocifissi e del divieto di esporre i suoi
simboli religiosi in regime di eguaglianza e pari dignità- venisse oggi negato il
diritto di far accertare dai Giudici amministrativi che quell’imposizione dei
crocifissi e quel divieto di esporre i propri simboli furono illeciti e lesivi
dei suoi diritti inviolabili.
QUARTO
PUNTO.
In
quarto luogo si ribadisce che il TAR delle Marche ha completamente
travisato la domanda che il Tosti ha proposto con i motivi aggiunti.
Il Tar ha infatti affermato che il ricorrente avrebbe chiesto la
rimozione del crocifisso da tutti gli uffici giudiziari italiani e, in
subordine, l’esposizione della menorà, “in nome di un astratto sindacato di legalità”,
“svincolato
cioè dalla tutela di un interesse proprio del ricorrente”, ovverosia per tutelare il principio di
laicità e i diritti di eguaglianza e libertà religiosa dei “cittadini
atei o credenti in religioni diverse da quella cattolica”.
Così si esprime, in effetti, il TAR: “Nella presente controversia.... il dott. Tosti chiede – mediante la
domanda formulata con i motivi aggiunti – che una volta accertata la
violazione del principio di laicità e dei diritti di uguaglianza e libertà
religiosa dei cittadini atei o credenti
in religioni diverse da quella cattolica, poste in essere dallo Stato
italiano mediante l’esposizione del (solo) simbolo del crocifisso negli uffici
giudiziari, e negli altri pubblici uffici in genere, questo Tribunale condanni
il Ministero della Giustizia a rimuovere il simbolo religioso del crocifisso
dalle aule di tutti gli uffici giudiziari italiani o, in via gradata, ad
esporre a proprie spese in tutte le aule giudiziarie italiane tutti gli altri
simboli religiosi, atei ed agnostici, ed in ogni caso la menorà ebraica.
Queste affermazioni
travisano la causa petendi e il petitum della domanda spiegata dal Tosti. E
questo risulta dalla lettura delle conclusioni realmente formulate dal Tosti nei motivi aggiunti, che sono
del seguente tenore:
“Piaccia al T.A.R. delle Marche, accertata la lesione dei
diritti soggettivi del ricorrente [e non dei “cittadini atei e/o credenti in
altre religioni”: n.d.r.] e la conseguenziale illegittimità dei rifiuti
opposti dal Ministro di Giustizia, ordinare in via principale al Ministro di
Giustizia e al Presidente del Tribunale di Camerino di rimuovere dalle aule del
Tribunale di Camerino e dalle aule di tutti gli uffici giudiziari il simbolo
religioso del crocifisso, condannando dunque l'Amministrazione ad eseguire la
rimozione senza indugio, con contestuale comminatoria, in caso di ulteriore
ritardo, di nomina di commissario ad acta alla scadenza del termine fissato.
Piaccia, in via gradata, condannare l'Amministrazione ad esporre
a proprie spese in tutte le aule giudiziarie italiane tutti gli altri simboli
religiosi, atei ed agnostici e, in ogni caso, la menorà ebraica. In via più
gradata consentire al ricorrente di esporre altri simboli religiosi, atei o
agnostici in qualsiasi altra aula giudiziaria italiana.”
Dunque il dott. Tosti non si è mai sognato di farsi “paladino” dei
diritti o degli interessi dei “cittadini
atei o credenti in altre religioni” o di “astratti principi di legalità” -come erroneamente ha affermato il
TAR- ma ha al contrario agito esclusivamente per la tutela dei propri diritti primari assoluti di rango
costituzionale, collegandoli all'espletamento della propria attività lavorativa
istituzionale, e cioè al fatto che gli venivano imposti i crocifissi e
che gli veniva per converso vietato di esporre i propri simboli religiosi, come peraltro risulta dal tenore
dei motivi aggiunti.
In questi ultimi, infatti, il ricorrente ha asserito che aveva
proposto, nella sua qualità di magistrato ordinario in servizio presso il
tribunale di Camerino, il ricorso al TAR delle Marche n. 477/2004 col quale
aveva chiesto che, “accertata la lesione
dei suoi diritti soggettivi....venisse ingiunto al Ministro di Giustizia
e al Presidente del tribunale di rimuovere dalle aule giudiziarie il crocifisso”
e, altresì, che “il comportamento
omissivo della P.A. determinava la lesione di diritti soggettivi assoluti,
di rango costituzionale, di cui il ricorrente era portatore: lesione
di gravità tale da consentire al Tosti..... di astenersi legittimamente
dal prestare il lavoro”. Il Tosti ha anche rappresentato che “con lettera del 1.5.2005 (doc. n. 26) aveva
reiterato al Ministro di Giustizia... la richiesta di rimozione del simbolo
cattolico da tutti gli uffici italiani e, in via subordinata, che
l’Amministrazione esponesse nelle aule giudiziarie, a sue spese, il simbolo
della menorà ebraica, religione cui aveva ufficialmente aderito ai sensi della
legge n. 101/1989, oppure che lo autorizzasse ad esporlo a sue spese”.
Riepilogando, dagli
atti processuali e dalle conclusioni formulate dal ricorrente risulta, in modo
inconfutabile, che il dr. Tosti ha chiesto la rimozione dei crocifissi da tutte
le aule giudiziarie o, in subordine, l’autorizzazione ad esporvi la menorà, non
già per tutelare i “diritti dei cittadini atei o agnostici” e/o alcuni “astratti
principi di legalità”, bensì per tutelare i suoi concreti diritti soggettivi,
assoluti e inviolabili, assumendo che essi venivano lesi dall’imposizione dei
crocifissi e dal divieto di esporre i SUOI simboli a fianco dei
crocifissi.
Del tutto fantasiosa è poi le congettura secondo cui “sembrerebbe” che
il dr. Tosti abbia individuato come “controparte” “non soltanto il Ministero di Giustizia, da addirittura lo Stato
italiano”. In realtà il dr. Tosti ha indirizzato le sue richieste -sia
stragiudiziali che giudiziali- unicamente nei confronti del Ministero di
Giustizia.
QUINTO
PUNTO
In quinto luogo si
rappresenta che la richiesta di rimozione dei crocifissi da TUTTE le aule
giudiziarie italiane non può essere considerata come una domanda che travalica le attribuzioni del Giudice amministrativo
perché svincolata da un interesse
soggettivo del Tosti e tesa, per
converso, a provocare un astratto
sindacato di legittimità dell’azione amministrativa, ma, al contrario, una
domanda che rientra necessariamente nella piena giurisdizione di qualsiasi
giudice.
Si rappresenta, infatti, che il dr. Tosti ha sempre prospettato -sia
nelle lettere prodotte in giudizio che nel ricorso e nei motivi aggiunti- che
la circolare del ministro fascista Rocco doveva ritenersi tacitamente abrogata, ex art. 15 delle preleggi, perché
incompatibile con sopravvenute norme di rango costituzionale e della Conv. sui
diritti dell’uomo. Pertanto, dal momento che la circolare in questione è un
atto amministrativo di portata GENERALE, la sua intervenuta abrogazione -di cui
è stato chiesto in via giudiziale l’accertamento- non potrebbe non avere
effetti altrettanto GENERALI, e cioè estesi a tutti gli uffici giudiziari
italiani.
