CORTE DI
APPELLO DI L’AQUILA
UDIENZA
DIBATTIMENTALE DEL 5 LUGLIO 2012
MEMORIA
DIFENSIVA DELL’APPELLANTE LUIGI TOSTI
Ø
PRIMO PUNTO - L’appellante Luigi Tosti dichiara
espressamente di rinunciare alla prescrizione dei reati di cui è imputato e per
i quali ha già riportato condanna.
Ø
SECONDO PUNTO - L’appellante Luigi Tosti dichiara di aver RINUNCIATO con
dichiarazione resa ex art. 582-589 C.P.P.al Cancelliere del Tribunale di Rimini
(e in ogni caso ribadisce con questo atto la RINUNCIA) al PRIMO MOTIVO di
APPELLO col quale ha lamentato la mancata applicazione dei
principi sanciti dalle SS.UU. della Cassazione penale nella sentenza n.
6670/1985. Chiede pertanto che la Corte si pronunci solo sui residui motivi
d’appello, conformente alla giurisprudenza della Cassazione penale che ha
affermato (cfr., da ultimo, Cass. pen., Sez. 2, sent. n. 3593 del
03/12/2010 / 01/02/2011) che “è
inammissibile il ricorso per cassazione avverso la decisione del giudice di
appello che, rilevata la rinuncia dell'imputato ai motivi di appello diversi da
quelli relativi alla riduzione di pena, dichiari, in virtù degli art. 589,
commi secondo e terzo e 591, comma primo, lett. d) cod. proc. pen.,
l'inammissibilità sopravvenuta dei motivi oggetto di rinuncia, omettendone
l'esame ai fini dell'applicazione dell'art. 129 cod. proc. pen., considerato
che la rinuncia ha effetti preclusivi
sull'intero svolgimento processuale, ivi compreso il giudizio di legittimità.
Pertanto, poiché, ex art. 597,
comma primo, cod. proc. pen., l'effetto
devolutivo dell'impugnazione circoscrive la cognizione del giudice del gravame
ai soli punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti,
una volta che essi costituiscano
oggetto di rinuncia, non può il giudice di appello prenderli in considerazione,
né può farlo il giudice di legittimità sulla base di un'ipotetica
implicita revoca di tale rinuncia, stante l'irrevocabilità di tutti i negozi processuali,
ancorché unilaterali”).
Ø
TERZO PUNTO - L’appellante rappresenta che nelle
more del giudizio è stato celebrato a suo carico il procedimento disciplinare
per gli stessi identici fatti
che sono stati contestati in questa sede penale. Tale giudizio si è concluso
con sentenza del CSM n. 88/2010 con la quale è stato condannato alla rimozione dalla magistratura.
Questa sentenza è passata in giudicato in seguito al rigetto del ricorso per
cassazione, disposto dalle SS.UU con sent. n. 5924/2011 del 14.11.2011.
Ovviamente i principi
sanciti dalla Sezione disciplinare del CSM e dalla Cassazione non fanno stato
nel presente processo: tuttavia -se condivisi dalla Corte di Appello aquilana- assumerebbero
un rilievo giuridico decisivo, perché determinerebbero l’integrale riforma
della motivazione che è stata addotta dal Tribunale a sostegno della condanna:
e cioè che il Tosti -a fronte della conclamata lesione dei suoi diritti
inviolabili di libertà religiosa e di coscienza e di non discriminazione- non
potesse “autotutelarsi” col rifiuto di un’attività di servizio che gli era imposta
dal rapporto di pubblico impiego, essendo stati per contro applicati al suo
caso i principi fissati dalla sentenza n. 196/1987 della Corte Costituzionale
che, in un caso di “obiezione di coscienza”- aveva sancito che “i
diritti inviolabili del magistrato dovevano cedere il passo all’indeclinabile e
primaria esigenza dell’amministrazione della giustizia.”
A
tal proposito giova ricordare che questo stesso principio era stato
originariamente affermato dalla Sezione disciplinare del CSM nell’ordinanza del
31.1.2006, con la quale aveva disposto la sospensione cutelare del Tosti dalle
funzioni e dallo stipendio. Il CSM aveva infatti escluso che il magistrato
potesse “autotutelare” i suoi diritti di libertà religiosa e di coscienza col
rifiuto di tenere le udienze, ritenendo per converso applicabili i
principi sanciti dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 196/1987 della
Corte Costituzionale.
Il
CSM si era espresso in questi termini:
“Nella
soluzione del caso di specie sono di estremo rilievo le argomentazioni sulle
quali si basa la citata sentenza della corte costituzionale n. 196 del 1987,
con la quale è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità
costituzionale degli articoli 9 e 12 della legge n. 194 del 1978 nella parte in
cui non riconoscono il diritto all’obiezione di coscienza al giudice tutelare
al quale la minore chieda di essere autorizzata a decidere l’interruzione della
gravidanza senza l’assenso dei genitori. Il conflitto tra l’adempimento dei
propri doveri funzionali e l’imperativo contrario, espressione della propria
coscienza, in una situazione in cui il legislatore non ha previsto un criterio
di soluzione è stata ritenuta superabile solo dando la prevalenza “all’indeclinabile e primaria realizzazione
della esigenza di giustizia” che discende dagli articoli 54, 2° comma
(sulla doverosità dell’adempimento delle funzioni pubbliche) e 107 Cost., e il
cui rilievo costituzionale la corte ha ripetutamente riconosciuto (cfr.
sentenza n. 1 del 1981)”.
Questa
motivazione è stata poi condivisa -anzi, ricopiata- dal Tribunale dell’Aquila, che
l’ha posta a base della condanna del Tosti senza tenere conto delle critiche mossele:
e cioè che il rifiuto di tenere le udienze non scaturiva da una cervellotica “obiezione
di coscienza” del magistrato -cioè dall’esigenza di rispettare suoi
personali “convincimenti ideologici”- bensì dall’esigenza di autotutelare
diritti inviolabili, preservandoli dalla lesione che era indotta dall’imposizione
dell’obbligo di tenere le udienze sotto l’imposizione del crocifisso e dal
contestuale divieto di esporre i propri simboli a fianco dello stesso.
Orbene,
con la sentenza n. 88/2010 i giudici della (nuova) Sezione disciplinare hanno ripudiato
la motivazione posta a fondamento della “sospensione cautelare” (e quindi anche
la motivazione addotta dal Tribunale aquilano a fondamento della condanna), affermando
un principio diametralmente opposto: e cioè che l’obbligo di
esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica del crocifisso metteva in
discussione il fondamentale diritto soggettivo di libertà religiosa e di
opinione del magistrato, autorizzandolo dunque a rifiutarsi di tenere le
udienze per legittima autotutela.
Nonostante
ciò, i giudici della Sezione Disciplinare hanno condannato alla rimozione il dr. Luigi Tosti
perché hanno ritenuto illegittima la “persistenza del suo rifiuto
di tenere le udienze ANCHE DOPO che il Presidente del
Tribunale di Camerino gli aveva offerto il rimedio di tenerle in un’aula, senza
crocifisso, appositamente allestita per lui”. Questo “rimedio” è
stato infatti ritenuto “non ghettizzante” e “non lesivo di altri diritti
inviolabili” del magistrato.
Questa motivazione è stata poi condivisa dalle Sezioni
Unite civili nella citata sentenza n. 5924 del 14 marzo 2011. In particolare, la
Corte ha chiarito che “la Sezione
disciplinare non ha ritenuto la responsabilità del dr. Tosti, perché si era
rifiutato di fare udienza in un'aula ove fosse esposto il crocifisso:
anzi ha specificato che solo in
questo caso, e cioè se gli
fosse stato imposto di esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica
del crocifisso, ciò poteva mettere in discussione il suo diritto
soggettivo di libertà religiosa e di opinione..... la Sezione
disciplinare ha escluso in fatto che una lesione del diritto soggettivo della
libertà religiosa, di coscienza e di opinione vi fosse, essendo possibile
utilizzare un ufficio ed aula senza il crocifisso”.
C’è di più: la Corte ha enucleato dei principi giuridici che
convalidano in toto le tesi difensive dell’imputato, esprimendosi in questi
termini:
“Anzitutto in materia di rapporto di lavoro, sia pubblico che
privato, si è affermato che colui che è tenuto alla prestazione lavorativa in
determinati casi possa rifiutare la stessa allorchè tale rifiuto si
caratterizzi come forma di legittimo esercizio di autotutela del lavoratore a
fronte di inadempimenti da parte del datore di lavoro, e quindi nella stessa
ottica di cui all'art. 1460 c.c., (Cass. 03/05/2004, n. 8364), segnatamente
quando tali inadempimenti investano diritti inviolabili dell'uomo e, quindi,
costituzionalmente garantiti (ad es. quello alla salute: Cass. 17/12/1997,
n. 12773).
L'autotutela costituita dal rifiuto della prestazione
lavorativa in presenza della violazione di diritti fondamentali del soggetto,
che deve effettuare la prestazione lavorativa, costituisce una cosiddetta
"autotutela passiva reattiva". Essa consiste in un comportamento di
dichiarata inadempienza, che sarebbe in sè illegittimo (o addirittura
illecito), ma che si assume legittimato dall'accertata inadempienza della
controparte.
Esso è in funzione della reciprocità su cui i rapporti
sinallagmatici sono imperniati.
La disciplina dei poteri di autotutela discende dai
precetti sanzionatori che si inquadrano, mercè il loro carattere permissivo e senza
possibilità di estensione analogica, nell'ordine statale costituzionale e
comunitario. Tali precetti, in previsione di date circostanze, autorizzano il
singolo a tenere un comportamento che solo in quelle circostanze riconosce
legittimo, e che costituisce la difesa di un suo diritto minacciato.
Le varie forme di iniziativa in cui l'autotutela (intesa
come difesa extragiudiziale) può legittimamente esplicarsi sono oggetto di
poteri-mezzi, coordinati al diritto da tutelare. Essa, quindi, presuppone anzitutto
che sussista la posizione soggettiva di titolarità del diritto tutelato (anche
se in casi determinati l'ordinamento riconosce la possibilità di agire per la
tutela di un diritto di altro soggetto) ed inoltre che tale autotutela si
ispiri a crìteri di idoneità e di proporzionalità tra la minaccia al diritto e
la reazione.
Se il diritto minacciato è un diritto inviolabile (e come tale costituzionalmente garantito) del soggetto
tenuto alla prestazione lavorativa (in senso ampio), non vi è dubbio che il titolare
dello stesso possa espletare l'autotutela e che questa possa manifestarsi anche
attraverso il rifiuto della prestazione lavorativa, allorchè tale rifiuto è
idoneo ed adeguato ad evitare la lesione del diritto fondamentale
oggettivamente minacciato, lesione non altrimenti evitabile (ovvero evitabile
in modo eccessivamente oneroso).”
Sulla base di quanto sin qui esposto è chiaro che, se
queste motivazioni venissero condivise, la Corte d’Appello dovrebbe ritenere
pienamente fondati il SECONDO ed il DECIMO motivo di appello.
Questo, tuttavia, non sarebbe sufficiente per una
pronuncia di assoluzione, dovendo la Corte esaminare se il “rimedio” dell’aula
speciale, allestita senza crocifisso per il Tosti, fosse conforme a legge e
fosse idoneo a garantire il rispetto del principio di laicità ed il rispetto
dei suoi diritti inviolabili di libertà religiosa, di coscienza e di eguaglianza
e non discriminazione.
L’appellante rappresenta di aver affrontato queste
questioni in primo grado e, anzi, di averne fatto oggetto di apposita memoria
scritta presentata all’udienza dibattimentale del 10.1.2008 (quinto motivo,
pagine 76-80): il Tribunale non si è però pronunciato, perché le ha ritenute
assorbite dalla motivazione principale, e cioè che l’imposizione del crocifisso
-ancorché in ipotesi lesiva del principio di laicità e dei diritti inviolabili
del magistrato- non autorizzasse il Tosti a rifiutare l’esecuzione di atti di
ufficio per la necessità di “autotutelare” i propri diritti.
Questa omissione motivazionale -che ha poi determinato la
mancata proposizione di specifici motivi di gravame- non preclude alla Corte -ma
anzi gli impone- di esaminare la questione, trattandosi di considerazioni ed
argomenti che risultano dagli atti di causa e che non sono contestati. Sul
punto si richiama Cass. pen., Sez. 1,
sent. n. 2390 del 11/02/1997-12/03/1997,
De Luca, che così ha statuito:
“Ai fini della individuazione dell'ambito di cognizione attribuito al
giudice di secondo grado -limitato, in forza del primo comma dell'art.597 cod.
proc. pen., "ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi
proposti"- per punto della decisione deve ritenersi quella statuizione
della sentenza che può essere considerata in modo autonomo, non anche le
argomentazioni esposte in motivazione, perché queste riguardano il momento
logico e non già quello decisionale del procedimento. Ne deriva che il giudice
dell'impugnazione può, in ordine alla parte della sentenza autonomamente
considerabile che riguarda una specifica questione decisa in primo grado,
pervenire allo stesso risultato cui è giunto il primo giudice anche sulla sola
base di considerazioni ed argomenti diversi da quelli considerati dal primo
giudice, o di dati di fatto non contestati e risultanti dagli atti, anche se
non valutati in primo grado, senza con ciò violare il principio dell'effetto
parzialmente devolutivo dell'impugnazione.”
