mercoledì 12 gennaio 2011

L'8 FEBBRAIO 2011 L'EPILOGO SUL "CASO" TOSTI, RIMOSSO DALLA MAGISTRATURA DAL CSM DI NICOLA MANCINO.



E' stata fissata per il giorno 8 febbraio 2011 la discussione del ricorso che ho proposto avverso la sentenza di condanna alla "rimozione" dalla magistratura pronunciata dal Consiglio Superiore della Magistratura presieduto dall'Avv. Nicola Mancino in data 22 gennaio 2010. In ossequio all'assoluta trasparenza della mia iniziativa e della mia battaglia per principi che in uno Stato moderno democratico sono banali, ma tali non sono in una colonia del Vaticano come l'Italia, pubblico, qui di seguito, il testo del mio ricorso per quanti avranno il desiderio (e la pazienza) di leggerselo. Ribadisco ancora una volta che sono ateo (arciconvinto) e che ritengo che qualsiasi simbolo religioso (o comunque partigiano) debba essere accuratamente estromesso da qualsiasi pubblico ufficio. E' gradita la massima diffusione.



CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE CIVILI
Ricorso ex artt. 17 L. N. 195/1958 e 60 D.P.R. N. 916/1958
proposto da
Tosti Luigi, C.F.: TSTLGU48M03C704G, res. a Rimini, Via Bastioni Orientali n. 38, rappresentato e difeso, giusta procura speciale in calce al presente ricorso, dagli Avvocati:
1. Alessandro MANTERO ......
2. Fabio PIERDOMINICI ......
3. Carla CORSETTI con studio in 03024 Ceprano (FR), Via Vittorio Alfieri n. 80, tel. 0775 950214,
ed elettivamente domiciliato in 00179 Roma.......;
AVVERSO
la sentenza della Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura n. 88/2010, pronunciata il 22.1.2010, depositata il 26.5.2010 e notificata il 9 luglio 2010, relativa ai procedimenti disciplinari riuniti nn. 12 e 190/2009 R.G., nonché contro tutte le ordinanze presupposte e/o connesse di rigetto di questioni preliminari, di istanze istruttorie, di ricusazione etc. etc.
PREMESSA
Immaginate che Tizio, dopo aver prenotato un viaggio aereo con la Compagnia di bandiera italiana, si presenti all’imbarco assieme alla moglie, nera, e a due figli, mulatti, ma che il personale di bordo impedisca ai suoi familiari di imbarcarsi, adducendo l’esistenza di una circolare fascista del 1926 che consente solo alle persone di razza bianca di viaggiare sugli aerei pubblici.
Dopo un attimo di sbigottimento, Tizio protesta contro questa patente discriminazione razziale -che integra addirittura il crimine di apartheid- ed afferma che la circolare in questione deve ritenersi sicuramente abrogata perché incompatibile con il principio sancito dall’art. 3 della Costituzione che sancisce l’eguaglianza dei cittadini senza distinzione di razza: ingiunge dunque ai propri familiari di entrare nell’aereo senza indugio.
Interviene però il Comandante, che ordina l’immediata espulsione dall’aereo della donna “negra” e dei due bambini “meticci”, perché la loro presenza “disturba la sensibilità” dei passeggeri di Superiore Razza bianca, ed invita Tizio ad occupare immediatamente il suo posto prenotato.
Tizio, però, non accetta di imbarcarsi senza i familiari e replica, anzi, che se i passeggeri di razza bianca non tollerano di viaggiare assieme ai suoi familiari perché hanno la pelle nera, anche lui non tollera di viaggiare assieme ai familiari dei passeggeri ariani per il motivo opposto, è cioè perché hanno la pelle bianca: dichiara dunque al Comandante che si rifiuterà di imbarcarsi se non verranno prima espulsi dall’aereo anche i “familiari” dei passeggeri ariani.
A questo punto il Comandante, per indurre Tizio a recedere dal “rifiuto”, gli avanza la proposta “mediatoria” di farlo viaggiare nella stiva dell’aereo: così -gli assicura il Comandante- non potrà più dire che le presenze dei familiari dei passeggeri ariani lo disturbino!