Come argomento confermativo basterebbe considerare l’ipotesi che l’ostensione
dei crocifissi nelle aule giudiziarie fosse stata comminata da una “legge” fascista,
piuttosto che da una circolare. Ci si dovrebbe allora interrogare se al Giudice
Amministrativo, dopo che questi abbia considerato questa legge tacitamente
abrogata ex art. 15 delle disp. prel. al c.c., potrebbe essere negato il potere
di ordinare la rimozione dei crocifissi da TUTTE le aule giudiziarie italiane.
La risposta deve essere negativa, perché la caducazione di un atto normativo
GENERALE -tacita o espressa che sia- non può non riguardare l’atto nella sua
interezza e, dunque, non può che avere effetti altrettanto GENERALI.
E questo principio vale anche nell’ipotesi in cui sia la Corte
Costituzionale a dichiarare un atto normativo contrario a Costituzione: la
Consulta, infatti, non dispone mai la “disapplicazione” ad personam -o limitata al caso singolo- delle norme che dichiara non
conformi alla Costituzione, ma le annulla con effetti generali.
A maggior ragione, dunque, si deve ritenere che un semplice atto
amministrativo generale debba essere dichiarato caducato nella sua interezza -e
non disapplicato parzialmente o per il singolo caso- nell’ipotesi in cui il
Giudice accerti che lo stesso non è più compatibile con norme, sopravvenute, di
rango costituzionale.
Dunque, non solo non
sussiste il supposto “difetto di giurisdizione” del G.A., ma si deve al
contrario affermare che la rimozione generalizzata di tutti i crocifissi da
tutte le aule di giustizia di tutti gli uffici giudiziari italiani è l’UNICA
conseguenza giuridica che può scaturire dall’accertamento richiesto dal
ricorrente, e cioè dall’incompatibilità della circolare fascista del 1926 con
le norme della Costituzione. Trattandosi infatti di un atto “GENERALE”, la sua
caducazione ex art. 15 disp. prel. c.c. non può che avere effetti altrettanto
generali, non essendo ipotizzabile una disapplicazione parziale e/o limitata
alla “persona” del ricorrente o all’ufficio dove il ricorrente espleta le sue
funzioni.
Di più: una
disapplicazione “parziale” o “ad personam”
violerebbe il principio di legalità sancito dagli articoli 97 e 101 della
Costituzione, a mente dei quali gli atti normativi GENERALI
–siano essi “leggi” o regolamenti o atti amministrativi- si debbono
applicare a tutti i cittadini senza distinzione alcuna di razza, sesso,
religione, condizioni sociali etc.
Sarebbe dunque illegale che coloro che sono tenuti ad applicare o a
garantire l’applicazione degli atti GENERALI (siano essi giudici od autorità
amministrative) possano disporre “eccezioni” o “deroghe” per casi singoli,
siano esse di favore o di sfavore.
Se la LEGGE impone, ad esempio, a TUTTI i motociclisti l’obbligo di
indossare il “casco”, è impensabile che una qualche autorità consenta al figlio
del Prefetto di circolare “senza casco”. Alla stessa stregua, nel caso di
specie non si può ipotizzare che il G.A., nell’ipotesi in cui accerti
l’intervenuta caducazione della circolare fascista per incompatibilità con norme
costituzionali, possa disporre la rimozione dei crocifissi dal ....solo
tribunale di Camerino! In realtà, delle due l'una: o l’ostensione del
crocifisso è da ritenere legittima -e in questo caso non è legittimo rimuoverlo
neppure da una singola aula- oppure è da ritenere illegittima, ma in questo
caso il crocefisso deve essere rimosso da tutti i tribunali, e non dalle
aule di un singolo tribunale o, ancor più assurdamente, da una singola aula, dove
poi “ghettizzare” e “confinare” il dr. Tosti.
Alla
stessa stregua, se un ebreo adisse l’autorità giudiziaria per far dichiarare
l’intervenuta abrogazione, ex art. 15 preleggi, degli articoli 1 e 2 del R.D.L.
5.9.1938-XVI, n. 1390, che sanciscono
che “All'ufficio di
insegnante nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e
nelle scuole non governative......non possono essere ammesse persone di
razza ebraica...”, e che
“Alle scuole di qualsiasi ordine e
grado....non possono essere iscritti alunni di razza ebraica”,
degli articoli 1 e 3 del R.D.L.
15.11.1938-XVII, n. 1779, che sanciscono che “A qualsiasi ufficio od impiego nelle scuole di ogni ordine e grado,
pubbliche e private, frequentate da alunni italiani, non possono essere
ammesse persone di razza ebraica.....né possono essere ammesse al
conseguimento dell'abilitazione alla libera docenza...” e che “Alle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche
o private, frequentate da alunni italiani, non possono essere iscritti
alunni di razza ebraica”, nonché degli articoli 1 e 13 del D.L. 17.11.1938-XVII, n. 1728, che dispongono che
“Il matrimonio del cittadino
italiano di razza ariana con persona di altra razza è proibito” e che “Non
possono avere alle proprie dipendenze persone appartenenti alla razza ebraica:
a) le Amministrazioni civili e militari dello Stato; c) le Amministrazioni
delle Province, dei Comuni....; e) le Amministrazioni degli Enti parastatali”,
potrebbe il Giudice, dopo aver accertato l’incompatibilità di tali norme con i
principi sanciti dalla Costituzione del 1948, limitarsi a disapplicarle per la
singola fattispecie prospettata dalla parte, obbligandola quindi a riproporre
ulteriori identiche vertenze ogni qual volta si riproponga la necessità di far
valere l’intervenuta abrogazione? Ovviamente no: trattandosi infatti di norme
di legge generali, l’abrogazione per “incompatibilità con le nuove norme” non
può che essere generale.
Le considerazioni
giuridiche sin qui esposte risultano confortate dai Giudici che si sono
pronunciati sulla questione della liceità dell’ostensione dei crocifissi. In
particolare:
1°) La Cassazione penale, Sez. III, con l'ordinanza n. 41.571,
pubblicata il 18.11.2005, nel dichiarare l’inammissibilità dell’istanza di
rimessione per legittima suspicione
sollevata da tale Adel Smith in relazione alla presenza dei crocifissi nelle
aule giudiziarie del tribunale di Verona, ha affermato che “è notorio... che la esposizione del
crocefisso nelle aule giudiziarie non è limitata al Tribunale di Verona,
e neppure agli uffici giudiziari di quella città, ma si estende agli uffici
di tutto il territorio nazionale; in piena conformità, del resto, al
contenuto della menzionata fonte ministeriale, che indirizza l'obbligo di
esporre il crocefisso a tutti i capi degli uffici giudiziari nazionali”.
Da questo presupposto la Corte ha poi dedotto che “non spetta al giudice, e tanto meno al giudice di legittimità
competente ex artt. 46, comma 3, e 48 c.p.p. il compito di disapplicare una
circolare amministrativa che attiene a una materia qual’è quella della
manutenzione degli uffici giudiziari e dei loro arredi, assolutamente estranea
alle attribuzioni giurisdizionali della magistratura”.
2°) Questo stesso principio è stato affermato dalla VI Sez. della
Cassazione penale nella sent. n.
28482/2009, laddove la Corte ha sottolineato che “la contestazione della legittimità dell'affissione del crocifisso nelle
aule di giustizia, avvenuta sulla base di una circolare ministeriale non
assistita da una espressa previsione di legge impositiva del relativo obbligo,
implica - tra l'altro - un problema
di carattere generale,
che può essere fatto valere sollecitando la Pubblica Amministrazione a rivedere
la propria scelta dell'arredo delle dette aule e, in caso di esito negativo,
adendo il giudice amministrativo”.
3) I giudici della Corte di Appello di L’Aquila hanno affermato nella
sentenza n.