D’altro canto l’imputato ha -e non lo nasconde- un
interesse sostanziale alla decisione di questa questione, perché un’eventuale assoluzione
penale gli consentirebbe di proporre un’istanza di revisione della condanna
disciplinare alla rimozione, per la quale ha peraltro inoltrato ricorso alla
Corte europea dei Diritti dell’Uomo per gli stessi motivi che qui di seguito si
espongono.
Ø
QUARTO PUNTO: Il dr. L. Tosti si è legittimamente
rifiutato di tenere le udienze in una singola aula, allestita per la sua
persona senza crocifisso, perché ha ritenuto che questo “rimedio”:
1°)
violava il principio di legalità sancito dagli artt. 97 e 101 della Costituzione;
2°)
proveniva da un soggetto (il presidente del Tribunale) che non
aveva alcuna potestà di disapplicare la circolare ministeriale fascista che, peraltro,
lui stesso aveva dichiarato ancora vigente e inderogabile;
3°)
violava gli articoli 9, 1, 13, 17, 18, 35, 53 e 58 della
Conv. per la salv. dei dir. dell’uomo;
4°)
violava il diritto di libertà religiosa del magistrato;
5°)
violava il diritto all’eguaglianza e non discriminazione
religiosa del magistrato;
6°)
non risolveva affatto il rispetto del principio supremo di
laicità e, pertanto, violava il diritto di libertà di coscienza del magistrato;
7°)
infine, era assolutamente inidoneo allo scopo, perché le
udienze collegiali e quelle penali dovevano comunque essere tenute nelle aule
ufficiali, che erano rimaste addobbate coi crocifissi.
Queste
le argomentazioni che si adducono per ciascuno di questi 7 punti.
1°)
PRIMO MOTIVO: Il
“rimedio” dell’aula-ghetto attuato dal Presidente del Tribunale violava il principio
di legalità sancito dagli artt. 97 e 101 della Costituzione: del tutto
giustificato fu dunque il rifiuto del Tosti di accettare una proposta illegale.
Argomentazioni
a sostegno
L ‘OBBLIGO” di esporre i crocifissi nella aule giudiziarie è imposto
da una circolare di portata GENERALE
del ministro fascista, che gli attuali Ministri di Giustizia repubblicani hanno
ritenuto ancora vigente ed obbligatoria, così come peraltro l’ha ritenuta
vigente ed obbligatoria il Presidente del Tribunale di Rimini che si è rifiutato di aderire alla richiesta
del Tosti di rimuoverli. Dal momento che gli articoli 97 e 101 della
Costituzione sanciscono il principio
di legalità, in virtù del quale “la
legge è eguale per tutti” e va applicata nei confronti di tutti, senza deroghe o privilegi, è
assolutamente illecito che il Presidente del Tribunale, pur essendo carente di
qualsiasi potestà, abbia deliberatamente violato la circolare in questione, allestendo
una singola aula senza crocifisso allo scopo deviato -e degno di una repubblica
delle banane- di eludere la richiesta del Tosti di rimuovere i crocifissi da
tutte le aule.
Questo
comportamento è sintomo di arroganza del Potere intollerabile: non è infatti ammissibile
che il Presidente del Tribunale abbia dapprima affermato che la richiesta di
rimozione dei crocifissi del Tosti non poteva essere accolta “perché la circolare era ancora vigente”
-e che tale sia stata considerata dal Ministro- e che poi l’abbia disapplicata
per una “sola” aula, allo scopo di eludere in modo contraddittorio e capzioso
la richiesta di rimozione generalizzata. La Costituzione italiana sancisce infatti
il principio della “legalità”, in virtù del quale gli atti normativi GENERALI si applicano ai tutti i
cittadini senza distinzione alcuna di razza, sesso, religione, condizioni
sociali etc.: non è dunque consentito che coloro che sono tenuti ad applicare
e/o a garantire l’applicazione degli atti GENERALI possano effettuare “eccezioni”
o “deroghe” -di favore o di sfavore- per casi singoli.
E’ ancor più intollerabile
che la disapplicazione ad personam della circolare sia stata effettuata da
un magistrato della Repubblica italiana -con la compiacente e connivente
inerzia del Ministro di Giustizia- allo scopo deviato di eludere problematiche
che, semmai, dovevano essere risolte in via generale, come era ed è imposto dalla portata GENERALE del provvedimento
amministrativo. Questa arroganza del Potere poteva essere giustificata nella
Roma papalina dell’800 -dove il Marchese Onofrio del Grillo dipinto da Mario
Monicelli poteva permettersi di sbeffeggiare le vittime degli abusi del potere
con la battuta “io so io e voi non siete un cazzo”- ma non può esserlo
nell’attuale Repubblica, che è fondata sui principi di legalità e di eguaglianza
dei cittadini di fronte alla LEGGE. Pertanto, delle
due l'una: o il Crocifisso era da ritenere legittimo -ma in questo caso non
era legittimo fare un'aula apposta per Tosti senza crocifisso- oppure era
da ritenere illegittimo, ma in questo caso doveva essere rimosso da tutti i
tribunali, e non da una sola aula del Tribunale di Camerino.
C’è
anche da soggiungere che il Ministro ha disposto un’ispezione a carico del
Tosti perché questi aveva “osato” rimuovere un crocifisso, sicché è inaccettabile
che il Presidente del Tribunale abbia potutto “tranquillamente” rimuovere un
crocifisso senza incappare nelle stesse ispezioni disciplinari da parte del
Ministro di giustizia: se un comportamento è illecito -o comunque non è consentito-
la sua repressione deve essere UGUALE per tutti, e non legata al particolare “spessore”
del soggetto che lo pone in essere. Non dovrebbero esistere i magistrati di
serie A, come il dr. Aldo Alocchi, e i magistrati di serie B, come il dr.
Tosti.
Va anche soggiunto che l'inderogabilità
dell'esposizione del crocifisso in tutte le aule è stata ulteriormente
proclamata dall'Avvocatura di Stato nel giudizio che il Tosti ha promosso dinanzi
al TAR delle Marche per chiederne la rimozione.
In ogni caso, è risolutiva la
circostanza che la Cassazione penale, Sez. III, si sia pronunciata specificamente
su questa questione con l'ordinanza n. 41.571, pubblicata il 18.11.2005, con la
quale ha dichiarato inammissibile l’istanza di rimessione per legittima
suspicione sollevata da tale Adel Smith per la presenza dei crocifissi
nelle aule giudiziarie del tribunale di Verona, dove stava subendo un processo
penale per “vilipendio della religione cattolica”.
Con questa ordinanza, la Cassazione
ha affermato che “è notorio... che la esposizione del crocefisso
nelle aule giudiziarie non è limitata al Tribunale di Verona, e neppure
agli uffici giudiziari di quella città, ma si estende agli uffici di tutto
il territorio nazionale; in piena conformità, del resto, al
contenuto della menzionata fonte ministeriale, che indirizzava l'obbligo di
esporre il crocefisso a tutti i capi degli uffici giudiziari nazionali”.
Da questo presupposto la Corte ha giustamente dedotto che “non spetta al
giudice, e tanto meno al giudice di
legittimità competente ex artt. 46, comma 3, e 48 c.p.p. il compito di
disapplicare una circolare amministrativa che attiene a una materia qual è
quella della manutenzione degli uffici giudiziari e dei loro arredi,
assolutamente estranea alle attribuzioni giurisdizionali della magistratura”.
Pertanto l’appellante si chiede -e
chiede alla Corte- quali siano i “motivi” per i quali queste espresse pronunce
della Cassazione siano state disattese e disapplicate per il suo caso. L’appellante
si chiede, in particolare, quali siano le giustificazioni giuridiche dell’“aula-ghetto”
che è stata allestita dal Presidente del Tribunale di Rimini “senza
crocifisso” -con la compiacente connivenza del Ministro di Giustizia- in aperta violazione della circolare
che il Presidente del Tribunale ed il Ministro hanno “ritenuto tutt’ora in
vigore”. Per caso si tratta -ci si chiede- delle stesse “giustificazioni”
addotte dal Marchese Onofrio del Grillo, cioè del “principio giuridico” del “Noi
siamo noi e tu non conti un cazzo”?
2°)
SECONDO MOTIVO: Il Presidente del Tribunale e il Presidente
della Corte d’appello erano in ogni caso privi della potestà o della legittimazione
di disapplicare la circolare, anche per una sola aula.
Argomentazioni
a sostegno
Come
sopra esposto, la Corte di Cassazione ha sancito nell’ordinanza sopra menzionata
che “non spetta al giudice... il
compito di disapplicare una circolare amministrativa che attiene a una materia
qual’ è quella della manutenzione degli uffici giudiziari e dei loro arredi,
assolutamente estranea alle attribuzioni giurisdizionali della magistratura”.
In effetti, dal momento che la circolare è stata emessa dal Ministro fascista e
non risulta che essa contempli e attribuisca ai magistrati una qualche potestà
di deroga o di disapplicazione ad
personam, si deve negare che il dr. Alocchi potesse derogare
all’applicazione della circolare, seppur per una singola aula. Una siffatta
deroga non poteva essere posta in essere neppure dal Ministro di Giustizia, dal
momento che i principi costituzionali di legalità, di eguaglianza e di buona e
imparziale amministrazione debbono ritenersi vigenti e validi “anche” per i
ministri.
3°)
TERZO MOTIVO: Il rimedio dell’aula-ghetto violava gli
articoli 9, 1, 13, 17, 18, 35, 53 e 58 della CEDU.
Argomentazioni
a sostegno
L’art. 1 della Convenzione sancisce a carico
degli Stati contraenti l’ “obligation de respecter les droits de l'homme”,
riconoscendo a “à toute personne relevant
de leur juridiction les droits et libertés définis au titre I de la présente
Convention”.
L’articolo 13 della Convenzione attribuisce le “droit à un recours
effectif” a “toute personne dont les
droits et libertés reconnus dans la présente Convention ont été violés.......
alors même que la violation aurait été commise par des personnes agissant dans
l'exercice de leurs fonctions officielles”.
L’art. 6
sancisce che “toute personne a droit à ce
que sa cause soit entendue équitablement, publiquement et dans un délai
raisonnable, par un tribunal indépendant et impartial, établi par la loi, qui
décidera, soit des contestations sur ses droits et obligations de caractère
civil.....”.
L’articolo 17 della Convenzione vieta agli Stati l’“interdiction de
l'abus de droit”, e cioè dispone che “aucune
des dispositions de la présente Convention ne peut être interprétée comme
impliquant pour un Etat, un groupement ou un individu, un droit quelconque de
se livrer à une activité ou d'accomplir un acte visant à la destruction des
droits ou libertés reconnus dans la présente Convention ou à des limitations
plus amples de ces droits et libertés que celles prévues à ladite Convention.”
Analogamente, l’articolo 18 (Limitation de l'usage des restrictions
aux droits) dispone che “les
restrictions qui, aux termes de la présente Convention, sont apportées auxdits
droits et libertés ne peuvent être appliquées que dans le but pour lequel elles
ont été prévues.”
L’articolo 35 della Convenzione stabilisce che “la Cour ne peut être saisie qu'après l'épuisement des voies de recours
internes.......”
L’articolo 53 della Convenzione sancisce che “aucune des dispositions de la présente convention ne sera interprétée
comme limitant ou portant atteinte aux droits de l'homme et aux libertés fondamentales
qui pourraient être reconnus conformément aux lois de toute Partie contractante
ou à toute autre Convention à laquelle cette Partie contractante est partie.”
Infine, l’art.
58, par. 1°, della Convenzione dispone che “Tout
Etat peut, au moment de la ratification ou à tout autre moment par la suite,
déclarer, par notification adressée au Secrétaire général du Conseil de
l'Europe, que la présente Convention s'appliquera, sous réserve du paragraphe 4
du présent article, à tous les territoires ou à l'un quelconque des territoires
dont il assure les relations internationales.”
Dal tenore delle surrichiamate disposizioni si evince che
gli Stati contraenti sono obbligati a rispettare i diritti e le libertà
fondamentali degli individui su tutto
il territorio nazionale – e non su porzioni limitate di esso– e che
qualsiasi persona, i cui diritti e libertà siano stati violati, ha il diritto
di presentare un ricorso ad una autorità interna e a un tribunale per ottenere
una tutela “effettiva”, cioè una
tutela che non sia parziale e limitata nello spazio o nel tempo.
Dal
tenore di tali norme si evince, altresì, che gli Stati contraenti hanno
l’obbligo di garantire il rispetto dei diritti umani in modo pieno e che,
dunque, non possono imporre limitazioni o restrizioni superiori a quelle
previste dalla Convenzione.
Alla luce di questa normativa Convenzionale il “rimedio”
dell’aula-ghetto si profila del tutto illegittimo perché, a fronte della
conclamata lesione dei diritti inviolabili del Tosti -indotta dalla presenza
generalizzata dei crocifissi in tutte le aule- né il Ministro di Giustizia né,
tantomeno, il Presidente del Tribunale, potevano optare per il “rimedio” “alternativo”
di confinare il dr. Tosti in una singola aula, senza crocifisso, obbligandolo
ad espletarvi le mansioni lavorative, in regime di sostanziale aphartheid, sino al pensionamento. In
realtà le norme sopra citate imponevano di garantire al dipendente il rispetto
dei suoi diritti umani in tutte le aule dell’ufficio di appartenenza e in tutte
le aule degli altri uffici giudiziari, sicché doveva semmai essere ripristinata
la situazione di legalità rimuovendo i crocifissi da tutte le aule, e non....
rimuovendo la “vittima” -cioè il magistrato- per confinarlo e “ghettizzarlo” in
una singola aula, quasi si trattasse di un appestato!