Il nostro “puntiglioso” Tizio, però, respinge con sdegno questa proposta, definendola una criminale “ghettizzazione”.
Il Comandante, allora, per superare questa calzante obiezione ha un’idea “geniale”: assicura a Tizio che nella stiva avranno la facoltà di viaggiare anche i passeggeri di razza ariana sicché -chiosa- “in nessun caso potrà affermare che sussista una “ghettizzazione” ai suoi danni”.
Tizio respinge però questo “volpino” escamotage, facendo notare al Comandante che la discriminazione in realtà persiste in tutta la sua interezza, perché nella cabina “ufficiale” -cioè quella deputata al trasporto dei passeggeri- potranno tranquillamente viaggiare i familiari dei passeggeri di razza ariana, mentre i suoi familiari dovranno rimanere a terra perché ritenuti “inferiori” a cagione del colore nero della pelle!
Comunque, per avere l’immediato riscontro della “sincerità” della proposta, Tizio ne inverte i termini, avanzando al Comandante la controproposta di farlo viaggiare, assieme alla moglie e ai figli, nella cabina passeggeri, e di consentire invece ai passeggeri di razza ariana di viaggiare a loro scelta o nella stiva dell’aereo o nella cabina passeggeri, lasciando ovviamente a terra i loro familiari!
La controproposta non viene accolta, sicché Tizio, avuta la conferma della sua doppiezza, si rifiuta di imbarcarsi sull’aereo senza i suoi familiari ed intraprende poi un’azione giudiziaria contro la Compagnia aerea, reclamando sia il rimborso dei biglietti che il risarcimento dei danni materiali e morali per la grave discriminazione subita.
Ebbene, immaginate che il Giudice, anziché reprimere gli atti di criminale discriminazione e condannare in modo esemplare la Compagnia aerea, respinga la domanda di Tizio “coniando” queste “massime giuridiche”:
“Non è dato a nessun passeggero, ma in particolare ad un passeggero ammogliato con donna negra e con prole meticcia, di imporre condizioni od ultimatum alle Amministrazioni pubbliche di trasporto, subordinando, in termini più consoni a richieste ricattatorie ed estorsive, il proprio imbarco alla questione di principio di far imbarcare sull’aereo, in ossequio ad un preteso principio di eguaglianza e non discriminazione, i propri familiari di inferiore razza camita.
Il rifiuto di un passeggero di viaggiare su un aereo, motivato dalla circostanza che la Compagnia ha impedito alla moglie negra ed ai figli meticci di salire sullo stesso velivolo perché la loro presenza disturbava la sensibilità dei passeggeri di superiore razza bianca, deve ritenersi del tutto indebito e, anzi, pretestuoso, tanto più se si considera che nel caso di specie il Comandante dell’aeromobile aveva offerto al passeggero l’opportunità di viaggiare tranquillamente nella stiva dell’aereo in condizioni di piena legittimazione anche sociale, rompendo così qualsiasi nesso tra il rifiuto di viaggiare e la circostanza che, mentre i suoi familiari dovevano rimanere a terra perché di razza negra e meticcia, i familiari dei passeggeri di superiore razza ariana venivano invece regolarmente trasportati sull’aereo.
Dopo aver fatto galoppare la vostra immaginazione con questa storia, vi chiediamo: da quale parte state, dalla parte di Tizio -cioè della vittima del razzismo- oppure dalla parte dei suoi aguzzini razzisti e del giudice che ne ha avallato i crimini?
In attesa della risposta, consideriamo, nella sua estrema sintesi, ciò che è capitato al dr. Luigi Tosti.
Il dr. Luigi Tosti ha chiesto che venissero rimossi i crocifissi dalle aule di giustizia perché lesivi (tra l’altro) del suo diritto di eguaglianza. Il Presidente del Tribunale, però, gli ha risposto che era giusto che i crocifissi venissero esposti nelle aule di giustizia, perché così disponeva una circolare fascista. Il dr. Tosti, allora, ha esposto al loro fianco i propri simboli, credendo di vivere in un Paese in cui anche i “negri” possono salire sugli aerei. Il Presidente, però, ha ordinato la loro immediata “rimozione” perché “disturbavano” gli adepti della “Superiore” religione Cattolica.