2072 del 5.7.2012 che “è il Ministro di Giustizia (e
non altri, quali, ad esempio, il
Presidente del Tribunale ovvero la Corte di Appello) l'espressione del potere dello Stato
abilitato a disporre per l'eventuale eliminazione del simbolo della religione
cattolica dalle aule giudiziarie”.
4) La Sez. disc. del CSM ha affermato nell’ordinanza n. 12/2006 che “non è manifestamente infondata la tesi secondo la
quale, con l’entrata in vigore della Costituzione (che afferma i principi di legalità dell’azione
amministrativa e di laicità dello Stato e garantisce libertà di
coscienza e di religione) si è verificata un’invalidità sopravvenuta
della circolare ministeriale” e che “non
ne deriverebbe che l’amministrazione della giustizia sarebbe per ciò stesso
legittimata a disapplicarla, perché il potere di disapplicazione degli atti
amministrativi illegittimi spetta solo al giudice e non all’amministrazione che
ha emesso l’atto. Tuttavia l’amministrazione, ove ritenga un proprio atto
(originariamente o per circostanze sopravvenute) illegittimo ha il potere di
abrogarlo o revocarlo.”
5)
Infine, la Corte di Cassazione ha ritenuto, nella sentenza n. 4372 del
2000 (imp. Montagnana), che le norme relative all’ostensione del crocifisso
dovessero ritenersi tacitamente abrogate ex art. 15 disp. prel, c.c., perché
incompatibili con le nuove norme della Costituzione. Così si esprime infatti la
Corte: “Esse [cioè le norme regolamentari contenute nell'art. 118 r.d.
30.4.1924, n. 965, e nell'All. c) r.d.26.4.1928, n. 1297: n.d.r.] ....... non diversamente da quella legge [cioè
la legge “Casati”: n.d.r.:], trovano
fondamento nel principio della religione cattolica come sola religione dello
stato, contenuto nell'art. 1 dello statuto albertino: principio che proprio il
punto 1 del protocollo addizionale degli accordi di revisione del 1984
considera espressamente - se pur ve ne fosse stato bisogno dopo l'entrata in
vigore della Costituzione - non più in vigore, con conseguenti ricadute
implicite sulla normativa secondaria derivata. Il rapporto di
incompatibilità - nel detto parere sbrigativamente ritenuto
insussistente - con i sopravvenuti Accordi del 1984, rilevante
per l'abrogazione ai sensi dell'art. 15 delle disposizioni sulla legge in
generale, si pone, quindi, direttamente non con quelle norme
regolamentari bensì con il loro fondamento legislativo: l'art. 1 dello statuto
albertino espressamente dichiarato non più in vigore “di comune intesa”
(preambolo del prot. add.) con la Santa Sede.”
SESTO
PUNTO.
In
sesto luogo la difesa del Tosti rappresenta che una pronuncia del Giudice
Amministrativo (o del Giudice Ordinario) che si limitasse ad ordinare la
rimozione dei crocifissi dalle sole aule del tribunale di Camerino -anziché da
TUTTE le aule giudiziarie italiane- violerebbe gli articoli 1, 13, 17, 18, 35,
53 e 58 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, ratificata con L. 4.8.1955 n. 848, a mente dei quali lo Stato italiano deve garantire il
rispetto dei diritti umani su tutto il territorio nazionale, e non su
porzioni limitate di esso.
L’art. 1 della Convenzione sancisce infatti a carico
degli Stati contraenti l’ “obligation de respecter les droits de l'homme”,
riconoscendo a “à toute personne relevant
de leur juridiction les droits et libertés définis au titre I de la présente
Convention”.
L’articolo 13 della Convenzione attribuisce le “droit
à un recours effectif” a “toute personne dont les droits et libertés
reconnus dans la présente Convention ont été violés....... alors même que la
violation aurait été commise par des personnes agissant dans l'exercice de
leurs fonctions officielles”.
L’articolo 17 della Convenzione vieta agli Stati l’”interdiction
de l'abus de droit”, e cioè dispone che “aucune des dispositions de la
présente Convention ne peut être interprétée comme impliquant pour un Etat, un
groupement ou un individu, un droit quelconque de se livrer à une activité ou
d'accomplir un acte visant à la destruction des droits ou libertés reconnus
dans la présente Convention ou à des limitations plus amples de ces droits et
libertés que celles prévues à ladite Convention.”
Analogamente, l’articolo 18 (Limitation de
l'usage des restrictions aux droits) dispone che “les restrictions qui, aux
termes de la présente Convention, sont apportées auxdits droits et libertés ne
peuvent être appliquées que dans le but pour lequel elles ont été prévues.”
L’articolo 35 della Convenzione stabilisce che “la
Cour ne peut être saisie qu'après l'épuisement des voies de recours
internes.......”
L’articolo 53 della Convenzione sancisce che “aucune
des dispositions de la présente convention ne sera interprétée comme limitant
ou portant atteinte aux droits de l'homme et aux libertés fondamentales qui
pourraient être reconnus conformément aux lois de toute Partie contractante ou
à toute autre Convention à laquelle cette Partie contractante est partie.”
Infine, l’art. 58, par. 1°, della Convenzione
dispone che “Tout Etat peut, au moment de la ratification ou à tout autre
moment par la suite, déclarer, par notification adressée au Secrétaire général
du Conseil de l'Europe, que la présente Convention s'appliquera, sous réserve
du paragraphe 4 du présent article, à tous les territoires ou à l'un
quelconque des territoires dont il assure les relations internationales.”
Dal tenore di tutte
queste disposizioni si evince, in primo luogo, che gli Stati contraenti sono
obbligati a rispettare i diritti e le libertà fondamentali degli individui su tutto il territorio nazionale
– e non su porzioni limitate di esso– e che qualsiasi persona, i cui diritti e
libertà siano stati violati, ha il diritto di presentare un ricorso ad una
autorità interna e a un tribunale per ottenere una tutela “effettiva”, cioè una
tutela che non sia parziale e limitata nello spazio e/o nel tempo.
Dal tenore di tali norme si evince,
altresì, che gli Stati contraenti hanno l’obbligo di garantire il rispetto dei
diritti umani in modo pieno e che, dunque, non possono imporre limitazioni o
restrizioni superiori a quelle previste dalla Convenzione.
Dunque, alla luce di queste norme
della Convenzione una pronuncia giurisdizionale che si limitasse ad assicurare
ad un cittadino il rispetto dei diritti inviolabili su una porzione limitata
del territorio dello Stato sarebbe sicuramente illegittima ed elusiva, perché
lascerebbe persistere la violazione dei diritti umani in altri spazi del
territorio dello Stato contraente.
Nel
caso di specie, dalle norme sopra citate si ricava che lo Stato italiano doveva
e deve garantire a Luigi Tosti il rispetto dei suoi diritti umani in tutte
le aule dell’ufficio di appartenenza e in tutte le aule degli
altri uffici giudiziari che egli, al pari degli altri dipendenti
dell’Amministrazione, aveva il diritto di utilizzare e frequentare. La
situazione di legalità e di rispetto dei diritti umani doveva e deve dunque essere
ripristinata rimuovendo i crocifissi da tutte le aule, e non rimuovendoli dal
solo tribunale di Camerino o, addirittura, confinando e ghettizzando il dr.
Tosti in una singola aula senza crocifisso, quasi si trattasse di un appestato!