Sostenere che uno Stato, in caso di conclamata violazione
di diritti umani, possa accordare alla vittima una tutela limitata nello spazio -lasciando cioè permanere la lesione dei suoi
diritti inviolabili in tutti gli altri “spazi” del territorio nazionale cui
egli ha legittimo diritto di accesso e di frequentazione- significa
legittimare, innanzitutto, la violazione dell’art. 1 della Convenzione, che
impone agli Stati l’obbligo di rispettare i diritti umani sull’intero territorio nazionale; ma significa anche
accordare alle “vittime” una tutela assolutamente parziale e inidonea, violando
così gli articoli 6, 13, 17, 18, 35, 53, che impongono agli Stati di accordare
una tutela effettiva dei diritti e di non sottoporli a restrizioni maggiori di
quelle consentite dalla Convenzione.
Se si opinasse diversamente, si perverrebbe a conseguenze
grottesche.
Ad esempio, se nelle aule giudiziarie fosse imposta l’affissione
di targhe contenenti gli epiteti ingiuriosi e razzisti formulati dalla Chiesa
Cattolica contro gli ebrei -e cioè che “Gli
ebrei sono una razza dannata, deicidi, usurai e ruffiani”- si potrebbe
forse ipotizzare che sia “lecito” il “rimedio” di confinare e ghettizzare i giudici
ebrei in aule prive delle targhe ingiuriose, piuttosto che rimuoverle da tutte
le aule per garantire, come imposto dalla Convenzione e dalla Costituzione, il
rispetto pieno dei loro diritti? Ovviamente no, perché questo sconcio “rimedio”
lascerebbe persistere la lesione dei diritti in tutte le altre aule giudiziarie,
alle quali i giudici ebrei -al pari dei colleghi della superiore razza “cattolica”-
avrebbero legittimo diritto di accesso e di frequentazione.
Le stesse identiche considerazioni debbono dunque valere
per il dr. Tosti che, al pari di qualsiasi altro dipendente
dell’Amministrazione giudiziaria, aveva il sacrosanto diritto di frequentare e di
usare tutte le aule del Tribunale di Camerino e, all’occorrenza, qualsiasi
altra aula degli altri uffici giudiziari regionali e nazionali, al fine di
adempiere le proprie mansioni lavorative e di esercitare le proprie funzioni
giurisdizionali nel pieno rispetto dei suoi diritti inviolabili.
4°)
QUARTO MOTIVO: Il rimedio dell’aula-ghetto violava il
diritto di libertà religiosa del magistrato: il rifiuto di accettarlo è dunque
giustificato.
Argomentazioni a
sostegno
L’appellante ribadisce che l’imposizione di tenere le
udienze in un’unica aula, allestita appositamente per la sua persona e a causa
delle sue convinzioni religiose e di coscienza “dissidenti” -nella quale era
assente il crocifisso ma gli si vietava l’esposizione della menorà- violava il
suo diritto di libertà religiosa sia sotto il profilo negativo che sotto quello
positivo. Da un lato, infatti, l’obbligo di tenere le udienze in un’aula “speciale”,
allestita per la sua persona a causa del suo credo “dissidente”, rendeva
manifesti e pubblici i suoi convincimenti religiosi non cattolici; dall’altro,
poi, il divieto di esporre la menorà ledeva il suo diritto di libertà religiosa
positivo, perché gli veniva ingiustificatamente negato il pari diritto di
esercitare le funzioni giurisdizionali sotto la tutela religiosa del proprio simbolo,
diritto che veniva invece accordato ai cattolici con l’esposizione
generalizzata dei crocifissi in tutte le altre aule. Del tutto giustificato,
dunque, fu il rifiuto del Tosti di tenere le udienze in un’ aula senza il
crocifisso -o addirittura nel suo ufficio- perché il rifiuto fu necessitato
dall’esigenza di autotutelare il diritto inviolabile di libertà religiosa negativa
e positiva.
Secondo la costante giurisprudenza
della CEDH, infatti, la libertà di religione, consacrata dall’articolo 9 della
Convenzione, “comporta anche un
aspetto negativo, ossia il
diritto dell’individuo di non essere costretto a manifestare la propria
religione o le proprie convinzioni religiose e di non essere obbligato ad agire
in un modo tale che si possa trarre la conclusione che esso ha – o non ha– tali convincimenti...... le autorità
statali non hanno il diritto di intervenire nel dominio della libertà di
coscienza dell'individuo e ricercare le sue convinzioni religiose, oppure
di obbligarlo a manifestare le sue convinzioni circa la divinità. Ciò è ancor
più vero nel caso in cui una persona è obbligata ad agire in questo modo al
fine di svolgere certe funzioni, in particolare durante un giuramento
(CEDU, Grande camera, 21 febbraio 2008, ric. 19516/06, Alexandridis c. Grecia;
CEDU, sent. 3.6.2010, Dimitras et autres c. Grèce; CEDU, Kokkinakis c. Grecia,
sentenza del 25 maggio 1993, serie A n. 260– A p. 17, § 31; Buscarini e altri
c. San Marino [GC], n. 24645/94, § 34, CEDU 1999– I).
Nel caso di specie, confinare un giudice in un’aula “speciale” senza crocifisso (peraltro di un piccolo
tribunale) allo scopo di “soddisfare” surrettiziamente il suo diritto di non
essere costretto a subire l’imposizione di un simbolo che, invece, seguitava a
rimanere esposto in tutte le altre aule, significava costringerlo a palesare
e manifestare, coram populo, di non
essere cristiano, obbligarlo cioè a manifestare i suoi convincimenti
religiosi al fine di sottrarlo ad una imposizione di carattere religioso:
né più né meno di quanto accade a chi è costretto a rifiutarsi di giurare sul
vangelo o in nome di un qualche dio (in entrambe queste fattispecie la CEDH ha
dichiarato sussistente la violazione del diritto di libertà religisa sotto il
profilo negativo).
L’appellante sostiene che il Presidente del Tribunale,
allestendo un’aula “speciale” “senza crocifisso”, allo scopo di porre rimedio
ai suoi convincimenti religiosi “dissidenti”, ha creato una manifesta
“anomalia” nell’allestimento delle aule e nella conduzione delle udienze,
perché in tutte le altre aule del tribunale di Camerino e in tutte le aule
degli altri uffici giudiziari italiani le udienze venivano invece tenute dagli
altri magistrati nelle aule “ufficiali”, addobbate col crocifisso. Questa
evidente anomalia faceva sì che venissero permanentemente pubblicizzati i
convincimenti religiosi del giudice Tosti, che era costretto a tenervi le
udienze “perché religiosamente dissidente”, stigmatizzandolo agli occhi degli
astanti (cancellieri, avvocati, colleghi, personale ausiliario e pubblico) come
“il
giudice anticrocifisso”: un nomignolo dispregiativo che, non a caso, gli
è stato appioppato in modo oramai indelebile.
Questa restrizione del diritto “negativo”
di libertà religiosa non era minimamente elisa o attenuata dall’éscamotage di accordare anche ai
colleghi del Tosti la facoltà di utilizzare quell’aula “speciale”, perché a
nessuno degli astanti poteva sfuggire che, mentre i colleghi del Tosti tenevano
abitualmente le udienze in tutte le aule del Tribunale -oltre che nell’aula
“neutra” dedicata al Tosti- costui era invece costretto, a causa dei suoi
convincimenti religiosi “dissidenti”, a tenerle esclusivamente nell’aula
“ghetto” che, peraltro, era stata allestita senza crocifisso per la sua
persona, e non per i suoi colleghi. L’anomalia era ancor più
marcata per l’ingiunzione di tenere le udienze nel suo personale ufficio,
perché a nessuno sarebbe sfuggito che SOLO il Tosti teneva le udienze nel suo
ufficio per motivi di dissidenza religiosa, mentre gli altri colleghi
utilizzavano le aule ufficialmente deputate alla trattazione delle udienze e, per
converso, giammai avrebbero potuto utilizzare l’ufficio personale del Tosti.
Queste anomalie si
sarebbero verificate anche se l’Amministrazione avesse optato per “rimedi” alternativi
all’aula ghetto, quali ad esempio quello di coprire i crocifissi con teli o di
rimuoverli temporaneamente dalle pareti ogni qual volta l’udienza doveva essere
tenuta dal Tosti, oppure di bendare gli occhi del giudice Tosti ogni qual volta
questi teneva udienza sotto l’incombenza del crocifisso: anche in questi casi,
infatti, i “rimedi” posti in essere dall’Amministrazione al fine di “occultare”
la visione del crocifisso avrebbero reso palesi e pubblici i convincimenti
religiosi “dissidenti” del Tosti, ledendo il suo diritto negativo di libertà
religiosa. Se poi si fosse optato per il rimedio estremo di “accecare” il dr.
Tosti per impedirgli di “vedere” qualsiasi crocifisso, si sarebbe realizzata anche
la lesione di altri diritti inviolabili.
Riepilogando, il rifiuto del Tosti
di tenere le udienze nell’aula-ghetto fu legittimo, perché giustificato
dall’esigenza di tutelare il suo diritto di libertà religiosa sotto il profilo
negativo.
Ma non è tutto. Dal momento, infatti,
che al Tosti fu vietato di esporre la menorà nella sua “aula-ghetto”, è
altrettanto innegabile che questo divieto ingiustificato lese il suo diritto di
libertà religiosa anche sotto il profilo positivo: in tutte le altre aule,
infatti, si consentiva ai giudici cattolici di lavorare e di esercitare le
funzioni giurisdizionali sotto la tutela simbolica del “loro” crocifisso,
mentre eguale diritto veniva ingiustificatamente negato al Tosti nella sua aula-ghetto.
5°)
QUINTO MOTIVO: Il “rimedio” dell’aula-ghetto violava il
diritto all’eguaglianza e non discriminazione religiosa del magistrato, sicché il
rifiuto di accettarla fu giustificato.
Argomentazioni a
sostegno
L’appellante ribadisce che l’ingiunzione di tenere le
udienze in un’aula speciale, dedicata alla sua persona “senza crocifisso” per
motivi di dissidenza religiosa, integrava una palese discriminazione religiosa,
vietata dalla Costituzione, vietata da norme di legge specifiche e vietata,
infine, dagli art. 14 e 9 della CEDU.
E’ noto che l’organizzazione dell’Amministrazione giudiziaria
italiana prevede che i giudici trattino le cause in aule di udienza che si
contraddistinguono tra di loro solo in relazione alla destinazione oggettiva
d’uso, cioè al tipo di controversie che in esse vengono trattate. Ad esempio,
vi sono aule destinate alla trattazione di cause penali (che sono di regola
attrezzate con apparecchiature per la stenotipia e la registrazione), aule
destinate alla trattazione delle cause civili collegiali, aule destinate alle
udienze civili istruttorie, aule destinate alle cause di lavoro e via dicendo.
Di norma, sia in base all’organizzazione
degli uffici che in base alle norme processuali che disciplinano lo svolgimento
dei processi, tutti i giudici (come peraltro tutto il personale
dipendente) hanno libero accesso a tutte le aule nelle quali sono
chiamati ad espletare le loro mansioni: non esiste, per contro, alcuna norma o
alcuna prassi che “riservi” l’uso di una o più aule a giudici di una
particolare religione, razza, sesso, etnia od altro. Al più esistono cessi
destinati agli uomini e cessi destinati alle donne.
Nel caso di specie il Presidente del
Tribunale, anziché ripristinare la legalità, rimuovendo i crocifissi da tutte
le aule, ha preteso di obbligare il Tosti a tenere le udienze in un’aula
speciale, senza crocifisso, escludendolo
dunque dal diritto di usare e frequentare tutte le altre aule del tribunale di
Camerino e degli altri uffici giudiziari.
L’appellante si è rifiutato di accettare
questa imposizione perché l’ha ritenuta “ghettizzante”, cioè lesiva del suo
diritto di non discriminazione religiosa: questo sconcio “rimedio”, infatti, finiva
per confinarlo in un’unica aula, escludendolo
dall’uso e dalla frequentazione delle altre 50.000 aule circa che, invece,
restavano nella piena disponibilità ed uso dei colleghi cattolici.
Questa palese disparità di trattamento, fondata sul
diverso credo del Tosti, integrava un intollerabile tentativo di “ghettizzazione”:
creare infatti –per motivi legati ai differenti convincimenti religiosi dei
dipendenti– “divisioni”, “ghetti” e “riserve” all’interno di un’Amministrazione
statale, è una condotta criminale e incompatibile con le norme costituzionali e
convenzionali che vietano discriminazioni nel godimento di diritti
fondamentali.