Posto di fronte a questo palese atto di discriminazione religiosa, il dr. Tosti ha minacciato di rifiutarsi di tenere le udienze, se non fossero stati tolti dalle aule giudiziarie i crocifissi o non fosse stato autorizzato ad esporvi le sue menorà, rivendicando in tal modo il rispetto del diritto all’eguaglianza e non discriminazione religiosa.
Non avendo ottenuto risposta, il dr. Tosti si è rifiutato di tenere le udienze dal 9 maggio 2005 in poi, perché non si consentiva al suo simbolo di “imbarcarsi” sullo stesso “aereo” dove “viaggiavano” i simboli dei cattolici.
A questo punto il Presidente del Tribunale ha avanzato al dr. Tosti la proposta “mediatoria” di “farlo viaggiare nella stiva dell’aereo”, cioè di tenere le udienze nella sua “stanza”.
Ritenendo che la proposta integrasse una intollerabile “ghettizzazione”, il dr. Tosti l’ha respinta. Il Presidente del Tribunale, allora, ha avuto la geniale idea di invitarlo a “viaggiare” in un’altra aula, appositamente allestita senza crocifisso, nella quale avrebbero potuto “viaggiare” anche i giudici della Superiore “Razza” Cattolica sicché -ha chiosato il Presidente- egli non avrebbe più potuto affermare di essere “discriminato”.
Il puntiglioso dr. Tosti, però, ha respinto questo volpino escamotage, facendo notare al “Comandante” del Tribunale che la discriminazione persisteva in tutta la sua interezza: infatti nella “cabina passeggeri” -cioè nelle aule “ufficiali” del Tribunale di Camerino e in tutte le aule d’Italia- seguitavano a “viaggiare” i crocifissi della Superiore Razza Cattolica, mentre i suoi “familiari” -cioè le menorà- dovevano “rimanere a terra”, cioè fuori del Tribunale.
In ogni caso, per avere l’immediato riscontro della “sincerità” della proposta, il dr. Tosti ne invertiva i termini, avanzando al “Comandante” del Tribunale la controproposta di farlo “viaggiare”, assieme alla sua “menorà”, nella “cabina passeggeri”, cioè nelle aule “ufficiali”, e di consentire invece ai “passeggeri” di Superiore Razza Cattolica di viaggiare a loro piacimento o nella stiva dell’aereo, cioè nell’aula-ghetto, oppure nella “cabina passeggeri”, cioè nelle aule “ufficiali”, lasciando ovviamente “a terra”, cioè fuori del Tribunale, i loro tanto amati “familiari”, cioè i crocifissi!
La controproposta non veniva però accolta, sicché il dr. Tosti, avutane la conferma della doppiezza, persisteva nel rifiuto.
Le Autorità, venute a conoscenza dei fatti, anziché attivarsi contro i “razzisti” che discriminavano il dr. Tosti nell’ambiente di lavoro, attivavano un procedimento disciplinare, in esito al quale costui veniva rimosso dalla magistratura con queste massime della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura:
“Non è dato a nessun magistrato, ma in particolare ai magistrati di infima religione ebraica, di imporre condizioni od ultimatum all’Amministrazione di appartenenza, subordinando, in termini più consoni a richieste ricattatorie ed estorsive, la trattazione delle udienze alla pretesa di esporre, in ossequio ad un preteso principio di eguaglianza e non discriminazione, l’infima menorà ebraica a fianco del sacro crocifisso cattolico.
Il rifiuto di un magistrato di tenere le udienze, motivato dalla circostanza che l’Amministrazione giudiziaria gli ha impedito di esporre nelle aule la propria menorà perché giustamente la sua presenza offendeva il crocifisso e recava disturbo agli adepti della Superiore Religione Cattolica, deve ritenersi del tutto indebito e, anzi, pretestuoso, tanto più se si considera che nel caso di specie il Presidente del tribunale aveva offerto al magistrato l’opportunità di tenere le udienze tranquillamente in un’aula speciale, priva di simboli, in condizioni di piena legittimazione anche sociale, rompendo così qualsiasi nesso tra il rifiuto di tenere le udienze e la risibile circostanza che, mentre la sua infima menorà veniva estromessa da tutte le aule di quel tribunale e di tutti i tribunali, i crocifissi della Superiore Razza Cattolica restavano invece regolarmente affissi sia nelle altre aule dell’ufficio di appartenenza che in quelle degli altri uffici giudiziari italiani”.