Sostenere che uno Stato, in caso di
conclamata violazione di diritti umani, possa accordare alla vittima una tutela
limitata nello spazio -lasciando cioè
persistere la lesione dei suoi diritti inviolabili in tutti gli altri “spazi”
del territorio nazionale, cui egli ha legittimo diritto di accesso e di frequentazione-
significa legittimare, innanzitutto, la violazione dell’art. 1 della
Convenzione, che impone agli Stati l’obbligo di rispettare i diritti umani sull’intero
territorio nazionale; ma significa anche accordare alle “vittime” una
tutela assolutamente parziale e inidonea, violando così gli articoli 13, 17,
18, 35, 53 e 58 che impongono agli Stati di accordare una tutela
effettiva dei diritti e di non sottoporli a restrizioni maggiori
di quelle consentite dalla Convenzione.
Se si opinasse diversamente, si
perverrebbe a conseguenze grottesche. Ad esempio, se nelle aule giudiziarie
fosse imposta l’affissione di targhe ingiuriose e razziste nei confronti degli
ebrei, sarebbe sicuramente illecito il “rimedio” di rimuoverle dal solo ufficio
di appartenenza o, addirittura, di confinare e ghettizzare il dipendente ebreo
in una singola aula priva della targa ingiuriosa. Questi “sconci” rimedi,
infatti, lascerebbero persistere la lesione dei diritti del dipendente ebreo in
tutte le altre aule giudiziarie che egli -al pari dei colleghi di razza “ariana”-
avrebbe diritto di frequentare e di utilizzare -liberamente e nel pieno
rispetto dei suoi diritti- per svolgere le sue funzioni.
SETTIMO
PUNTO.
In settimo luogo, ad integrazione del secondo motivo d’appello, col
quale si è censurata la sentenza del TAR che ha “disapplicato” gli artt. 3 e 63
della legge n. 165/2001, che sanciscono la giurisdizione esclusiva del Giudice
amministrativo per le cause di pubblico impiego dei magistrati, si rappresenta
che la giurisdizione esclusiva del G.A. deve essere affermata anche in virtù
dell’art. 4 del decreto lgs 9.7.2003 n. 216, che reca disposizioni relative
all'attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente
dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall'età e
dall'orientamento sessuale, per quanto concerne l'occupazione nel settore
pubblico e privato, vietando qualsiasi discriminazione diretta o indiretta da
parte del datore di lavoro, pubblico o privato. Nel caso di specie, infatti, il
ricorrente Tosti ha denunziato atti discriminatori da parte del Ministero di
Giustizia (datore di lavoro), consistenti nell’imposizione del crocifisso e nel
divieto di esporre i propri simboli, sicché va applicato anche l’art. 4 del d.
l.vo n. 216/2003 che sancisce che la tutela giurisdizionale contro gli atti discriminatori
appartiene all’A.G.O., “salva la
giurisdizione del giudice amministrativo per il personale di cui all'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001,
n. 165“. Anche in base a
questa norma speciale, pertanto, sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
OTTAVO
PUNTO
In
ottavo luogo, pur non sussistendo alcuna necessità di impugnativa sul punto, si
ribadisce l’infondatezza dell'eccezione dell'Avvocatura di Stato circa
la presunta decadenza dall'impugnazione del “provvedimento” 23.12.2003 prot. n.
2113 con cui il Presidente del Tribunale di Camerino “ha negato la rimozione
del crocefisso dalle aule del Tribunale di Camerino”. Al di là della totale
carenza del Presidente del Tribunale in merito alla rimozione dei crocifissi,
va ribadito che non vi era alcuna necessità di impugnare alcun silenzio-rifiuto -né del
Ministro né del Presidente del Tribunale- vertendosi in materia di tutela di
diritti soggetti, peraltro assoluti e di rango primario e costituzionale.
Sul
punto ci si limita a richiamare la costante giurisprudenza del Consiglio di
Stato e, in particolare, Cons. Stato, IV Sez., n. 7057 del 21.7-12.11.2009: “Per quanto riguarda, poi, la verifica circa
la sussistenza di un obbligo di provvedere, in presenza del quale l’inerzia
dell’Amministrazione assume rilevanza giuridica sub specie di silenzio rifiuto,
va rilevato come la giurisprudenza abbia puntualizzato che il nuovo rito
abbreviato di cui all’art. 2 L. n. 205/2000 riguardi solo il silenzio- rifiuto
in senso tecnico, ossia il comportamento omissivo che maturi a fronte di
un’istanza diretta a far valere una posizione di interesse legittimo e non
anche l’inerzia della P.A. a fronte di un’istanza diretta a far valere un
diritto soggettivo (cfr. Cons. Stato, IV Sez., n. 208/04; n. 5711/03; VI Sez.
n. 2534/03; Iv Sez. n. 540/03; Vi Sez. , n. 4824/02).
Invero, l’istituto del silenzio-rifiuto trova
la sua giustificazione laddove la realizzazione dell’interesse sostanziale del
ricorrente sia subordinata alla valutazione della compatibilità con l’interesse
pubblico e di conseguenza richieda la collaborazione dell’Amministrazione cui,
istituzionalmente, compete tale valutazione.
Quando, invece, si sia in presenza di diritti
soggettivi e, quindi, si facciano valere interessi non correlati al potere
dell’Amministrazione, la procedura del silenzio appare inutile, ben potendo il
soggetto ottenere una tutela più diretta ed immediata tramite un’azione di
accertamento, senza la necessaria intermediazione di un provvedimento formale (cfr. Cons. Stato, IV Sez., n..419/05). In senso
conforme: Cons. Stato, Sez. 6 sent. num. 04632 del 28/06/2004;
Cons. Stato sent. 03341
del 21/05/2004; Cons. Stato, sent. 01873 del 06/04/2004; Cons. Stato
n. 441 del 09/02/2004; n. 03279 del 10/06/2003; n. 02534
del 13/05/2003; n. 511 del 30/03/1998; n. 00820 del 14/07/1997.
NONO
PUNTO.
In
nono luogo si evidenzia l’assoluta irrilevanza nel presente giudizio della sentenza
Lautsi c. Italie del 18 marzo 2011 con la quale la Grande Chambre della CEDH ha ritenuto che l’esposizione del
crocifisso in un’aula scolastica non fosse lesiva del diritto dei genitori di
educare i figli secondo i propri convincimenti (art. 2 del Primo protocollo
addizionale) e della libertà religiosa dei genitori e degli alunni (art. 9).
Con
questa sentenza, infatti, la CEDH ha innanzitutto giustiziato l’unico argomento
giuridico che il Consiglio di Stato aveva ritenuto valido per giustificare
l’ostensione dei crocifissi nelle scuole -e cioè che si trattava di un simbolo “culturale”-
affermando che il crocifisso è, innanzitutto, un simbolo religioso che viene
esposto in quanto tale dallo Stato italiano. Ha tuttavia affermato che il “crocifisso”
è un “simbolo passivo” che “non indottrina”, cioè non induce a credere:
tuttavia il ricorrente Luigi Tosti non ha mai sostenuto la singolare tesi che
il crocifisso appeso nelle aule di giustizia interferisca con i suoi neuroni
cerebrali, inducendolo a “credere” o a convertirsi al cattolicesimo. Egli ha al
contrario dedotto che l’obbligo di
esercitare le sue funzioni giurisdizionali sotto la tutela simbolica del
crocifisso violava il suo diritto di libertà religiosa perché lo ha costretto a subire e condividere un atto di
manifestazione di fede cattolica, senza peraltro avere la possibilità
di neutralizzarlo con l’esercizio di contrapposte manifestazioni e, inoltre,
perché egli è stato costretto a dichiarare di non essere cattolico al fine di
sottrarsi a questa imposizione.