L’appellante ribadisce che costringere un singolo
magistrato ad espletare le sue mansioni in una sola aula dell’ufficio
giudiziario nel quale svolge le sue funzioni –escludendolo dalla frequentazione e dall’uso di tutte le
altre aule – integra una limitazione del diritto di
circolare liberamente all’interno dell’ufficio e di frequentare ed utilizzare,
altrettanto liberamente, tutte le “altre” aule. Dal momento che questa grave limitazione
è stata disposta per motivazioni religiose -e cioè perché i convincimenti del
Tosti sono “dissidenti” rispetto a quelli “cattolici” espressi dai crocifissi-
è ineluttabile che si sia perpetrata una discriminazione nel godimento del suo
diritto di libertà religiosa o, in subordine, in quello di libertà di
circolazione, garantito dall’art. 4 della CEDU e dall’art. 2 del protocollo n.
4. Del tutto legittimamente, dunque, il Tosti si rifiutò di accettare questa
sconcia ed offensiva proposta.
Assolutamente
priva di rilievo è la circostanza che il Presidente del Tribunale abbia
disposto che “l'aula attrezzata senza
crocifisso” fosse “messa a
disposizione anche di quanti volessero utilizzarla”. Questa “motivazione” è
sconcertante, perché la discriminazione non poteva essere elisa dall’éscamotage furbesco di consentire l’uso
dell’aula speciale “anche” ai colleghi del Tosti di “superiore razza cattolica”:
la disparità di trattamento scaturiva, infatti, sia dalla circostanza che i
colleghi dell’appellante potevano utilizzare liberamente tutte le aule
giudiziarie – mentre al dr. Tosti ne veniva precluso l’uso a causa della
permanenza del crocifisso– sia dalla circostanza che al ricorrente veniva
comunque vietato di esporre la menorà nella sua aula-ghetto, mentre il
crocifisso veniva esposto in tutte le altre aule.
Se
si condividesse malauguratamente questa sconcia motivazione, sarebbe ancor oggi
lecito ripristinare i criminali ghetti nei quali furono confinati dalla Chiesa
Cattolica Apostolica Romana, sin dal 1555, gli ebrei: sarebbe infatti
sufficiente -per escludere le connotazioni discriminatorie- che gli attuali
Governanti della Repubblica Pontificia Italiana abbiano l’accortezza di sancire
che nei novelli ghetti possano fissare la dimora o la residenza, se lo
vogliono, anche i soggetti appartenenti alla superiore razza ariano-cattolica! Il
che ci sembra francamente azzardato.
Si rimarca, infine, che la sconcia “proposta” di tenere
le udienze in un’aula senza crocifisso lasciava comunque persistere la violazione
del divieto di discriminazione religioso sotto il profilo positivo: mentre,
infatti, ai dipendenti cattolici seguitava a venir accordato il diritto di
vedere esposti i crocifissi nelle altre aule e, dunque, di manifestare
pubblicamente la loro fede e di connotare di confessionalità cattolica
l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, all’appellante veniva negato lo
stesso diritto di esporre la menorà ebraica nelle altre aule -o quanto meno
nella “sua” aula speciale- cioè di manifestare la propria fede e di connotare
l’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali di confessionalità ebraica.
Si rimarca che secondo il diritto interno e secondo la
costante giurisprudenza della CEDH la discriminazione, vietata dall’art. 14, si
realizza nel momento in cui un diritto fondamentale, garantito dalla
Convenzione, viene riconosciuto ad alcuni e viene invece negato –senza che
sussista alcun motivo che giustifichi la disparità di trattamento– ad altri che
si trova nelle stesse condizioni soggettive ed oggettive. Il che ricorre,
all’evidenza, nel caso di specie, non avendo alcun rilievo la circostanza che i
crocifissi vengano esposti nelle aule giudiziarie a spese dei Comuni, e non a
spese dei cattolici: questa circostanza, infatti, non elide la discriminazione
ma, semmai, l’aggrava.
Nel caso di specie è indubbio che la discriminazione nel
godimento del diritto di libertà religiosa si fonda sui convincimenti religiosi
“dissidenti” del dipendente Luigi Tosti: essa integra pertanto una violazione
degli articoli 9 e 14 della Convenzione, perché non esiste alcun valido motivo
che giustifichi una siffatta disparità di trattamento nel godimento del diritto
di libertà religiosa.
D’altro canto, dal momento che il Ministro di Giustizia ha sostenuto -anche dinanzi al TAR delle
Marche- che “l’ostensione del crocifisso
cattolico nelle pubbliche aule di giustizia è un atto di manifestazione di fede
che deve essere tollerato dai non credenti e da chi professa
altra religione, perché il crocifisso è un simbolo “passivo” che non obbliga
nessuno a credere o a compiere atti di culto”, anche l’ostensione della
menorà ebraica doveva essere autorizzata per gli stessi motivi, e cioè perché si
trattava di un “atto di manifestazione di
fede” che doveva essere tollerato dai non credenti e da “cattolici”: anche
la menorah, infatti, è un “simbolo
passivo che non obbliga i cattolici a credere ad un’altra ideologia religiosa
né a compiere atti di culto”.
Lo svolgimento dei fatti dimostra
che la Chiesa Cattolica e i cattolici italiani hanno un concetto assai strano
della “tolleranza”: non tengono infatti conto che la tolleranza implica il rispetto
reciproco tra le fedi diverse, e non il rispetto “a senso unico” nei
confronti della sola loro fede!
6°)
SESTO MOTIVO: Il rimedio dell’aula-ghetto non risolveva
affatto il rispetto del principio supremo di laicità e violava pertanto il
diritto di libertà di coscienza del magistrato.
Argomentazioni a
sostegno
L’appellante ribadisce che la rimozione del crocifisso da
una sola aula non garantiva affatto il rispetto del principio di laicità e,
quindi, il rispetto del suo diritto di libertà di coscienza legato all’osservanza
di quel supremo principio: infatti, come sentenziato dalla Cassazione penale
nell’arresto n. 4273/2000, relativo ai crocifissi nei seggi elettorali, “ogni violazione del principio di
laicità.....in qualsivoglia seggio .... non può non essere avvertita da una
coscienza informata a quel principio come violazione di quel bene nella sua
interezza, indipendentemente dal luogo in cui si verifichi, cosicché non è
possibile attribuire rilevanza al fatto che casualmente la violazione non si
verifichi nel seggio di destinazione”.
7°)
SETTIMO MOTIVO: Il rimedio dell’aula-ghetto era
assolutamente inidoneo allo scopo prefisso, perché le udienze collegiali e quelle
penali dovevano comunque essere tenute dal Tosti nelle aule ufficiali, che sono
rimaste addobbate coi crocifissi.
Argomentazioni a
sostegno
Come sempre eccepito dal Tosti, non è affatto vero che
l’aula senza crocifisso gli consentisse di celebrarvi tutte le udienze di cui
era onerato. Come risulta dalla stessa nota del Presidente della Corte di
Appello di Ancona, quella singola aula avrebbe potuto consentirgli al più di
celebrarvi solo le “udienze civili e di
lavoro”, ma non le udienze collegiali civili e tutte le udienze penali che
-come GIP titolare, come GUP e come giudice monocratico e collegiale supplente-
avrebbe dovuto necessariamente celebrare, per motivi procedurali e tecnici,
nelle aule fornite di attrezzature per la registrazione e la stenotipia. Di
più: il magistrato Luigi Tosti era permanentemente coassegnato presso il Tribunale di Macerata e veniva applicato, periodicamente, presso il
Tribunale del riesame di Ancona e, infine, poteva essere applicato presso
qualsiasi altra sede giudiziaria italiana oppure esservi trasferito, d’ufficio
o su sua domanda. Dunque, il rimedio dell’aula speciale si profilava del tutto
inidoneo a garantirgli il rispetto del suo diritto di libertà religiosa, perché
sarebbe stato costretto ad opporre altrettanti rifiuti e a manifestare, ogni
volta, i propri convincimenti religiosi, con la prospettiva di essere
“confinato” in altrettante oltraggiose “aule ghetto”, allestite in fretta e
furia per il “giudice anticrocifisso”.
Alla luce di queste circostanze di fatto, dunque, non si
può giustificare la condanna penale che è stata inflitta al Tosti per le
udienze penali e per quelle collegiali civili che egli non avrebbe potuto
tenere nell’aula-ghetto e che, al contrario, avrebbe dovuto tenere in quelle
“ufficiali” munite di crocifisso.
Ø
QUINTO PUNTO: L’imputato
Tosti Luigi solleva, in via preliminare, una questione relativa al rispetto dei
suoi diritti inviolabili durante la celebrazione del presente grado di appello
davanti ai Giudici della Corte di L’Aquila, essendo ovviamente impensabile che
egli accetti di subire la lesione dei suoi diritti di libertà di religione, di
eguaglianza e non discriminazione e di rispetto dell’equo processo e del
principio di laicità, cioè di essere giudicato da Giudici che non appaiono affatto
imparziali a causa dell’imposizione generalizzata dei crocifissi: tanto più in
un processo che lo vede imputato proprio per essersi rifiutato di subire la
lesione degli stessi diritti e di ledere i principi supremi di laicità e di
imparzialità e neutralità delle funzioni giurisdizionali a suo tempo espletate.
Pertanto,
l’appellante preannuncia ai Giudici della Corte che, non avendo provveduto a
tutt’oggi il Ministro di Giustizia a rimuovere i crocifissi dalle aule giudiziarie
italiane e non avendo neppure accolto la sua richiesta subordinata di esporre le
menorà ebraiche a fianco dei crocifissi, egli sarà costretto (sempre che alla
data del 5 luglio 2012 i crocifissi non siano stati rimossi o non siano state
esposte le menorah ebraiche al loro fianco) a non presenziare all’udienza
dibattimentale del 5 luglio 2012 -o comunque ad allontanarsi immediatamente dall’aula
in caso di rigetto di questa istanza- nonché a revocare la nomina dei difensori
di fiducia: e questo per l’indefettibile necessità di tutelare e di preservare,
durante lo svolgimento del processo di appello, i propri diritti inviolabili di
libertà religiosa, di coscienza, di eguaglianza e non discriminazione religiosa,
nonché di equo processo da parte dei giudici aquilani, i quali non solo debbono
essere -ma anche apparire- neutrali, imparziali e rispettosi del principio
supremo di laicità.
La
pretesa di rispetto dei propri diritti inviolabili è il “minimo” che ci si
possa attendere dall’imputato Luigi Tosti, se non altro in considerazione dell’esito
grottesco del procedimento disciplinare che ne ha determinato la rimozione. Il
dr. Tosti è stato infatti defenestrato dalla magistratura perché il Consiglio
Superiore della Magistratura e le SS.UU. hanno ritenuto che -a fronte della conclamata
lesione dei suoi diritti fondamentali di libertà religiosa e di coscienza,
indotta dall’imposizione dei crocifissi- egli dovesse accettare di essere
confinato in un’aula ghetto, senza crocifisso, in regime di sostanziale
“apartheid” e sino al pensionamento. La Sezione disciplinare ha addirittura
scelto la sanzione massima della “rimozione” per finalità di “prevenzione
speciale”, e cioè per evitare che il dr. Tosti, una volta riassunto in
servizio, potesse “pretendere” dal Ministro di Giustizia il rispetto dei suoi
diritti inviolabili, e cioè che venissero rimossi i crocifissi che, a giudizio
dello stesso CSM, ledevano il principio supremo di laicità e i suoi diritti
inviolabili!! [1]
L’epilogo
grottesco è che il Tosti è stato eliminato dalla magistratura mentre i crocifissi
-di cui è stata riconosciuta da parte della Cassazione e del CSM l’assoluta
incompatibilità col principio di laicità e col rispetto dei diritti di libertà
religiosa e di coscienza di tutti dipendenti- seguitano ad essere
tranquillamente esposti nelle aule giudiziarie italiane.
Alla
luce di ciò nessuno può pensare o “sperare” che il dr. Luigi Tosti -nella sua
nuova “veste” di imputato- sia così imbelle o così imbecille da accettare di subire
remissivamente la lesione dei suoi diritti inviolabili e di essere processato
da giudici partigiani che seguitano ad essere inseriti in un’Amministrazione
giudiziaria smaccatamente connotata di cristinità cattolica. E nessuno può
pensare o sperare che l’imputato Luigi Tosti rinunci a presenziare alle udienze
con i “suoi” simboli -nella specie una croce uncinata- che sono altrettanto
“passivi” come il crocifisso.
In
ogni caso, queste sono le motivazioni della richiesta di rimozione dei
crocifissi.
A. LA NORMAZIONE INTERNA.
(1)
La Costituzione
italiana garantisce ad ogni individuo la libertà di religione nell’art.19,
disponendo che “tutti hanno diritto di
professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma,
individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in
pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.
(2)
La libertà di
religione tutela anche i convincimenti dell’ateo e dell’agnostico, secondo
quanto ha affermato la Corte costituzionale nelle sentenze n. 117 del 1979 e
334 del 1996.
In particolare, nella sentenza n. 334 del
1996, la Corte costituzionale ha ricordato che “gli
articoli 2, 3 e 19 della Costituzione garantiscono come diritto la libertà di
coscienza in relazione all'esperienza religiosa. Tale diritto, sotto il profilo
giuridico– costituzionale, rappresenta un aspetto della dignità della persona
umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall'art. 2. Esso spetta
ugualmente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei o
agnostici”.