Di qui il presente ricorso.
L’ANTEFATTO
(1) Nel 2003 tale Adel Smith, cittadino italiano di fede islamica, avendo verificato che nelle aule della scuola elementare frequentata dai suoi due figli erano esposti i SOLI crocifissi cattolici, chiese ad una maestra di poter appendere un versetto del Corano, reclamando così la stessa dignità e gli stessi diritti di libertà religiosa che lo Stato italiano accorda ai cattolici.
(2) La maestra in questione, ritenendo che anche gli islamici fossero esseri umani e godessero dello stesso diritto di libertà religiosa accordato ai cattolici, autorizzava di buon grado l’esposizione di quell’indecifrabile versetto arabo.
(3) Il giorno successivo, tuttavia, il direttore scolastico ordinava l’immediata rimozione del versetto coranico perché “offendeva la sensibilità dei cattolici.”
(4) Il cittadino italiano Adel Smith, ritenendo che questo comportamento discriminatorio ledesse i diritti di libertà religiosa dei figli ed il suo diritto di impartire ai minori un’educazione conforme ai propri convincimenti, attivava un ricorso d’urgenza dinanzi al Tribunale civile dell’Aquila.
(5) Il ricorso veniva deciso dal dott. Mario Montanaro che, essendo per un deprecabile accidente un magistrato informato al rispetto della Costituzione italiana e della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, ordinava la rimozione dei crocifissi dalla scuola elementare di Ofena con un’ordinanza, pregevolissima, depositata il 23 ottobre 2003.
(6) Questa decisione suscitava le ire delle più Alte Cariche Istituzionali della Repubblica Pontificia italiana e cioè del Papa, della C.E.I., del Capo del Governo, del Presidente della Repubblica, del Ministro di Giustizia e di quasi tutti i parlamentari, i quali all’unisono consideravano “oltraggiosa” l’idea che uno schifoso musulmano potesse accampare la stessa “dignità” e gli stessi diritti dei cittadini di “superiore religione cattolica”.
(7) Il dott. Montanaro veniva sottoposto ad un linciaggio mediatico feroce, beccandosi epiteti come “pazzo”, “incompetente” ed “esibizionista”, e veniva fatto oggetto di minacce di morte da parte di anonimi e vigliacchi cattolici.
(8) Il Presidente della Repubblica Ciampi tuonava contro il giudice Montanaro, auspicando che l’ordinanza venisse sollecitamente annullata dal Tribunale in sede di riesame: il dictat veniva immediatamente esaudito.
(9) Il Ministro di Giustizia Ing. Castelli, senza nemmeno leggere l’ordinanza, disponeva un’immediata ispezione a carico del dr. Mario Montanaro, imputandogli l’addebito di aver preso un provvedimento “abnorme”.
(10) L’Ispettore Capo dott. Giovanni SCHIAVON (cfr. il doc. n. 3, sottofascicolo Ispezione Min. Castelli, prodotto dal ricorrente Luigi Tosti) prospettava l’opportunità di un procedimento disciplinare, bollando il dr. Mario Montanaro come un magistrato affetto da “deplorevole narcisismo giudiziario” e da “recondito desiderio di protagonismo, anche se in parte giustificato dalla sua giovane età”, che “non aveva tenuto in considerazione le inopportune e laceranti conseguenze di conflittualità” che il suo provvedimento avrebbe arrecato ai razzisti cattolici (per inciso: il provvedimento “abnorme” del dr. Montanaro è stato pedissequamente condiviso, dopo sei anni, dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo!)
(11) Una “confraternita” di razzisti cattolici, autorizzata dalla compiacente Amministrazione del Comune di Ofena nel tempo record di due giorni, erigeva un’orrenda croce in ferro, alta più di tre metri, davanti all’ingresso della scuola frequentata dai due piccoli sporchi islamici: il tutto in rigoroso spregio dei vigenti vincoli paesaggistici e con la connivente inerzia dell’autorità giudiziaria penale.