In
ogni caso il dr. Tosti ha anche dedotto la palese lesione del diritto
all’eguaglianza e non discriminazione religiosa perché, se si ritiene che “sia
giusto” che coloro che non sono cattolici (come lui) debbano subire
l’imposizione dei crocifissi perché si tratterebbe di “simboli passivi”, anche
i cattolici debbono subire l’imposizione dei simboli ebraici (o atei, islamici
etc. etc.) per lo stesso motivo, cioè perché si tratta di simboli altrettanto
passivi. La tolleranza implica infatti il rispetto reciproco -e non il rispetto
a senso unico- sicché il diniego di esporre i propri simboli ha integrato una palese
violazione del diritto all’eguaglianza, di cui ha chiesto tutela
giurisdizionale.
E
sotto questo profilo si manifesta del tutto infondata la tesi di chi ha
sostenuto che l’esposizione della menorà non era “giuridicamente” possibile,
dal momento che solo il Parlamento poteva accordare, con legge, un simile
diritto al Tosti. Va rammentato, infatti, che il diritto all’eguaglianza e non
discriminazione è garantito a qualsiasi persona sia dall’art. 3 della
Costituzione che dall’art. 14 della Conv. sui dir. dell’uomo, sicché non
occorreva e non occorre alcuna “legge” del Parlamento per garantire agli ebrei
lo stesso trattamento che il Ministro di Giustizia ha accordato ed accorda ai
cattolici.
Va poi evidenziato che la Grande Camera della CEDH ha avuto cura di
puntualizzare, nel § 57 della sentenza Lautsi, che essa pronunciava
esclusivamente sulla “question ...... de
la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques
italiennes” e non si è invece pronunciata “sur la question de la présence de crucifix dans d'autres lieux que les
écoles publiques”.
La Corte ha poi relativizzato gli effetti
dell’esposizione del crocifisso, osservando al § 74 della decisione che secondo
le “indicazioni fornite dal Governo italiano” nelle scuole italiane ci sarebbe la
possibilità, da parte degli alunni, di esibire la propria simbologia religiosa:
una circostanza, questa, assolutamente falsa alla luce del caso Adel Smith
della scuola di Ofena (AQ) e che, comunque, non ricorre nel caso di specie,
posto che i simboli esposti dal Tosti sono stati rimossi e gli è stato poi
fatto espresso divieto di esporre la menorà.
Va infine
rimarcato che la giurisprudenza interna sopra menzionata (CSM, SS.UU. Civili,
Cassazione penale e Corte di Appello penale di L’Aquila) ha affermato che il
crocifisso nelle aule di giustizia viola il principio di laicità e i diritti
inviolabili di libertà e di eguaglianza religiosa del Tosti, sicché tale
giurisprudenza non può essere neutralizzata o disattesa con il richiamo di
sentenze della CEDH che siano meno favorevoli di quelle pronunciate dai giudici
domestici: infatti, utilizzare la giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo per ridurre il livello di garanzie offerte dall’ordinamento
interno è vietato dall’art. 53 della CEDU e contrasta con l’insegnamento della
Corte costituzionale, secondo cui la giurisprudenza di Strasburgo non può mai
tradursi in una diminuzione del livello di tutela rispetto a quello previsto
nell’ordinamento interno, dovendo il confronto tra tutela prevista dalla
Convenzione e tutela costituzionale dei diritti fondamentali essere effettuato “mirando alla massima espansione delle
garanzie” (cfr. Corte cost., sent. 264 del 2012).
DECIMO
PUNTO.
In
decimo luogo si ritiene utile svolgere delle considerazioni sul significato,
sulla valenza e sugli effetti dell’ostensione obbligatoria dei crocifissi nelle
aule di giustizia, ancorché i giudici interni si siano peraltro pronunciati in
senso favorevole sulle tesi del ricorrente ed esse siano comunque superflue in
questo grado di giudizio, ove si controverte esclusivamente sulla sussistenza o
meno della giurisdizione del G.A.
L’ostensione del crocifisso: significati e valenze.
(1)
L’ordinamento italiano considera il crocifisso come
un simbolo religioso e la
giurisprudenza qualifica pacificamente i crocifissi quali “oggetti di
devozione e di culto” (e non oggetti di arredamento, come un tavolo o una
sedia), tant’è che ravvisa il reato previsto e punito dall’art. 404 c.p. [Offese a una confessione religiosa mediante
vilipendio o danneggiamento di cose] nella condotta di chi vilipenda,
distrugga, deteriori o imbratti tale simbolo in un luogo pubblico o aperto al
pubblico, quale sarebbe per l’appunto un’aula di tribunale (in tal senso si
veda Cassazione penale, sez. I, sentenza 28 ottobre 1966, Fagiali; Cassazione
penale, sez. III, 21 dicembre 1967, Conti; Tribunale di Padova, 14 giugno 2005,
Smith).
(2)
Nel diritto italiano l’esposizione del crocifisso
sulla propria persona o in altro luogo di appartenenza è considerata un atto
di manifestazione di libertà religiosa, cioè di professione e di propaganda
di fede, come si ricava dall’art. 58, comma 2, del regolamento di esecuzione
dell’ordinamento penitenziario (d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230) che, tra le “manifestazioni
della libertà religiosa” consentite ai detenuti, prevede appunto
l’esposizione “nella propria camera individuale o nel proprio
spazio di appartenenza nella camera a più posti” di “immagini e simboli
della propria confessione religiosa”. Lo stesso Ministro di Giustizia,
del resto, ha sostenuto, nel presente giudizio, che l’”ostensione” del crocifisso nelle aule di giustizia rappresenta un “atto
di manifestazione di fede ex art. 19 Costituzione” da parte dello Stato italiano (“laico”!)
(3)
Giova ricordare che i primi tribunali nei quali sono
stati esposti i crocifissi sono stati i (criminali) Tribunali della Santa
Inquisizione e che ancor oggi la Chiesa li espone nei Tribunali ecclesiastici.
Il loro scopo è quello di ostentare la fede in Dio e di connotare di sacralità
cristiana l’esercizio della funzione giurisdizionale. Il ricorrente non avanza
ovviamente dubbi sulla liceità dell’ostensione del crocifisso nei tribunali
ecclesiastici, sia perché si tratta di una scelta che rientra nell’ambito del
legittimo esercizio del diritto di libertà religiosa della Chiesa, sia perché,
trattandosi di tribunali “confessionali”, l’esposizione del “vessillo” della
Chiesa e del Vaticano è del tutto fisiologica ed assume la stessa valenza “identitaria”
che assumono, nei tribunali “laici”, le bandiere e gli altri simboli
dell’Autorità statale. Il ricorrente ritiene, anzi, che né lo Stato italiano né
altri potrebbe imporre alla Chiesa Cattolica l’obbligo di esporre nei tribunali
ecclesiastici la bandiera italiana o i simboli religiosi di altra confessione:
si tratterebbe, infatti, di un’indebita ingerenza che violerebbe sia il
principio di “confessionalità” della
Chiesa cattolica che il suo diritto di libertà religiosa.
(4)
Alla stessa stregua, però, il ricorrente ritiene che
né al Vaticano né alla Chiesa Cattolica né al Ministro di Giustizia competa il
diritto di imporre ai dipendenti, ai cittadini italiani e alla Repubblica
italiana -che è e deve essere neutrale e aconfessionale-
l’obbligo di esporre nei tribunali italiani il “vessillo” della religione cattolica:
si tratta, infatti, di un’ingerenza altrettanto indebita, che viola non solo
l’obbligo dello Stato italiano (e quindi dei giudici) di amministrare la
giustizia in modo visibilmente imparziale e neutrale, ma anche il diritto di
libertà religiosa delle persone che, per motivi di lavoro (come il Tosti) o di
giustizia, sono costrette a frequentare gli uffici giudiziari.