(3)
L’art. 3 della
Costituzione italiana garantisce l’eguaglianza dei cittadini senza distinzione
di religione. La disposizione, infatti, stabilisce che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla
legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
(4)
La Costituzione,
pur prendendo in esame separatamente, nell’art. 7, la posizione della Chiesa
cattolica stabilisce, all’art. 8, primo comma, che “tutte le confessioni
religiose sono egualmente libere davanti alla legge”, con una disposizione che
si riferisce anche alla confessione cattolica.
(5)
Per completare la
descrizione del quadro costituzionale va aggiunto che la Corte costituzionale
italiana ha ripetutamente affermato che dal sistema delle norme costituzionali
si ricava il principio di laicità,
il quale, come è scritto nella sentenza n. 508 del 2000, è “un principio che assurge al rango di
‘principio supremo’ (sentenze nn. 203 del 1989, 259 del 1990, 195 del 1993 e
329 del 1997), caratterizzando in senso pluralistico la forma del nostro Stato,
entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e
tradizioni diverse (sentenza n. 440 del 1995)”.
Tale principio di laicità – ha poi
specificato ancora la Corte costituzionale – “implica equidistanza e imparzialità verso tutte le confessioni”
(sentenza n. 327 del 2002; così anche sentenze nn. 508 del 2000, e 329 del
1997).
(6)
Sul piano della normazione ordinaria, l’art. 2 del decreto legislativo n.
216/2003, che ha recepito la direttiva 2000/78/CE del Consiglio dell’Unione
Europea del 27 novembre 2000, sanziona poi qualsiasi forma di “discriminazione”
da parte del datore di lavoro pubblico o privato, e cioè sia la “discriminazione
diretta” (“quando, per
religione...... una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia
stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga”) che quella “indiretta”
(“quando una disposizione, un criterio,
una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono
mettere le persone che professano una determinata religione ...... in una
situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”).
(7)
L’esposizione del
crocifisso nelle aule giudiziarie non è prevista da alcuna legge né da alcun
atto che abbia carattere di fonte del diritto. Infatti, l’ostensione del
crocifisso nelle aule di giustizia avviene in forza della circolare del
Ministro di grazia e giustizia del 29 maggio 1926, n. 2134/1867, priva di
fondamento normativo.
(8)
La circolare, a
firma del Ministro, recita quanto segue: “Prescrivo che nelle aule di
udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all'effige di Sua Maestà il Re
sia restituito il Crocefisso, secondo la nostra antica tradizione. Il simbolo
venerato sia solenne ammonimento di verità e giustizia”.
(9)
Nell’ordinamento
italiano le circolari sono istruzioni amministrative e non hanno natura di
fonte del diritto. Quanto al periodo storico in cui è stata emanata, si
evidenzia che la circolare risale all’epoca della dittatura fascista e si
colloca in un contesto ordinamentale caratterizzato, ai sensi dell’art. 1 dello
Statuto albertino del 1848, dal principio per cui la religione cattolica era la
religione dello Stato.
(10)
Le successive
circolari ministeriali, di epoca repubblicana, che si sono occupate dell’arredo
delle aule giudiziari non menzionano il crocifisso.
Infatti, la direttiva
del Ministro della giustizia Roberto Castelli del 28 novembre 2002 ha disposto
che “nelle Aule di udienza, compresa l'Aula Magna (ove esistente), di tutti gli
Uffici giudiziari, sia inserita la seguente dicitura: ‘La giustizia è amministrata in nome del popolo’”, dicitura che
dovrà essere “apposta in modo visibile
alle spalle del Giudice ed in stile uniforme agli arredi”.
La successiva circolare
del Ministro della giustizia Clemente Mastella del 7 agosto 2006 ha disposto la
rimozione della targa e la conservazione della sola dicitura “La legge è eguale
per tutti”.
B. LA GIURISPRUDENZA INTERNA IN MATERIA DI
CROCIFISSI NELLE AULE GIUDIZIARIE.
(11)
Benché il TAR per
le Marche, investito dall’appellante della questione relativa alla legittimità
dell’esibizione dei crocifissi nelle aule di giustizia, abbia rifiutato di
occuparsene per asserito difetto di giurisdizione (punto contestato
nell’appello tuttora pendente avanti al Consiglio di Stato), il problema dei
crocifissi nei tribunali è stato incidentalmente affrontato dalla
giurisprudenza ordinaria e dalle ricordate decisioni del Consiglio superiore
della magistratura.
(12)
Già nella sentenza
della Cassazione penale, sez. IV, 1° marzo 2000, n. 4273, la Suprema Corte
aveva ritenuto che la circolare del Ministro di grazia e giustizia del 29
maggio 1926, n. 2134/1867, fosse incompatibile con il principio costituzionale
di laicità quale profilo della forma di Stato delineata nella Costituzione
repubblicana ed aveva considerato giustificato il rifiuto di un pubblico
ufficiale [nella specie: di un Presidente di seggio elettorale] di svolgere
l’ufficio fino a quando non fossero stati rimossi i crocifissi dalle sezioni
elettorali. Nella decisione richiamata la Corte di cassazione sottolineava che
“l'imparzialità della funzione di
pubblico ufficiale è strettamente correlata alla neutralità (altro aspetto
della laicità, evocato sempre in materia religiosa da corte cost. 15.7.1997, n.
235) dei luoghi deputati alla formazione del processo decisionale nelle
competizioni elettorali, che non sopporta esclusivismi e condizionamenti sia
pure indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del
contenuto di fede, che ogni immagine religiosa simboleggia”. La stessa
sentenza affermava che l’esposizione del crocifisso nell’ufficio, oltre a
contrastare con il principio di laicità e con il dovere di imparzialità del
funzionario, può ledere anche la libertà di coscienza del funzionario stesso.
(13)
Nell’ordinanza del
Consiglio superiore della magistratura del 31 gennaio 2006, con la quale è
stata disposta la sospensione cautelare del dr. Tosti, il collegio, dopo aver
ricordato che la libertà di coscienza
è espressamente riconosciuta anche dall’art. 9 della CEDU e dall’art. 10 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, evidenzia, con richiamo
testuale della giurisprudenza costituzionale, che tale libertà, specie se
correlata all’espressione di convincimenti morali o filosofici (art. 21 Cost.)
ovvero alla propria fede o credenza religiosa (art. 19 Cost.), “dev’essere
protetta in misura proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante
ad essa riconosciuta nella scala dei valori espressa dalla Costituzione
italiana”: e conclude che è “convincente la tesi dell’incolpato secondo
la quale l’esposizione del crocifisso nella aule di giustizia, in funzione di
solenne ‘ammonimento di verità e giustizia’, costituisce un’utilizzazione di un
simbolo religioso come mezzo per il perseguimento di finalità dello Stato e,
pertanto appare in contrasto con il principio supremo di laicità dello Stato”
e che “del pari persuasiva” appare l’affermazione secondo cui “l’indicazione
di un fondamento religioso dei doveri di verità e giustizia ai quali i
cittadini sono tenuti, può provocare nei non credenti “turbamenti, casi di
coscienza, conflitti di lealtà tra doveri del cittadino e fedeltà alle proprie
convinzioni” (corte cost. n. 117 del 1979) e pertanto può ledere la libertà
di coscienza e di religione.”
(14)
Ancora, la
sentenza del Consiglio superiore della magistratura n. 88 del 2010, del 22
gennaio 2010, che ha inflitto al ricorrente la sanzione della radiazione dalla
magistratura, ha riconosciuto che l’obbligo di esercitare la giurisdizione sotto la “tutela
simbolica”, in contrasto con le convinzioni di coscienza del magistrato,
mette in discussione il “fondamentale diritto soggettivo di libertà
religiosa e di opinione”.
(15)
Infine, le Sezioni
uniti civili della Corte di cassazione, confermando la decisione del Consiglio
superiore della magistratura, hanno implicitamente ribadito che il diritto
soggettivo di libertà religiosa e di opinione del ricorrente è pregiudicato
dall'obbligo di esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica del
crocifisso.
(16)
La giurisprudenza
citata è dunque univoca nell’affermare l’illegittimità dell’esposizione del
crocifisso nelle aule giudiziarie prescritta dalla circolare dell’epoca
fascista, sia per contrasto con principi costituzionali (di laicità, di
imparzialità e di legalità), sia per contrasto con il diritto fondamentale
della libertà di religione e di
coscienza.
C) L’ostensione del crocifisso:
significati e valenze.
(17)
L’ordinamento
italiano considera il crocifisso come un simbolo
religioso.
La giurisprudenza qualifica pacificamente i
crocifissi quali “oggetti di devozione e di culto” (e non oggetti di
arredamento, come un tavolo o una sedia), e ravvisa pertanto il reato previsto
e punito dall’art. 404 c.p. [Offese a una
confessione religiosa mediante vilipendio o danneggiamento di cose] nella condotta
di chi vilipenda, distrugga, deteriori o imbratti tale simbolo in un luogo
pubblico o aperto al pubblico, quale sarebbe per l’appunto un’aula di tribunale
(in tal senso si veda Cassazione penale, sez. I, sentenza 28 ottobre 1966,
Fagiali; Cassazione penale, sez. III, 21 dicembre 1967, Conti; Tribunale di
Padova, 14 giugno 2005, Smith).
(18)
Nel diritto
italiano l’esposizione del crocifisso sulla propria persona o in altro luogo di
appartenenza è considerata un atto di manifestazione di libertà religiosa,
cioè di professione e di propaganda di fede, come si ricava dall’art. 58, comma
2, del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario (d.P.R. 30
giugno 2000, n. 230) che, tra le “manifestazioni della libertà religiosa”
consentite ai detenuti, prevede appunto l’esposizione “nella propria
camera individuale o nel proprio spazio di appartenenza nella camera
a più posti” di “immagini e simboli della propria confessione religiosa”.
Lo stesso Ministro di
Giustizia, del resto, ha sostenuto, nel corso giudizio promosso dal dr. Tosti
avanti al TAR delle Marche, che l’esposizione del crocifisso nelle aule
giudiziarie rappresenta un “atto di manifestazione di fede” da parte dello Stato italiano.
(19)
Giova ricordare che i primi tribunali nei quali sono stati esposti i
crocifissi sono stati i criminali Tribunali della Santa Inquisizione e che
ancor oggi la Chiesa li espone nei Tribunali ecclesiastici: il loro scopo è
quello di ostentare la fede in Dio e di connotare di sacralità cristiana
l’esercizio della funzione giurisdizionale. Il ricorrente non avanza ovviamente
dubbi sulla liceità dell’ostensione del crocifisso nei tribunali ecclesiastici,
sia perché si tratta di una scelta che rientra nell’ambito del legittimo
esercizio del diritto di libertà religiosa della Chiesa, sia perché,
trattandosi di tribunali “confessionali”, l’esposizione del “vessillo” della
Chiesa è del tutto fisiologica ed assume la stessa valenza “identitaria” che
assumono, nei tribunali “laici”, le bandiere e gli altri simboli dell’Autorità
statale. Il ricorrente ritiene,
anzi, che né lo Stato italiano né altri potrebbe imporre alla Chiesa Cattolica
l’obbligo di esporre nei tribunali ecclesiastici la bandiera italiana o i
simboli religiosi di altra confessione: si tratterebbe, infatti, di un’indebita
ingerenza che violerebbe sia il principio di “confessionalità” della Chiesa cattolica che il suo diritto di
libertà religiosa.
(20)
Alla
stessa stregua, però, l’appellante ritiene che né alla Chiesa né al Vaticano né
al Ministro di Giustizia competa il diritto di imporre ai cittadini italiani e
alla Repubblica italiana -che è e deve essere neutrale e aconfessionale- l’obbligo di esporre nei tribunali italiani il “vessillo”
della religione cattolica: si tratta, infatti, di un’ingerenza altrettanto
indebita, che viola non solo l’obbligo dello Stato italiano (e quindi dei
giudici) di amministrare la giustizia in modo visibilmente imparziale e
neutrale, ma anche il diritto di libertà religiosa delle persone che, per
motivi di lavoro o di giustizia, sono costrette a frequentare gli uffici
giudiziari.
(21)
L’esposizione del
crocifisso nelle aule di giustizia italiane significa, infatti: a) condivisione
e propaganda della fede dei cattolici,
in violazione così del diritto (negativo) di libertà religiosa di tutti coloro che
sono costretti –o per motivi di lavoro o per esigenze di giustizia– a
frequentare quelle aule; b) evocare e trasmettere il messaggio simbolico
secondo cui la funzione giurisdizionale è esercitata sotto la tutela di una confessione religiosa,
in dispregio del principio supremo di laicità che vieta a qualsiasi istituzione
pubblica di professare una fede religiosa ed impone, al contrario, l’obbligo
della neutralità di chi (come il magistrato) è chiamato ad esercitare la
giurisdizione; c) evocare e trasmettere il messaggio monoconfessionale secondo cui nelle aule di giustizia italiane è ammessa soltanto la simbologia
religiosa cattolica, in lesione del diritto alla non discriminazione
religiosa di chi, non essendo cattolico o credente, non ha la pari opportunità
di veder esposti e di propagandare i propri simboli in uno spazio pubblico.
(22)
Nel caso di specie, i valori evocativi del
messaggio religioso del crocifisso risultano non tollerabili per l’appellante
Luigi Tosti, che non accetta di condividere un simbolo e una religione che non
gli appartengono e che non accetta di essere processato da giudici che lo
giudicano, al pari dei giudici dell’Inquisizione e dei tribunali ecclesiastici,
sotto la tutela simbolica di quel vessillo e di quel messaggio.