(12) Il Sindaco di Ofena, ispirato dalle sue “sane” radici cattoliche, dichiarava durante la trasmissione televisiva “La vita in diretta” che avrebbe regalato ai compagni di classe dei figli di Smith dei vistosi crocifissi, da appendere al collo, in modo che i bimbi islamici potessero averli ossessivamente davanti agli occhi durante la loro permanenza nella scuola.
(13) Sempre su “lodevole” iniziativa dell’Amministrazione clerico-catto-fascista di Ofena, le facciate del centro abitato venivano dipinte con immensi murales raffiguranti crocifissi ed altre ciclopiche immagini “sacre” del buon “Dio degli eserciti”.
(14) L’Amministrazione comunale realizzava anche una colossale “Via Crucis”, con una trentina di “stazioni”, dipanantesi nel centro abitato di Ofena, acciocché i due bimbi musulmani vi passassero, a mo’ di forche caudine, durante i loro quotidiani tragitti scolastici.
(15) Tutto questo si consumava in mezzo all’assordante inerzia delle Autorità Giudiziarie.
(16) I parlamentari della Repubblica italiana e i Sindaci dei Comuni, poi, gareggiavano nel presentare arguti disegni di legge per introdurre, financo con norme di revisione costituzionale, l’obbligo della presenza dei crocifissi cattolici in tutti gli uffici pubblici, ivi incluse le latrine: carcere duro, salatissime sanzioni pecuniarie, roghi ed autodafé venivano comminati a chi avesse osato rimuoverli o non esporli.
(17) Infine, diverse amministrazioni regionali ed alcuni Ministri della Colonia Vaticana sperperavano centinaia di migliaia di euro degli italiani per acquistare nugoli di crocifissi, il cui compito istituzionale era quello di “tenere alla larga gli sporchi musulmani”, né più né meno di quanto sono deputate a fare, in Transilvania, le “vampirifughe” trecce d’aglio.
IL FATTO
1°) Cinque giorni dopo la pubblicazione dell’ordinanza del dr. Montanaro - e cioè il 28 ottobre del 2003- alcuni avvocati del Foro di Camerino si lamentavano col dr. Luigi Tosti per l’improvvisa comparsa di un vistoso crocifisso su di una parete laterale dell’aula d’udienza, adombrando l’ipotesi che vi fosse stato affisso per polemica reazione contro il recente provvedimento del giudice aquilano.
2°) Ritenendo fondata questa lamentela, il dr. Tosti staccava il crocifisso, allontanandosi poi dall’aula per altre incombenze.
3°) Di lì a poco sopraggiungeva il Cancelliere Rag. Crucianelli Ermanno, di fede cattolica, che chiedeva agli avvocati chi avesse rimosso il crocifisso: pur avendo appreso che il distacco era opera del giudice, il Rag. Crucianelli lo riappendeva al chiodo, infischiandosene della circostanza che la direzione dell’udienza era una prerogativa del giudice, e non la sua (artt. 168 e 175 c.p.c.).
4°) Rientrato in aula, il dr. Tosti veniva avvisato dagli avvocati del gesto compiuto dal Cancelliere. Chiesti chiarimenti, il rag. Crucianelli affermava, con visibile risentimento, che la “legge consentiva solo ai cattolici il privilegio di esporre i simboli religiosi” (cfr. le risposte che il Crucianelli non ha potuto rendere sul punto perché la sua testimonianza non è stata ammessa dal Presidente della Sezione Disciplinare avv. Mancino per toglierlo dall’imbarazzo).
5°) All’obiezione del dr. Tosti che anche i cittadini di altre religioni o non credenti avevano gli stessi diritti, il Rag. Crucianelli replicava al Tosti con questa boriosa risposta: “Questi sono problemi suoi” (cfr. doc. n. 2 del sottofascicolo “Ispezione Ministro Castelli” dell’incolpato Tosti, nonché le risposte che il Crucianelli non ha reso perché se ne è impedita l’audizione).
6°) A quel punto il dr. Tosti, pur potendo far valere le sue prerogative di supremazia gerarchica, preferiva chiedere l’intervento del Presidente del Tribunale dr. Aldo Alocchi: questi, però, essendo anch’egli di superiore fede cattolica, condivideva l’operato del Crucianelli (cfr., sul punto, le non risposte del teste Aldo Alocchi, anch’esso opportunamente non ammesso dal Presidente Mancino per evitargli di rispondere a domande imbarazzanti).