(5)
L’esposizione del crocifisso nelle aule di giustizia
italiane significa, infatti: a) condivisione e propaganda della fede dei
cattolici, in violazione così del diritto (negativo) di libertà religiosa di
tutti coloro che, come il Tosti, sono costretti –o per motivi di lavoro o per
esigenze di giustizia– a frequentare quelle aule; b) evocare e trasmettere il
messaggio simbolico secondo cui la funzione giurisdizionale è esercitata sotto la tutela di una confessione religiosa,
in dispregio del principio supremo di laicità che vieta a qualsiasi istituzione
pubblica di professare una fede religiosa ed impone, al contrario, l’obbligo
della neutralità di chi (come il magistrato Tosti) è chiamato ad esercitare la
giurisdizione; c) evocare e trasmettere il messaggio monoconfessionale secondo cui nelle aule di giustizia italiane è ammessa soltanto la simbologia
religiosa cattolica, in lesione del diritto alla non discriminazione
religiosa di chi, non essendo cattolico o credente come il Tosti, non ha la
pari opportunità di veder esposti e di propagandare i propri simboli in uno
spazio pubblico.
(6)
Nel caso di specie, i
valori evocativi del messaggio religioso del crocifisso risultano non
tollerabili per il ricorrente Luigi Tosti, che non accetta di condividere un
simbolo e una religione che non gli appartengono e che non accetta di giudicare,
al pari dei giudici dell’Inquisizione e dei tribunali ecclesiastici, sotto la
tutela simbolica di quel vessillo e di quel messaggio.
(7)
Il ricorrente Luigi Tosti è una persona che
nell’esercizio del suo insindacabile diritto individuale di libertà religiosa è
avversa a qualsiasi forma di simbolismo religioso o di idolatria, tant’è che
non espone sulla sua persona o negli spazi privati di appartenenza simboli,
idoli o cosiddette immagini sacre.
(8)
Luigi Tosti è un cittadino italiano che, dopo aver
superato un concorso pubblico in magistratura, ha accettato di lavorare alle
dipendenze del Ministero di Giustizia di una Repubblica “laica” e, quindi, in
tribunali che non possono imporre né ai dipendenti come lui né ai cittadini
giustiziabili l’obbligo di condividere atti di manifestazioni di libertà
religiosa né connotazioni religiose partigiane dell’attività lavorativa
espletata. In particolare, lo statuto costituzionale della funzione
giurisdizionale stabilisce che “la
giustizia è amministrata in nome del
popolo e che “i
giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101 Cost.), legge davanti
alla quale tutti i cittadini “sono
eguali, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
(9)
Per contro, Luigi Tosti non ha scelto di “esercitare
la professione di giudice” in un Tribunale ecclesiastico, cioè all’interno
di un Ente religioso per il quale il crocifisso assume indubbiamente
caratteristiche identitarie che sono essenziali e determinanti per lo
svolgimento della sua attività confessionale: se lo avesse fatto, non avrebbero
potuto accampare-e non accamperebbe oggi- la pretesa di far rimuovere i
crocifissi dalle aule giudiziarie italiane o di esporre i propri simboli
religiosi ma, al contrario, avrebbe dovuto subire la limitazione dei suoi
diritti di libertà e di eguaglianza religiosa. In tal senso si è pronunciata la
CEDH nell’arresto del 20 ottobre 2009, relativo all’affaire Lombardi Vallauri c. Italia, requête no 39128/05, par. 41 e 44, laddove si è
ritenuta legittima la restrizione del diritto di libertà di espressione (art.
10) e del diritto di libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 9)
di un professore universitario, perché “giustificata
dallo scopo di tutelare un “diritto altrui”, cioè l’interesse di un’Università
cattolica a dispensare un insegnamento conforme alle convinzioni religiose
dell’Ente universitario”[4].
(10)
Ad opposte conclusioni si deve però pervenire nel
caso di specie. La restrizione della libertà religiosa del Tosti non si
giustifica, infatti, per la qualità soggettiva del Ministero di Giustizia, che non
è un ente religioso ma, al contrario, un organo amministrativo di uno Stato
laico che, dunque, è tenuto all’assoluta neutralità religiosa e al rispetto dei
diritti di coscienza, di libertà religiosa e di eguaglianza di tutti coloro
che (come il Tosti) sono costretti a frequentarli per “motivi di lavoro o di giustizia”.
Per altro verso poi, l’esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie non è
giustificata dalla natura “religiosa” dell’attività giurisdizionale che viene
espletata dai tribunali italiani ma, anzi, vi si pone in insanabile conflitto,
perché calpesta il principio di neutralità e di imparzialità dei giudici, sancito dalla Costituzione italiana (art.
111) e dalla Convenzione (art. 6).
(11)
Riepilogando, il ricorrente sostiene che il Ministro
di Giustizia –non essendo un Ente religioso– non poteva limitare la sua libertà
religiosa, di pensiero e di coscienza, imponendogli di condividere nelle aule
giudiziarie l’esposizione del crocifisso come “simbolo venerato” e conferendogli dunque, durante la celebrazione
dei processi, connotazioni confessionali smaccatamente cattoliche: connotazioni
che la sua coscienza e libertà non tollerano, sia perché contrarie ai suoi
convincimenti religiosi, sia perché contrarie ai precetti costituzionali e
convenzionali che impongono allo Stato italiano e ai giudici di essere neutrali
e imparziali nell’esercizio dell’attività giurisdizionale.
(12)
E’ bene puntualizzare che Luigi Tosti non si è mai
doluto del fatto che le persone che frequentano gli uffici giudiziari possano
esporre sulla propria persona i crocifissi (o altri simboli): si tratta infatti
di manifestazioni di libertà religiosa dei singoli cittadini che sono garantite
– anche in luoghi pubblici– dall’art. 9
della Convenzione e dall’art. 19 della Costituzione e che, pertanto, non ledono
i diritti di libertà religiosa altrui, perché sono “neutralizzate” dall’identica facoltà che è concessa –in positivo o
in negativo– a tutti coloro che
praticano fedi diverse o che non ne praticano alcuna. Egli ritiene, al
contrario, che di fronte all’ostensione dei simboli religiosi altrui – ancorché
non condivisi– si imponga, di regola, la
“tolleranza”: la quale però implica, in un regime democratico che si fonda
necessariamente sull’eguaglianza e pari dignità di qualsiasi ideologia
religiosa o filosofica, che la “tolleranza” sia reciproca -e non a senso unico-
e che dunque vi debba essere un reciproco rispetto delle opinioni, anche
se non condivise.
(13)
Il ricorrente contesta che il Ministro di Giustizia
di uno Stato laico possa imporre l’esposizione del crocifisso nelle aule
giudiziarie, e cioè in luoghi che debbono essere indefettibilmente neutrali. In
questo modo, infatti, l’ostensione del crocifisso nelle aule di giustizia non è
più un legittimo atto di “manifestazione
di libertà religiosa” “in un luogo
pubblico”, ma un’imposizione e un’ingerenza indebite nella sfera di libertà
religiosa di chi –come il Tosti– è contrario a qualsiasi forma di idolatria e
non si identifica in quel simbolo e, anzi, se ne dissocia per gli efferati
crimini contro l’umanità che sono stati commessi in suo nome- ma che, tuttavia,
è stato costretto a condividerli negli ambienti giudiziari che ha
dovuto necessariamente frequentare per poter esercitare le proprie mansioni
lavorative, senza nemmeno avere l’opportunità di neutralizzarli con l’esposizione dei propri simboli.