(23)
Il dr. Luigi Tosti è persona che nell’esercizio del suo insindacabile
diritto individuale di libertà religiosa è avversa a qualsiasi forma di
simbolismo religioso o di idolatria, tant’è che non espone sulla propria
persona o negli spazi che ha disposizione simboli, idoli o immagini sacre: come
ha dunque preteso che il Ministro di Giustizia non gli imponesse di lavorare
sotto l’incombere di un crocifisso o con un crocifisso al collo, così pretende
di non essere obbligato a sottostare ai crocifissi quando è costretto a frequentare
le aule di giustizia per esercitare il diritto di difesa, tanto più in questo
processo.
(24)
Il dr. Tosti è anche un cittadino italiano che, dopo aver superato un
concorso pubblico in magistratura, ha accettato di lavorare alle dipendenze del
Ministero di Giustizia di una Repubblica “laica” e, quindi, in tribunali che
non possono imporre né ai dipendenti né ai cittadini giustiziabili l’obbligo di
condividere atti di manifestazioni di
libertà religiosa né connotazioni
religiose partigiane dell’attività lavorativa espletata. In particolare, lo
statuto costituzionale della funzione giurisdizionale stabilisce che “la giustizia è amministrata in nome del popolo
e che “i giudici sono
soggetti soltanto alla legge” (art. 101 Cost.), legge davanti alla quale
tutti i cittadini “sono eguali, senza distinzione di sesso, di razza, di
lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
(25)
Per contro, Luigi Tosti non ha scelto di “lavorare” in un Tribunale
ecclesiastico, cioè alle dipendenze di un Ente religioso per il quale il
crocifisso assume indubbiamente caratteristiche identitarie che sono essenziali
e determinanti per lo svolgimento della sua attività confessionale, né di
essere processato da un Tribunale ecclesiastico: se lo avesse fatto, non
avrebbe potuto accampare-e non accamperebbe oggi- la pretesa di far rimuovere i
crocifissi o di esporre i propri simboli ma, al contrario, avrebbe dovuto
subire la limitazione dei suoi diritti di libertà e di eguaglianza religiosa.
In tal senso si è pronunciata la CEDH nell’arresto del 20 ottobre 2009,
relativo all’affaire Lombardi
Vallauri c. Italia, requête no
39128/05, par. 41 e 44, laddove ha ritenuto legittima la restrizione del
diritto di libertà di espressione (art. 10) e del diritto di libertà di
pensiero, di coscienza e di religione (art. 9) di un professore universitario,
perché “giustificata dalla scopo di
tutelare un “diritto altrui”, cioè l’interesse di un’Università cattolica a
dispensare un insegnamento conforme alle convinzioni religiose dell’Ente
universitario”[2].
(26)
Ad opposte conclusioni si deve però pervenire nel caso di specie. La
restrizione della libertà religiosa del Tosti non si giustifica, infatti, né
per la qualità soggettiva dell’Ente datore di lavoro, né per la natura
dell’attività lavorativa o professionale che egli ha svolto né, infine, per la
“natura” del processo penale che deve subire dinanzi alla Corte di Appello di
L’Aquila: il Ministero della giustizia non è un ente religioso e la Corte di
Appello di L’Aquila non è un Tribunale ecclesiastico ma, al contrario, sono entrambi
organi (amministrativi e giurisdizionali) di uno Stato laico che, dunque, sono
tenuti all’assoluta neutralità religiosa e al rispetto dei diritti di
coscienza, di libertà religiosa e di eguaglianza di chi è costretto a
frequentarli. Per altro verso poi, l’esposizione del crocifisso nelle aule
giudiziarie non è giustificata dalla natura “religiosa” dell’attività
giurisdizionale che viene espletata dai tribunali italiani ma, anzi, vi si pone
in insanabile conflitto, perché calpesta il principio di neutralità e di
imparzialità sancito dalla Costituzione italiana (art. 111) e dalla Convenzione
(art. 6).
(27)
Riepilogando, l’appellante sostiene che il Ministro di Giustizia –non
essendo un Ente religioso– non può limitare la sua libertà religiosa, di
pensiero e di coscienza, imponendogli di condividere nelle aule giudiziarie l’esposizione
del crocifisso come simbolo venerato e conferendo ai giudici che lo giudicano
connotazioni confessionali cattoliche: connotazioni che la sua coscienza non
tollera, sia perché contrarie ai suoi convincimenti religiosi, sia perché
contrarie ai precetti costituzionali e convenzionali che impongono allo Stato
italiano e ai giudici di essere neutrali e imparziali nell’esercizio dell’attività
giurisdizionale.
(28)
è bene puntualizzare che Luigi Tosti non si è mai
doluto del fatto che le persone che frequentano gli uffici giudiziari possano
esporre sulla propria persona i crocifissi: si tratta infatti di manifestazioni
di libertà religiosa dei singoli cittadini che sono garantite – anche in luoghi
pubblici– dall’art. 9 della Convenzione
e dall’art. 19 della Costituzione e che, pertanto, non ledono i diritti di
libertà religiosa altrui, perché sono “neutralizzate”
dall’identica facoltà che è concessa –in positivo o in negativo– a tutti coloro che praticano fedi diverse o
che non ne praticano alcuna. L’appellante ritiene, anzi, che di fronte
all’ostensione dei simboli religiosi altrui – ancorché non condivisi– si imponga, di regola, la “tolleranza”: la
quale implica, in un regime democratico che si fonda necessariamente
sull’eguaglianza e pari dignità di qualsiasi ideologia religiosa o filosofica,
che vi debba essere un rispetto delle opinioni altrui, anche se non condivise.
(29)
L’appellante contesta che il Ministro di Giustizia di uno Stato laico
possa imporre l’esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie, e cioè in
luoghi che debbono essere indefettibilmente neutrali. In questo modo, infatti,
l’ostensione del crocifisso nelle aule di giustizia non è più un legittimo atto
di “manifestazione di libertà religiosa”
“in un luogo pubblico”, ma
un’imposizione e un’ingerenza indebite nella sfera di libertà religiosa di chi
–come il Tosti– è contrario a qualsiasi forma di idolatria e non si identifica
in quel simbolo -ed anzi se ne dissocia per le criminalità che lo connotano- ma
che, tuttavia, è costretto a condividere negli ambienti
giudiziari che deve necessariamente frequentare per poter
esercitare il diritto di difesa, senza avere nemmeno l’opportunità di neutralizzarlo con l’esposizione dei
propri simboli.
(30)
L’imposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie non può essere considerata
un atto “neutro” ai fini del rispetto della libertà religiosa, così come non lo
sarebbe l’obbligo per i giudici di tenere le udienze col crocifisso al collo o
cucito sulla toga. E se un crocifisso o altra simbologia religiosa appesi al
collo o cuciti sulla toga connotano di partigianeria religiosa l’esercizio
della giurisdizione e ledono la libertà religiosa dei giudici che sono obbligati
ad indossarli e degli imputati che sono obbligati a subirli, un crocifisso
appeso sulla parete non può non avere la stessa identica valenza religiosa, gli
stessi identici significati e gli stessi effetti pregiudizievoli sulla libertà
del giudice e sulle sue prerogative di imparzialità, così come sulla libertà
religiosa degli imputati e sul loro diritto ad un equo processo da parte di
giudici imparziali.
(31)
La circostanza che in Italia molti si siano “assuefatti” alla visione dei
crocifissi –perché sono rimasti appesi alle pareti fin dall’epoca del fascismo–
non deve indurre all’erroneo convincimento che la loro imposizione sia
ininfluente con l’argomento che il
crocifisso è un simbolo “passivo” che non obbliga nessuno a credere: il
diritto negativo di libertà religiosa, infatti, non implica soltanto quello di non essere obbligati a credere in una
religione, ma anche quello di non
essere costretti a subire o condividere atti di manifestazioni di libertà
religiosa altrui, senza peraltro avere possibilità di neutralizzarli
con l’esercizio di contrapposte manifestazioni.
(32)
E sotto questo diverso profilo l’imposizione del crocifisso non può
essere considerato un atto anodino perché, altrimenti, dovrebbe ritenersi
altrettanto anodina l’imposizione ai cittadini dell’obbligo di esporre i
crocifissi nelle loro case: il che non può essere giustificato, perché
l’ostensione di un simbolo religioso è un atto di manifestazione di libertà
religiosa che, come tale, non può essere imposto a nessuno.
(33)
Concludendo, l’appellante ritiene che la restrizione del diritto negativo
di libertà religiosa e di coscienza (art. 9), provocata dall’imposizione del
crocifisso, può essere giustificata solo per chi ha scelto, volontariamente, di
lavorare alle dipendenze di un ente o di un tribunale ecclesiastico o di chi,
altrettanto volontariamente, ha scelto di essere giudicato da un Tribunale
ecclesiastico: ma non per chi ha scelto di esercitare le funzioni
giurisdizionali alle dipendenze di uno Stato laico, né per chi è costretto a frequentare
come imputato un tribunale laico che, sia in base all’art. 6 della Convenzione
che in base all’art. 111 della Costituzione italiana, deve essere connotato da
assoluta imparzialità e neutralità, e non da partigianeria
religiosa.
(34)
Sul piano della convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo va considerato che nell’organizzare
il servizio della giustizia le Parti Contraenti debbono rispettare l’art. 6, §
1, che garantisce il diritto ad una giustizia
che, oltre ad essere imparziale, appaia tale.
In Klein
c. Pays– Bas, del 6 maggio 2004, ai §§ 190 ss., la Grande Chambre ha sottolineato che anche l’apparenza di
imparzialità è una qualità importante per i tribunali, perché i dubbi al
riguardo debbono essere esclusi ed i soggetti devono poter aver fiducia nel
giudice:
“Quant à la condition d’«impartialité», au
sens de l’article 6 § 1 de la Convention, elle revêt deux aspects. Il faut
d’abord que le tribunal ne manifeste subjectivement aucun parti pris ni préjugé
personnel. Ensuite, le tribunal doit être objectivement impartial, c’est– à–
dire offrir des garanties suffisantes pour exclure tout doute légitime à cet
égard. Dans le cadre de la démarche objective, il s’agit de se demander si,
indépendamment de la conduite personnelle des juges, certains faits vérifiables
autorisent à suspecter l’impartialité de ces derniers. En la matière, même les
apparences peuvent revêtir de l’importance. Il y va de la confiance que les
tribunaux d’une société démocratique se doivent d’inspirer aux justiciables, à
commencer par les parties à la procédure”.
(35)
L’importanza
dell’apparenza, in questo settore, è stata ribadita dalla giurisprudenza
successiva della CEDH: così, ad esempio, Sacilor
Lormines c. France, del 9 novembre 2006, § 60 e Micallef c. malte, del 15
ottobre 2009, § 98, la quale, richiamando diversi precedenti ci ricorda che “«justice
must not only be done, it must also be seen to be done» (il faut non seulement que justice soit
faite, mais aussi qu'elle le soit au vu et au su de tous)”.
(36)
Ora, una giustizia
amministrata in locali arredati col crocifisso per definizione appare
non imparziale sotto il profilo della equidistanza rispetto ai convincimenti
religiosi. D’altro canto, se l’esposizione del crocifisso appare del tutto
giustificata nei tribunali ecclesiastici, perché è deputata a connotare di
“confessionalità” e di “sacralità” l’esercizio della funzione giurisdizionale
da parte di quei giudici, essa appare del tutto ingiustificata nei tribunali
della Repubblica italiana che, per dettato costituzionale, debbono essere laici
e neutrali.
(37)
Per convincersene,
basta pensare a quale sarebbe l’immagine della funzione giurisdizionale se essa
fosse amministrata in aule invariabilmente arredate soltanto con il simbolo di
un determinato partito politico.
(38)
Per i motivi sin qui esposti l’appellante ritiene che i
crocifissi debbano essere rimossi da tutte le aule per garantirgli il rispetto
dei diritti all’equo processo, alla libertà di religione e di coscienza e
all’eguaglianza e non discriminazione.
(39)
In ogni caso
l’appellante ribadisce la propria richiesta, subordinata, di esposizione delle
menorà a fianco dei crocifissi nelle
aule giudiziarie: se si ritiene infatti lecito che i cattolici possano
manifestare la loro libertà religiosa, occupando con il crocifisso gli “spazi pubblici”
delle aule di giustizia e connotando, pertanto, di confessionalismo cattolico
l’esercizio della giurisdizione, identico diritto deve essere necessariamente
accordato a chi cattolico non è.
(40)
Le aule
giudiziarie appartengono a tutti i cittadini italiani in regime di eguaglianza,
senza che abbia alcun rilievo la fede praticata o il numero degli aderenti a
ciascuna di esse. Se il Ministro di Giustizia ritiene legittimo che i “non
cattolici” come lui debbano condividere l’imposizione coatta di un simbolo
“culturale” alieno, quando sono costretti a frequentare i tribunali per
difendersi, anche i cattolici debbono condividere l’imposizione dei simboli
“culturali” altrui.
(41)
L’appellante
ribadisce, per l’ennesima volta, che la richiesta di esporre i propri simboli
non è finalizzata alla salvaguardia del principio supremo di laicità -che
presuppone invece l’assenza di qualsiasi simbolo o la presenza di TUTTI i
simboli (di impossibile attuazione)- bensì alla salvaguardia del proprio
diritto di eguaglianza e non discriminazione religiosa, garantito da norme
primarie come l’art. 3 della Costituzione e gli articoli 9 e 14 della
Covnenzione.