7°) Dopo aver accertato che l’ostensione dei crocifissi nelle aule di giustizia era imposta soltanto dalla circolare del Ministro fascista Rocco del 29.5.1926 n. 2134/1867 (“Prescrivo che nelle aule di udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all’effige di Sua Maestà il Re sia restituito il Crocefisso, secondo la nostra antica tradizione. Il simbolo venerato sia solenne ammonimento di verità e giustizia), il dr. Tosti inoltrava il 31.10.2003 al Ministro di Giustizia, al Presidente del Tribunale ed al Presidente della Corte di Appello una richiesta di rimozione dei crocifissi esponendo:
a) che questa circolare violava il principio di legalità amministrativa (art. 97 Cost:) perché non esisteva alcuna legge che autorizzasse il Ministro di Giustizia ad esporre simboli religiosi;
b) che la presenza dei crocifissi violava il principio supremo di laicità, come peraltro affermato dalla IV Sezione della Cassazione penale nella sent. 1.3.2000 n. 4273, imp. Montagnana;
c) che l’imposizione della presenza generalizzata dei crocifissi violava i diritti primari di libertà religiosa e di eguaglianza dei cittadini e dei dipendenti non credenti o di altra fede;
d) che la necessità di chiedere la rimozione dei crocifissi -per far valere il rispetto del principio di laicità e dei propri diritti inviolabili di libertà religiosa- cagionava anche la violazione del diritto (negativo) di non essere costretti a manifestare i propri convincimenti religiosi e/o di pensiero.
8°) A questa missiva rispondeva con nota del 10.11.2003 soltanto il Presidente della Corte di Appello che, dopo aver espresso il parere che i crocifissi potevano essere rimossi solo dalla Commissione di manutenzione del Tribunale di Camerino, interpellava il Ministro di Giustizia per sapere se la circolare del 1926 fosse o meno ancora in vigore: ovviamente il Ministro si guardava bene dal rispondere.
9°) Il dr. Tosti replicava con missiva del 9.12.2003 (doc. n. 3 fasc. dell’incolpato), nella quale ribadiva la richiesta di rimuovere i crocifissi o, in via alternativa, di poter esporre a fianco del crocifisso la sua menorà ebraica, “osando” in tal modo rivendicare la stessa dignità e gli stessi diritti accordati ai cattolici.
10°) Con nota del 23.12.2003 il Presidente del Tribunale di Camerino Dott. Aldo Alocchi respingeva la richiesta di rimozione dei crocifissi affermando, in totale spregio della sentenza della Cassazione penale n. 4273/2000, che “la circolare costituiva una norma interna tuttora vigente, in quanto né revocata o modificata, né annullata per illegittimità”.
11°) Il Ministro di Giustizia Ing. Roberto Castelli non rispondeva a nessuna delle missive e, anzi, disponeva un’ispezione a carico del Tosti, che era costretto a recarsi presso l’Ispettorato del Ministero di Giustizia, a Roma, per rispondere ad un serrato interrogatorio sull’episodio del “distacco sacrilego del crocifisso dal muro”, nel corso del quale veniva financo inquisito sui suoi orientamenti religiosi.
12°) Tutt’altro che intimorito, il dr. Tosti in data 1.4.2004 inoltrava al Ministro di Giustizia, al Presidente del Tribunale di Camerino, al Presidente della Corte d’Appello e, per conoscenza, al Procuratore della Repubblica di Camerino un’ulteriore missiva con la quale preannunciava che avrebbe esposto nelle aule del Tribunale, a decorrere dal 5.4.2004, la sua menorà, rivendicando in tal modo il rispetto della sua dignità e dei suoi pari diritti di libertà religiosa.
13°) Avendo successivamente appreso che il Sig. Adel Smith intendeva aggregarsi all’iniziativa, il magistrato recedeva dal proposito per motivi di opportunità.