(14)
L’imposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie
non può essere considerata un atto “neutro” ai fini del rispetto della libertà
religiosa, così come non lo sarebbe l’obbligo di partecipare alle udienze col
crocifisso al collo o cucito sulla toga del giudice. E se un crocifisso o altra
simbologia religiosa appesi al collo o cuciti sulla toga connotano di
partigianeria religiosa l’esercizio della giurisdizione e ledono la libertà
religiosa dei soggetti che sono obbligati ad indossarli, un crocifisso appeso
sulla parete non può non avere la stessa identica valenza religiosa, gli stessi
identici significati e gli stessi effetti pregiudizievoli sulla libertà dei
soggetti obbligati a subirli e sul rispetto del principio dell’ equo processo
da parte di giudici imparziali.
(15)
La circostanza che in Italia molti si siano “assuefatti”
alla visione dei crocifissi –perché sono rimasti appesi alle pareti fin
dall’epoca del fascismo– non deve indurre all’erroneo convincimento che la loro
imposizione sia ininfluente con l’argomento che il crocifisso è un simbolo “passivo” che non obbliga nessuno a credere:
il diritto negativo di libertà religiosa, infatti, non implica soltanto quello
di non essere obbligati a credere in una
religione, ma anche quello di non
essere costretti a subire o condividere atti di manifestazioni di libertà
religiosa altrui, senza peraltro avere possibilità di neutralizzarli
-come avviene nel caso di specie- con l’esercizio di contrapposte
manifestazioni. Il Ministro di Giustizia e il Presidente del Tribunale di
Camerino hanno infatti proibito (ed anzi rimosso) l’esposizione della menorah
ebraica e del logo dell’UAAR, e il CSM e
le SS.UU. civili della Cassazione hanno da parte loro sancito che “per esporre i simboli degli ebrei (e di
altre confessioni religiose) occorrerebbe una “legge” del Parlamento”:
argomento, questo, specioso, perché la Costituzione Italiana e la Conv. sui
diritti dell’Uomo garantiscono agli ebrei (e non solo agli ebrei) gli stessi
diritti e la stessa dignità che lo Stato italiano accorda ai “cattolici”: non
esistono né “razze” superiori né “fedi” superiori.
(16)
L’imposizione del crocifisso non può essere
considerato un atto anodino perché, altrimenti, dovrebbe ritenersi altrettanto
anodina l’imposizione a tutti i cittadini italiani dell’obbligo di esporre i
crocifissi nelle loro abitazioni: il che non può essere giustificato, perché
l’ostensione di un simbolo religioso è un atto di manifestazione di libertà
religiosa che, come tale, non può essere imposto a nessuno.
(17)
Concludendo, il ricorrente ritiene che la
restrizione del diritto negativo di libertà religiosa e di coscienza (art. 9
CEDU), provocata dall’imposizione del crocifisso, può essere giustificata solo
per chi ha scelto, volontariamente, di lavorare alle dipendenze di un tribunale
ecclesiastico, ma non per chi è costretto a lavorare in un tribunale laico che
-tra l’altro- sia in base all’art. 6 della Convenzione che in base all’art. 111
della Costituzione italiana, deve essere connotato da assoluta imparzialità
e neutralità, e non da partigianeria religiosa.
(18)
Sul piano della convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo va considerato che nell’organizzare il servizio della
giustizia le Parti Contraenti debbono rispettare l’art. 6, § 1, che garantisce
il diritto ad una giustizia che, oltre ad essere
imparziale, appaia tale.
In Klein c. Pays– Bas, del 6 maggio 2004,
ai §§ 190 ss., la Grande Chambre ha
sottolineato che anche l’apparenza di imparzialità è una qualità
importante per i tribunali, perché i dubbi al riguardo debbono essere
esclusi ed i soggetti devono poter aver fiducia nel giudice:
“Quant à la
condition d’«impartialité», au sens de l’article 6 § 1 de la Convention, elle
revêt deux aspects. Il faut d’abord que le tribunal ne manifeste subjectivement
aucun parti pris ni préjugé personnel. Ensuite, le tribunal doit être
objectivement impartial, c’est– à– dire offrir des garanties suffisantes pour
exclure tout doute légitime à cet égard. Dans le cadre de la démarche
objective, il s’agit de se demander si, indépendamment de la conduite
personnelle des juges, certains faits vérifiables autorisent à suspecter
l’impartialité de ces derniers. En la matière, même les apparences peuvent
revêtir de l’importance. Il y va de la confiance que les tribunaux d’une
société démocratique se doivent d’inspirer aux justiciables, à commencer par
les parties à la procédure”.
(19)
L’importanza dell’apparenza, in questo settore, è
stata ribadita dalla giurisprudenza successiva della CEDH: così, ad esempio, Sacilor Lormines c. France, del 9
novembre 2006, § 60 e Micallef c. malte, del 15 ottobre 2009, § 98, la quale,
richiamando diversi precedenti ci ricorda che “«justice must not only be
done, it must also be seen to be done»
(il faut non seulement que justice soit faite, mais aussi qu'elle le soit au vu
et au su de tous)”.
Ora,
una giustizia amministrata in locali arredati col crocifisso per definizione
appare non imparziale sotto il profilo della equidistanza rispetto ai
convincimenti religiosi. D’altro canto, se l’esposizione del crocifisso
appare del tutto lecita e giustificata nei tribunali ecclesiastici, perché è
deputata a connotare di “confessionalità” e di “sacralità” l’esercizio della
funzione giurisdizionale da parte di quei giudici, essa appare del tutto
illecita e ingiustificata nei tribunali della Repubblica italiana che, per
dettato costituzionale, debbono essere laici e neutrali.
Se il
principio di laicità implica l’ “obbligo” dello Stato di essere neutrale imparziale
ed equidistante in materia religiosa, deve necessariamente sussistere un “diritto”
da parte di uno o più soggetti attivi. Il principio di laicità deve dunque
essere qualificato come un vero e proprio “rapporto giuridico”, in virtù del
quale un soggetto (nella specie lo Stato) è tenuto ad un determinato
comportamento (nella specie: equidistanza, neutralità ed imparzialità) nei
confronti di “altri soggetti”. Ebbene, dal momento che il principio di laicità
si fonda non soltanto negli art. 7 ed 8 e 20 della Costituzione -cioè sui
diritti primari di eguaglianza della associazioni religiose- ma anche sugli
altri art. 3 e 19, cioè sui diritti primari di eguaglianza degli individui, si
deve dedurre che ai singoli individui competa il diritto primario di pretendere
l’osservanza di tale fondamentale principio.
Per
convincersene, basta pensare a quale sarebbe l’immagine della funzione
giurisdizionale se essa fosse amministrata in aule invariabilmente arredate
soltanto con il simbolo di un determinato partito politico.
UNDICESIMO
PUNTO
A
chiusura della presente memoria si ritiene doveroso sottoporre all’esame dell’Ecc.mo Consiglio di Stato l’ “Opinione
ebraica sul crocifisso” espressa dal Rabbino Capo di Roma prof. dott.
Riccardo di Segni, pubblicata dalla newletter Kolot lunedì 30 settembre
2002, ore 8:35, cioè ben prima dell’inizio dell’azione legale intrapresa dal
dr. Tosti.