D) La sentenza Lautsi c. Italie della Grande
Chambre del 18 marzo 2011
(42)
L’appellante ritiene che la sentenza Lautsi c. Italia del 18 marzo 2011, con
la quale la Grande Chambre della CEDH
ha ritenuto che l’esposizione del crocifisso in un’aula scolastica non fosse
lesiva del diritto dei genitori di educare i figli secondo i propri
convincimenti (art. 2 del Primo protocollo addizionale) e della libertà
religiosa dei genitori e degli alunni (art. 9), sia del tutto irrilevante nel
caso di specie.
Anzitutto la CEDH ha avuto cura di puntualizzare, nel § 57, che
essa pronunciava esclusivamente sulla “question
...... de la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles
publiques italiennes” e non si è invece pronunciata “sur la question de la présence de crucifix dans d'autres lieux que les
écoles publiques”.
In secondo luogo, la Corte ha escluso che vi sia stata violazione del diritto des
parents d'assurer une éducation et un enseignement conformément à leurs
convictions (art. 2 del prot. n. 1) e la violazione del diritto di libertà
religiosa dei genitori e degli alunni (art. 9), perché essa ha ritenuto che il
crocifisso fosse un “simbolo passivo” e che non fosse provato che esso
“indottrina” e “induce gli alunni a credere”: queste motivazioni non hanno
alcun rilievo nel presente giudizio, perché il dr. Tosti non si è mai lamentato
come giudice -e non si lamenta come imputato- che l’imposizione del crocifisso
nelle aule condizioni la sua libertà di credere o non credere. Egli ha
invece dedotto e deduce che l’obbligo di esercitare le funzioni giurisdizionali
o di subire un processo sotto la tutela simbolica del crocifisso viola il suo
diritto di libertà religiosa perché lo costringe a subire e condividere un atto
di manifestazione di fede cattolica, senza peraltro avere la possibilità di neutralizzarlo con l’esercizio
di contrapposte manifestazioni e, inoltre, perché egli è stato costretto come
giudice -e viene oggi costretto come imputato- a dichiarare pubblicamente di
non essere cattolico al fine di sottrarsi a questa imposizione.
Infine,
la Corte ha relativizzato gli effetti dell’esposizione del crocifisso,
osservando al § 74 della decisione – sulla base di FALSE indicazioni fornite
dal Governo italiano – che tale simbolo religioso si inseriva in uno
spazio scolastico comunque aperto alle
altre religioni, considerato: a) che nella scuola è garantito
l’insegnamento confessionale delle altre religioni professate dai culti
riconosciuti (circostanza COMPLETAMENTE FALSA, perché l’unico insegnamento
ammesso e pagato con i soldi dei contribuenti è quello della religione
cattolica); b) che nella scuola c’è la possibilità, da parte degli alunni, di
esibire la propria simbologia religiosa (circostanza COMPLETAMENTE FALSA -come
i Giudici aquilani ben sanno- essendosi occupati del caso Smith, i cui simboli
islamici sono stati rimossi perché incompatibili col crocifisso cattolico).
E) L’obbligo di garantire il rispetto dei
diritti inviolabili durante il processo
(43)
La Cassazione penale, con sent. n. 3376 del
2001, ha sancito la piena legittimità del rifiuto di un imputato disabile di
presenziare all’udienza dibattimentale “per
l'esistenza di barriere architettoniche che gli impedivano di accedere all'aula
di udienza”, perché ha ritenuto che “spetta all'amministrazione pubblica
garantire alle persone disabili modalità di accesso ai locali rispettose
dell'uguaglianza e della pari dignità di tutti i cittadini.”
La
Corte ha dichiarato che “l'ordinanza che
ne dichiari la contumacia è nulla perché gli interventi di rimozione degli
ostacoli devono essere preventivi rispetto al manifestarsi dell'esigenza della
persona disabile e i problemi di questa non possono essere considerati come
problemi individuali, bensì vanno assunti dall'intera collettività.”
(44)
L’appellante ritiene che questi stessi
principi debbano essere applicati al suo caso: spetta infatti
all’amministrazione giudiziaria garantirgli -attraverso la rimozione dei
crocifissi o, in subordine, autorizzandolo ad esporre la menorà- la
partecipazione al processo nel pieno rispetto dei suoi diritti inviolabili di
libertà religiosa, di coscienza, di eguaglianza e di equo processo da parte di
giudici visibilmente imparziali. Se ciò non avverrà, egli sarà costretto a non
presenziare al dibattimento o ad allontanarsi dall’aula per la necessità di
preservare tali diritti.
(45)
Se la Corte riterrà invece giustificata questa
pretesa, dovrà rinviare il processo in attesa che il Ministro di Giustizia -sollecitato
ad hoc- rimuova i crocifissi per
consentire la regolare prosecuzione del processo.
(46)
In caso di ulteriore inerzia da parte del
Ministro, è da escludere che la Corte possa disapplicare la circolare del
Ministro fascista Rocco, ex art. 4, all. E, della L. 20.3.1865 n. 2248: la
rimozione dei crocifissi dalle aule giudiziarie italiane, infatti, postula
l'esecuzione di un atto amministrativo generale che rientra nella competenza
esclusiva del Ministro, come espressamente affermato dalla Cassazione penale
nella citata ordinanza n. 41.571 del 18.11.2005.
(47)
Ciò non toglie, tuttavia, che la Corte possa
sollevare un conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro di Giustizia,
ex art. 134, comma 2° Cost., e 37 L. 11.3.1953 n. 87, sussistendone tutti i
requisiti oggettivi e soggettivi.
(48)
E'
infatti innegabile che il diniego di rimozione dei crocifissi da parte del
Ministro di Giustizia (sempreché ritenuto dalla Corte di Cassazione illegittimo
ed ostativo alla prosecuzione del dibattimento) impedirebbe sine die la celebrazione del processo
d’appello: il che concretizzerebbe, di fatto, una “menomazione della pienezza della funzione giurisdizionale attribuita
alla Corte di Cassazione dalla Costituzione”.
(49)
Questa
“menomazione” integrerebbe un'ipotesi del tutto analoga a quella dell' illegittimo
rifiuto delle Camere di fornire all'Autorità giudiziaria documenti necessari ai
fini probatori o a quella dell' illegittimo rifiuto
dell'autorizzazione a procedere contro parlamentari: tutti casi, questi, nei
quali la Corte Costituzionale ha ritenuto e ritiene ammissibili i conflitti di
attribuzione ex art. 37 L. n. 87/1953.
(50)
Questa
norma sancisce infatti che “Il conflitto tra poteri dello Stato è risolto
dalla Corte costituzionale se insorge tra organi competenti a dichiarare
definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la
delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da
norme costituzionali”.
(51)
Nel
caso di specie ricorre, innanzitutto, il requisito soggettivo, in quanto la
Corte di Appello gode di assoluta indipendenza ed autonomia nell'ambito del più
vasto “potere giurisdizionale” cui appartiene (si richiama Corte Cost., ord.
22/1975: “i singoli organi giurisdizionali, esplicando le loro funzioni in
situazioni di piena indipendenza, costituzionalmente garantita, sono da
considerare legittimati -attivamente e passivamente- prescindendo dalla
proponibilità di gravami predisposti a tutela di interessi diversi”).
(52)
Non
sussiste, poi, l'ipotesi che “altro organo, all'interno del potere
giurisdizionale, sia abilitato ad intervenire -d'ufficio o dietro
sollecitazione del potere controinteressato- rimuovendo o provocando la
rimozione dell'atto o del comportamento che si assumono lesivi” (Corte
Cost., ord. 228/75).
(53)
Dal
punto di vista oggettivo, poi, il conflitto di attribuzione concerne
sicuramente un atto amministrativo di natura regolamentare (circolare
Min. Giust. n. 2134/1867 del 29.5.1926 o, comunque, un comportamento di
“rifiuto” di rimozione dei crocifissi da tutte le aule giudiziarie italiane),
della cui “illegittimità” non è dato
dubitare.
(54)
Infine,
la violazione della sfera di attribuzione della Corte di Cassazione trova il
suo fondamento negli artt. 101 e 102 della Costituzione, perché il diniego di
rimozione generalizzata dei crocifissi dalle aule giudiziarie da parte del
Ministro di Giustizia, implicando la violazione del diritto costituzionale
dell'imputato all'equo processo da parte di un giudice imparziale (art. 111
Cost. e 6 Conv.), nonché del diritto costituzionale all'eguaglianza (art. 3
Cost. e 14 Conv.) e del diritto costituzionale alla libertà religiosa (art. 19
Cost. e 9 Conv.), determina un legittimo impedimento dell’imputato a partecipare
al processo e a difendersi (art. 420 C.P.P.), con conseguente menomazione della
pienezza della funzione giurisdizionale della Corte di appello a causa dello
“stallo” sine die del processo.
(55)
Si
tratta di fattispecie del tutto assimilabile a quella ritenuta fondata dalla
Corte Costituzionale con l'ord. n. 228 del 1975:
“Il rifiuto opposto al Tribunale di Torino
dalla Commissione d'inchiesta in ordine alla richiesta di documenti, ritenuti
necessari ai fini probatori, concreta una illegittima menomazione delle
pienezza della funzione istituzionalmente spettante al potere giurisdizionale
ex artt. 101 e 102, esplicata dal Tribunale medesimo, per la limitazione
che ne risulterebbe all'accertamento dei fatti ed alle conseguenti valutazioni
di sua competenza”. Nel caso di specie, infatti, il rifiuto del
Ministro di Giustizia di rimuovere i crocifissi determinerebbe una illegittima
menomazione delle pienezza della funzione spettante alla Corte aquilana ex
artt. 101 e 102, per l’impossibilità di celebrare un valido processo a carico
dell'imputato, legittimamente contumace o assente dal processo a causa
dell'esposizione obbligatoria dei crocifissi nelle aule giudiziarie”.
(56)
D’altro canto, la Corte Suprema ha
giustamente sancito, nella citata ordinanza
n. 41.571 del 18.11.2005, che
non è possibile il ricorso alla legittima
suspicione da parte dell'imputato che si ritenga leso nei suoi diritti a
causa dell’imposizione dei crocifissi nelle aule giudiziarie: e questo perché,
“anche se può avere incidenza indiretta sulle posizioni soggettive di
terzi estranei a quella amministrazione”, la circolare fascista ha portata generale e si applica ai tutti gli
uffici giudiziari italiani, sicché, pur “essendo
state sollevate circostanze importanti”,
“non può invocarsi l'istituto
della rimessione del processo per scongiurare un pericolo di parzialità del
giudice o di turbamento del giudizio, quando la situazione che asseritamente
genera quel pericolo ha dimensione nazionale, essendo evidente che in tal caso
anche la translatio iudicii non sarebbe in grado di rimuovere o evitare quella
stessa situazione che si assume pregiudizievole per la imparzialità e serenità
del giudizio”.
(57)
Sulla
base di questi lineari principi, pertanto, l’unica via praticabile per
risolvere il rispetto dei diritti inviolabili dell’imputato è quella del
conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro di Giustizia ex artt. 134
Cost. e 37 L. 11.3.1953 n. 87, affinché la Consulta dichiari che il rifiuto di
rimozione dei crocifissi è illegittimo, per violazione degli art. 2, 3, 7, 8,
19, 97, 101, 102, 104 e 111 e 113 della Costituzione e 6, 9, 13, 14 e 17 della
Convenzione e determina, dunque, una illegittima menomazione della pienezza
delle funzioni giurisdizionali spettanti alla Corte di Appello gli ex artt.101
e 102 Costituzione.
(58)
Si
segnala che la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 127/2006, ha dichiarato
inammissibile analogo conflitto di attribuzione, sollevato dal Tosti quando
esercitava le funzioni giurisdizionali nel Tribunale di Camerino, perché ha
ritenuto che “il giudice remittente, che
per sua stessa ammissione si era astenuto dalle funzioni giurisdizionali dal
9.5.2005, non era attualmente investito di un processo, in relazione al quale
soltanto i giudici si configurano come organi competenti a dichiarare la
volontà del potere cui appartengono”: questa situazione ovviamente non
sussiste per i Giudici dfella Corte di Appello, che sono nel pieno delle
funzioni e che sono investiti della trattazione di questo processo.
F) Irrilevanza della rimozione o dell’assenza
del crocifisso in aula
L’appellante
sconsiglia di rimuovere il crocifisso dall’aula dell’udienza dibattimentale per
tentare di eludere, suerrettiziamente, la questione del rispetto dei diritti
umani dell’imputato. Questo escamotage,
a dir poco cialtronesco ed indice di abuso di potere, non avrebbe infatti alcun
rilievo, alla luce di quanto sopra esposto. Né avrebbe alcun rilievo la
circostanza che il crocifisso sia “occasionalmente” assente nell’aula, dal
momento che ciò che contata è che esiste una circolare che ne impone la
presenza obbligatoria e questa circolare viene tuttora ritenuta vigente e
cogente dal Ministro.