14°) Nell’aprile 2004 attivava un ricorso al TAR delle Marche col quale chiedeva, anche in via di urgenza, la rimozione del crocifisso da tutte le aule giudiziarie italiane, rappresentando che solo per senso civico aveva sino ad allora desistito dal rifiutarsi, per libertà di coscienza, di espletare le sue mansioni lavorative in conformità dei principi affermati dalla Cassazione penale nella decisione n. 4273/2000, laddove era stato sentenziato che “costituisce giustificato motivo di RIFIUTO dell’ufficio di presidente, scrutatore o segretario di seggio elettorale la manifestazione della LIBERTA’ di COSCIENZA, il cui esercizio determini un conflitto tra la PERSONALE ADESIONE al PRINCIPIO SUPREMO di LAICITA’ dello STATO e l’ADEMPIMENTO dell’INCARICO A CAUSA dell’ORGANIZZAZIONE ELETTORALE in relazione alla PRESENZA, nella DOTAZIONE OBBLIGATORIA di ARREDI dei LOCALI destinati a seggi elettorali, del CROCIFISSO o di altre immagini religiose”.
15°) Il Ministero di Giustizia si costituiva dinanzi al TAR, asserendo che l’esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie era legittima perché “l’art. 19 della Costituzione attribuiva a “tutti” -e quindi anche allo Stato Italiano (n.d.r.: “laico”!!)- il “diritto di professare in pubblico la propria fede”.
16°) Con ordinanza del 22.9.2004 il TAR delle Marche respingeva l’istanza cautelare perché riteneva che il preannunciato rifiuto del dr. Tosti di tenere le udienze non avrebbe arrecato alcun danno grave o irreparabile.
17°) Il dr. Tosti Luigi, allora, anziché astenersi dalla trattazione delle udienze preferiva esporre nelle aule di udienza il logo di un’associazione laica (UAAR), alla quale aveva nel frattempo aderito. Il Presidente del Tribunale dr. Aldo Alocchi ordinava la loro immediata rimozione e custodia in armadio blindato.
18°) Chiesti chiarimenti sul “perché” di questa rimozione, al dr. Tosti veniva risposto che “i simboli degli ebrei e degli atei non potevano essere esposti nelle aule di giustizia perché offendevano la sensibilità dei cattolici” (si leggano, sul punto, le deposizioni testimoniali che il dr. Aldo Alocchi non ha potuto rendere, perché il Presidente Avv. Nicola Mancino non ne ha ammesso l’esame testimoniale per sottrarlo a domande imbarazzanti da parte dell’incolpato Tosti).
19°) Il Ministro di Giustizia Castelli disponeva una seconda ispezione a carico del Tosti per inquisirlo in merito all’esposizione dei loghi dell’UAAR nelle aule di udienza.
20°) A dar man forte a questa criminale “discriminazione religiosa di Stato” si aggiungevano numerosi anonimi “cattolici” che, irritati dalla “pretesa” del Tosti di esporre l’infima menorà ebraica a fianco del sacro crocifisso, iniziavano a tempestarlo con lettere anonime con le quali si profondevano in ingiurie, minacce ed “eleganti” eloqui del tipo (cfr. sottofascicolo “E” del dr. Tosti, titolato “lettere anonime di cattolici”): “affiancare al Cristo il simbolo di coloro che ne sono divenuti carnefici è un sacrilegio che offende Gesù Cristo, esaltando un popolo che si è macchiato di un orrendo delitto contro Dio”; “crepa porco ateo terrorista. Comunista bastardo, porco musulmano del cazzo con moglie troja”, “ti spediremo ad Allah, fai testamento, preferisci essere ucciso con ago intinto a veleno o con una pallottolina calibro 227 o 30-06 per cinghiale?”; “Porco ateo terrorista, comunista bastardo: il crocifisso non si tocca. Se non lo vuoi, sparati, giudice del cazzo. Porco musulmano del cazzo con moglie troia, bastardo come Adel Smith. Bestemmiatore maiale, crepa”; “Visto che il crocifisso ti apporta fastidio, guarda il Corano, perché ti spediremo ad Allah!! Devi sparire da Camerino e dall’Italia, e subito!! Se non l’hai fatto, fai testamento, perché la tua ora sta arrivando. Fatti scortare!! Allah ti abbia in gloria!! Il tuo emigrare potrà aiutarti a salvarti, altrimenti.......”; “Che