Lo scopo è quello di riportare l’opinione di una
persona più autorevole del ricorrente che, in termini non tecnici ma
estremamente logici, ha espresso il suo dissenso nei confronti dell’esposizione
del crocifisso negli uffici pubblici italiani per motivi che coincidono, nella
sostanza, con quelli esposti dal ricorrente: e cioè che in un Paese realmente “laico”
gli spazi pubblici non possono essere riservati ad una sola religione, ancorché
maggioritaria. La vera laicità dello Stato comporta l’inclusione di tutte le
fedi e di tutte le culture, in regime di eguaglianza e di reciproco rispetto,
senza privilegi per alcuno.
Questo
è quello che scriveva, nel 2002, il Prof. Riccardo Di Segni:
“Un’opinione ebraica sul crocifisso”
“Gli antichi testi rabbinici raccontano una
storia su Rabban Gamliel (Gamaliele), l'autorevole rabbino che difese nel
Sinedrio i primi fedeli di Gesù e di cui l'apostolo Paolo si vantava di essere
stato discepolo. Gamliel frequentava le terme di Afrodite di Acco, un luogo
pieno di statue dedicate agli dei; ed era molto strano che lo facesse il
rappresentante tanto importante di una religione che rifiutava l'idolatria.
Gamliel si giustificava in questo modo: “non sono stato io ad andare nel
territorio di Afrodite, ma è stata Afrodite a venire nel mio territorio”. In
altri termini, bisogna distinguere tra il territorio di Afrodite, cioè il
tempio che le è dedicato e nel quale chi rifiuta l'idolatria non deve entrare,
e la casa di tutti, come le terme pubbliche, dove qualcuno può anche averci
introdotto immagini proibite, ma non per questo diventa proibita ai
frequentatori. La posizione di Gamliel era quella del rappresentante di una
religione allora senza potere politico, che non poteva permettersi, anche se
l'avesse voluto, l'abolizione forzata delle immagini idolatriche. Cominciarono
a farlo e ci riuscirono, tre secoli dopo questa storia, i rappresentanti del
cristianesimo trionfante sugli “dei falsi e bugiardi”. Da allora fu il
cristianesimo a riempire gli spazi pubblici dei segni della sua fede. Non fu un
processo senza ostacoli, perché anche nel cristianesimo l'uso delle immagini
nella pratica religiosa fu sempre causa di discussioni e divisioni; non tanto
per il cattolicesimo: e noi in Italia, dove la realtà cristiana è in gran parte
cattolica, dobbiamo confrontarci con le scelte di questa parte del mondo
cristiano così fedele alle sue immagini di culto.
Per Gamliel, che era lo spettatore passivo
dell'irruzione nel luogo pubblico di immagini che lo disturbavano, ma contro le
quali non poteva fare nulla, si trattava di decidere se era lecito frequentare
il luogo pubblico. Per la società moderna, nella quale ogni cittadino partecipa
democraticamente alla decisione collettiva, il problema va oltre: si tratta di
decidere se sia lecita l'introduzione di un segno privato in un luogo pubblico.
La questione che oggi si pone del crocifisso nelle scuole, forse con un'enfasi
esagerata, è quella dei limiti da porre al desiderio di una fondamentale
componente della società a porre e imporre il segno della sua fede nella casa
di tutti, nella quale coabitano tutte le altre parti della società. Non bisogna
dimenticare che ogni stato moderno, per quanto laico possa dichiararsi, ha
stabilito dei patti con le religioni, maggioritarie e minoritarie, derogando
più o meno dal principio dell'assoluta separazione tra stato e religioni. Ciò
che è avvenuto in Italia è il prodotto di una storia lunga e travagliata, e ciò
che non è stato ancora definito con precisione, e che sta ai limiti delle
decisioni consolidate, come il caso del crocifisso, solleva di tanto in tanto
delle polemiche, banco di prova e di scontro tra almeno due concezioni diverse.
In questo dibattito può avere qualche
importanza conoscere gli stati d'animo e le domande di molti ebrei italiani. Si
dice che il crocifisso sia un segno culturale, e che non bisogna rinunciare
alla propria cultura e alle proprie tradizioni per un malinteso senso di
rispetto delle minoranze. E' vero che il crocifisso è anche un segno culturale,
ma non è per questo che lo si vuole nelle scuole; lo si vuole perché è prima di
tutto un segno religioso, e il problema è essenzialmente religioso. I cattolici
rivendicano con giusto orgoglio che questo è per loro un segno di amore e di
speranza, e non si capisce allora perché non debba essere presente ovunque. Ma
visto da altre parti, come quella ebraica, il senso di quel segno è differente.
Per noi è prima di tutto l'immagine di un figlio del nostro popolo che viene
messo a morte atrocemente; ma è anche il terribile ricordo di una religione che
in nome di quel simbolo, brandito come un'arma, ha perseguitato, emarginato,
umiliato il nostro ed altri popoli, cercando di imporgli quel simbolo come
l'unica fede possibile e legittima. La storia passata della Chiesa ha
trasformato quel simbolo, che dovrebbe essere di amore, in un segno di
oppressione e intolleranza. L'ultimo Concilio ha cambiato nettamente la
direzione, ma la richiesta ripetuta di occupare il luogo pubblico con quel
segno ripropone alla nostra memoria il tema dell'intolleranza. La domanda che
allora si pone a quella parte del mondo cattolico che si batte tanto per il
crocefisso è se siano tornati, o non siano mai finiti, i tempi in cui la
religione cattolica ha pensato di imporsi e diffondersi non con la
testimonianza e la pratica esemplare delle sue virtù, ma con l'invasione, la
forza, l'occupazione. Il problema che ci preoccupa è quale modello di religione
sia dietro alle richieste dei difensori del crocifisso. Come membri minoritari
di una società pluralistica continuiamo a ragionare con Gamliel, e a non
rinunciare agli spazi pubblici, subendone, se inevitabile, l'occupazione con
segni privati; come cittadini partecipiamo al dibattito civile per definire i
limiti e i diritti di ogni religione nella società laica; come fratelli,
rivolgiamo ai fratelli cattolici una domanda preoccupata sulla loro identità,
sul loro modo di vivere e proporre la loro fede al mondo circostante.”
P. Q.
M.
si
insiste per l’accoglimento dell’appello, con conseguente annullamento della
sentenza e rinvio al TAR delle Marche per il giudizio di merito.
Si
producono i seguenti documenti:
1)
sentenza 17 febbraio 2009 n. 28482 della VI Sez.
Cass. Penale;
2)
ordinanza Sez. disc. CSM n.12 del 31 gennaio/23
novembre 2006;
3)
sentenza Sez. disc. CSM n. 88 del 22 gennaio/26
maggio 2010;
4)
sentenza SS.UU.Civili n. 5924 dell’8 febbraio/14
marzo 2011;
5)
ordinanza Corte Appello penale di L’Aquila 5.7.2012;
6)
sentenza Corte Appello penale di L’Aquila 5.7.2012
n. 2072.
Camerino/Roma, li 29 giugno
2013
Avv.
Fabio Pierdominici
[4] A supporto di tale pronuncia la CEDH ha richiamato
l’art. 3 del D.P.R. n. 216/2003 che, recependo la direttiva n. 78/2000/CE (art.
4), ha disposto che “nell'ambito del
rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attività di impresa.... non
costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 le
differenze di trattamento, basate sulla professione di una determinata
religione o di determinate convinzioni personali, che siano praticate
nell'ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private,
qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle
attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il
contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale,
legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività.”