SESTO PUNTO:
Dal momento che il ministro fascista impone all’imputato la presenza ossessiva
del crocifisso negli uffici giudiziari, il minimo che il Tosti possa fare è
quello di “suonare le sue campane”, cioè di presenziare all’udienza con i suoi
simboli. E dal momento che il crocifisso -come già declamato dal Tosti in due
pubbliche udienze- può essere a buon diritto definito, a causa della nefasta
storia del cristianesimo e della Chiesa cattolica, come il vessillo della più
grande associazione per delinquere e della più grande banda di falsari del pianeta
Terra, l’imputato preannuncia che presenzierà con una croce uncinata al collo.
Se
qualcuno, malauguratamente, dovesse dichiararsi “turbato” dalla visione della
svastica, gli si farà con garbo osservare che il simbolo nazista è, al pari del
crocifisso, un “simbolo passivo che non induce nessuno a
credere o a professare atti di fede”.
Se
qualcuno poi dovesse avanzare la pretesa di “rimozione” della svastica,
adducendo magari che si tratta di un simbolo criminale che gronda del sangue di
sei milioni di ebrei, rom ed omosessuali, gli si farà garbatamente osservare
che in tutte le aule italiane viene esposto, addirittura per ordine del
ministro di giustizia fascista e a spese dei cittadini, un simbolo che è
infinitamente più criminale, perché gronda dello sterminio di centinaia di
milioni di esseri umani e di una serie sterminata di altri crimini contro
l’umanità, al cospetto del quale la svastica nazista può dunque a buon diritto aspirare
al titolo di “candida e pudica educanda”.
Il crocifisso -ad onta dei
compiacenti ed oltraggiosi tentativi di contrabbandarlo come “il simbolo
storico/culturale che identifica il popolo italiano e che esprime un sistema di
valori di libertà, di eguaglianza, di dignità umana e di tolleranza religiosa,
che stanno alla base del principio di laicità dello Stato”- rappresenta in
realtà il “vessillo” della più grande banda di criminali e della più grande
banda di falsari che sia mai esistita sul pianeta Terra, la quale si è resa
artefice dei più efferati crimini contro l’umanità, condividendoli di papa in
papa senza il minimo moto di resipiscenza o di pentimento.
La storia del “crocifisso” gronda di
sangue, di genocidi, di assassini, di torture, di criminale inquisizione, di
criminali crociate, di criminale razzismo, di criminali condanne a morte di
eretici, di criminali torture e condanne al rogo di centinaia di migliaia di
streghe, di criminale schiavizzazione a livello planetario delle popolazioni
indigene, di superstizione, di criminale discriminazione e persecuzione
razziale degli ebrei, di criminale ghettizzazione degli ebrei, di criminale
shoà, di criminale collaborazione con i genocidi degli ustascia, di criminale aiuto
e cooperazione del Vaticano alla fuga e all’espatrio in sud America dei
criminali di guerra nazisti, di criminali rapimenti di bambini ebrei perché
“battezzati”di nascosto, di castrazione di bambini per innalzare “celesti
melodie” al “buon” Dio degli eserciti, di criminali genocidi dei nativi
americani ed australiani, di criminali confische, di patologica misoginia ed
omofobia, di discriminazione delle donne e degli omosessuali, di patologica
sessuofobia, di intolleranza religiosa, di oscurantismo, di negazione assoluta
dei più elementari diritti politici ed umani di eguaglianza, di libertà di
opinione, di libertà di pensiero, di libertà di religione e di libertà di
scienza e ricerca, di omertosa e criminale copertura dei preti pedofili a
livello planetario, di omertosa e criminale copertura di assassini e di
occultamento di cadaveri nei sottotetti delle Chiese, di mafiose connivenze e
scambi di favori economici con politici e “gentiluomini” del Papa per ottenere
i finanziamenti dei grandi eventi, di omertosa e criminale complicità nel
riciclaggio del danaro sporco e nell’evasione fiscale, di imposizione di
pratiche contro natura come la castità, di criminale istigazione all’omicidio
attraverso il divieto dell’uso del preservativo ai malati di AIDS, di mancata adesione
alle Convenzioni internazionali per la salvaguardia dei diritti e delle libertà
fondamentali degli uomini e delle donne, di mancata adesione alle Convenzioni
internazionali contro la criminalità organizzata, il riciclaggio e l’evasione
fiscale, di illeciti finanziari, di millenaria accumulazione parassitaria di
ingenti ricchezze, che rappresentano uno scandalo “teologico” e un insulto alla
povertà, di ostentazione di sfarzi, ori, pietre preziose, ricchezze, paramenti
liturgici e scarpine di Prada che oltraggiano i veri poveri “cristi” di questo
Pianeta, di “paradisi finanziari” creati e gestiti per occultare la
tracciabilità delle operazioni bancarie ed agevolare i criminali, di costante
rifiuto di collaborazione con le autorità giudiziarie per la persecuzione dei
reati, di negazione assoluta dei diritti politici e di libertà religiosa, di
negazione assoluta del diritto inviolabile di matrimonio dei preti e delle
monache, di truffe, di costante abuso della credulità popolare a fini
speculativi, di truffaldine messe gregoriane, di simonia, di scadaloso mercimonio
di indulgenze per accumulare ricchezze, di truffaldine commercializzazioni di
“medagliette” “miracolose” della Madonna ed altre divinità inferiori, di
commercializzazione truffaldina del miracoloso monossido di diidrogeno dei
prestigiosi laboratori farmaceutici di Lourdes, di mafiose bolle di componenda,
di false natività di Gesù Cristo, di false “donazioni” di Costantino per
“giustificare” il potere temporale della Chiesa sul Pianeta Terra, di costanti
falsificazioni e taroccamenti di scritture sacre, di false reliquie, di falsi
prepuzi di Gesù (almeno 18!), di falsi sangui di Gesù cristo, di false “fasce”
di Gesù bambino, di false mangiatoie del bue e dell’asinello, di false culle di
Gesù bambino, di falsi biberon di Gesù bambino, di falsi e truffaldini “sangui
di San Gennaro”, di false piume delle ali dell’Arcangelo Gabriele, di falsi
veli della Madonna, di falsi capelli della madonna, di false cinture della
madonna, di falsi anelli di fidanzamento di Giuseppe e Maria, di falsi bastoni
e cinture di San Giuseppe, di falsi “latti” della madonna, di false corone di
spine, di false “teste” di san Giovanni Battista decollato, di falsi danari di
Giuda -con relative false borse- di calotte craniche, cervelli, vertebre,
clavicole, dita, piedi, mani, femori ed altri macabri resti umani, appartenenti
a chi sa chi ed attribuiti a falsi Santi, di false apparizioni della madonna -a
migliaia, ma nessuna in un Paese islamico- di false madonne che lacrimano sangue,
di una pletora di false ostie che si tramutano miracolosamente in bistecche
fiorentine al sangue, di false case della madonna di Loreto -che svolazzano qua
e là per la gioia dei piloti italiani- di falsi chiodi della croce di Gesù, di
falsi legni della croce di Gesù, di false lance di Longino (Heilige Lanze)
venerate dal criminale cattolico Hitler, di false sindoni, di false veroniche,
di falsi miracoli, di falsi Santi -autori di falsi miracoli- di falsi esorcisti
che praticano riti sciamanici su malati e bambini parificati ai “down”, di
false stigmate, di false transustanziazioni delle ostie, di Santi Padri Pii
impostori, di falsi purgatori, di falsi limbi, di falsi demoni, di falsi
angeli, di falsi arcangeli, di falsi cherubini, di falsi serafini, di falsi
troni, di falsi indemoniati e, persino, della falsa “cacca” dell’asino che
avrebbe trasportato Gesù Cristo.
Esporre i
crocifissi nelle aule di giustizia non è soltanto un insulto al principio
supremo di laicità e all’intelligenza umana, ma è anche un insulto e un
oltraggio alla Legalità, alla
Giustizia, alla Civiltà e alla Memoria delle centinaia di
milioni di esseri umani che, in nome di quel macabro e orrifico simbolo, sono
stati assassinati, torturati, sbudellati, incarcerati, discriminati, inquisiti,
ghettizzati, prevaricati, abbindolati, truffati, vilipesi ed emarginati dalla
Chiesa Cattolica nella sua nefasta storia criminale.
L’appellante
ritiene che non esista un simbolo che sia più “squalificato” e più indegno di
essere esposto nelle aule di Giustizia del crocifisso cattolico.
L’appellante
ritiene vergognoso e intollerabile che lo Stato italiano esponga questo
“vessillo” negli uffici giudiziari, così come trova vergognoso, indecente e
intollerabile che il Papa e le gerarchie ecclesiastiche seguitino tuttora ad
essere accreditate, sponsorizzate e spalleggiate dalle Istituzioni italiane, ad
onta dei trascorsi criminali della Chiesa e ad onta del loro presente,
tutt’altro che commendevole.
L’appellante
trova vergognoso che le gerarchie ecclesiastiche invadano quotidianamente la
politica italiana, gli spazi pubblici e la RAI con interventi intrusivi che
brutalizzano il principio di laicità ed il pluralismo religioso e che siano
chiamate a presenziare -in prima fila e in perfetta “solitudine”- l’apertura
dell’anno giudiziario italiano, sia dinanzi alla Cassazione che dinanzi alle
Corti di Appello, quasi che l’Ordinamento Giudiziario italiano sia sottoposto,
per dettato costituzionale, alla sovranità della Chiesa.
Se
si espone nelle aule giudiziarie un simbolo criminale come il crocifisso, a
maggior ragione merita di essere esposta la criminale svastica nazista. D’altro
canto l’accostamento dei due simboli è storicametne perfetto, dal momento che nazismo
e cristianesimo hanno collaborato e stretto accordi e i nazisti non erano
ovviamente musulmani né, tantomeno, “atei” -come falsamente affermato da papa
Benedetto XVI- bensì devoti cristiani, come comprovato dalla fede cattolica di
Adolf Hitler, fervente adoratore della lancia di Longino, e dalla fede cattolica
di Josef Ratzinger, un ex nazista aderente alla gioventù hitleriana che è stato
scelto dallo Spirito Santo per guidare la Chiesa Cattolica.
Se
qualcuno dovesse malauguratamente affermare che Luigi Tosti è un “provocatore”,
gli si darà ragione, ricordandogli però che in una società in cui regna la
codardia, l’opportunismo e l’indifferenza, chi pretende l’osservanza della
legge e il rispetto dei diritti inviolabili viene sempre giudicato come un
“provocatore”, perché chi lo giudica tale o è un vigliacco o è un opportunista
o è un indifferente.
Rimini
- L’Aquila, 2 luglio 2012
Luigi
Tosti
RINUNCIA
ALL’IMPUGNAZIONE EX ART. 589-582 C.P.P.
Il sottoscritto Luigi Tosti, nato
a Cingoli il 3.8.1948, res. a Rimini, Via Bastioni Orientali n. 38,
premesso
- che con sentenza del Tribunale
di L’Aquila n. 134 del 10.1.2008 è stato condannato in continuazione alla pena
di anni uno di reclusione;
- che avverso detta sentenza ha
proposto appello;
- che è stata fissata per la
discussione l’udienza dibattimentale dinanzi alla Corte di Appello di L’Aquila
per il giorno 5 luglio 2012, ore 12;
P.Q.M.
DICHIARA
di RINUNCIARE al PRIMO MOTIVO di
appello, col quale ha lamentato la mancata applicazione dei principi sanciti
dalla sent. n.6670/1985 delle SS.UU. della Cassazione penale, secondo cui “l'art. 328 c.p. si riferisce non ad un
generico dovere di fedeltà e di zelo del pubblico ufficiale, ma al mancato o
ritardato compimento di un atto dell'ufficio”.
CHIEDE
pertanto, che la Corte si
pronunci solo sui residui motivi di appello, conformente alla giurisprudenza
della Cassazione (cfr., da ultimo, Cass. pen., Sez. 2, sent. n. 3593 del
03/12/2010 / 01/02/2011.
Rimini-L’Aquila, li 2 luglio
2012.
Luigi
Tosti
La firma è autentica
Avv.
Dario Visconti
[1] Così,
infatti, motiva la Sezione disciplinare: “la rimozione ..... (è) l’unica ragionevole in
conseguenza della prevedibile ed immediata reiterazione delle medesime condotte
in caso di riattribuzione delle funzioni. Il dott. Tosti ha manifestato la
irremovibile volontà di tenere fermo il suo rifiuto fino a quando non sarà
tolto il crocifisso dalle aule d’udienza o non sarà esposta la menorà ebraica.
Ha esplicitamente dichiarato che non defletterebbe da tale decisione neanche in
futuro se gli fosse data occasione di rinnovare, con la restituzione delle
funzioni, il rifiuto di esercitarle.) Tale determinazione...... è
sintomatica ..... di un ostinato e pervicace arroccamento sulle proprie
posizioni, incompatibile con la ripresa dell’attività giurisdizionale in
adeguate condizioni di prestigio e serenità”.
[2] A supporto di tale pronuncia la CEDH ha richiamato
l’art. 3 del D.P.R. n. 216/2003 che, recependo la direttiva n. 78/2000/CE (art.
4), ha disposto che “nell'ambito del
rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attività di impresa.... non
costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 le
differenze di trattamento, basate sulla professione di una determinata
religione o di determinate convinzioni personali, che siano praticate
nell'ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private,
qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle
attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il
contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale,
legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività.”
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