Dio ti stramaledica per tutta la tua esistenza. Sei un lurido sporco uomo comunista e delinquente. Speriamo che prima possibile il crocifisso ti porti via da questo mondo.....sono secoli e secoli che il crocifisso sta lì. Tu gli vuoi cambiare posto. Fai schifo al mondo intero”: “Egregio signore, mi vergogno per lei che sia rimasto in Italia, invece di andare via in qualsiasi altro posto dove lo accoglierebbero a braccia aperte per le sue insulse idee. Vede, noi andiamo d’accordissimo con gli ebrei e con tutti, purché rispettino le nostre normative e si comportino decentemente; “Sei un rinnegato e infame. Actung: ti taglieremo quella testa di cazzo che hai”; “Tosti, sei una faccia di cazzo e sei pure uno stronzo”; “Tosto Tosti, vi do del voi come si usava fare con i lacchè ed i mezzadri perché non meritate né il nobile lei né l’amichevole tu. Siete un bambino un po’ ritardato mentalmente, cocciuto e cretino. Peccato che non esista più il Tribunale del Santo Uffizio per il motivo che assisterei con piacere all’auto da fe’ e conseguente rogo.....”; “Ma è possibile che ci si mettano anche gli ebrei a contestare il nostro crocifisso? Ma non si rende conto che nessuno si può permettere di contestare la nostra cultura, la nostra religione? Tutti coloro che non si trovano bene nel nostro paese, che hanno pretese assurde, perché non se ne vanno nei paesi più consoni alla loro natura? siamo italiani, siamo cattolici e il nostro simbolo deve rimanere dove è sempre stato. Il razzismo, caro giudice, lo avete creato voi con l’olocausto e lo create, imperterriti, nel vostro odio viscerale contro gli islamici, stessa razza, e verso i cattolici.... Se lei è ebreo, perché non va ad abitare in Israele, così potrà vedere il suo simbolo in ogni luogo? Lei vive in Italia, esercita in una nazione sì laica, ma con profonde radici cristiane cattoliche....Inoltre, quando non ci si trova bene in un posto, se si è persone oneste e degne di rispetto (parole per lei aliene) SI DANNO LE DIMISSIONI e si parte per la nazione amata. Comodo lucrare sul popolo e pretendere che, per far piacere a lei, noi cattolici si debba togliere il nostro crocifisso per non disturbare la sua mente”.
21°) Essendo oramai divenuti intollerabili gli atti di “razzismo” religioso perpetrati dall’Amministrazione giudiziaria e condivisi da anonimi razzisti cattolici, il dr. Tosti inoltrava al Ministro di Giustizia e al Presidente del Tribunale camerte una lettera/ultimatum, datata 1.5.2005, con la quale, dopo aver ribadito la richiesta di rimozione di tutti i crocifissi o, in alternativa, di essere autorizzato ad esporre la propria menorà ebraica a fianco dei crocifissi, preannunciava che, se non fosse stata accolta nessuna delle due richieste, sarebbe stato costretto a rifiutarsi di tenere le udienze civili e penali “DAL 9 MAGGIO 2005 IN POI, sia per salvaguardare i propri diritti di libertà e di eguaglianza religiosa, sia per non violare il principio supremo di laicità sancito dalla Costituzione. Con questa missiva il Presidente del Tribunale di Camerino veniva formalmente invitato a provvedere alla sua eventuale sostituzione “dal 9 maggio in poi”.
22°) Non avendo ottenuto risposta, il dr. Tosti iniziava a rifiutarsi di tenere le udienze: il Presidente del Tribunale provvedeva ovviamente a disporre la sostituzione del dipendente con altri magistrati, dapprima per le singole udienze e, poi, con provvedimenti generalizzati.
23°) In occasione delle udienze calendarizzate il dr. Tosti si presentava regolarmente in ufficio, pronto a riprenderne la trattazione se fosse stata nel frattempo accolta una delle due richieste: in queste occasioni stilava delle dichiarazioni, indirizzate al Ministro di Giustizia e al Presidente del Tribunale, con le quali comunicava di non aver tenuto quel dì l’udienza per i motivi esposti nella lettera del 1°.5.05, reiterando ogni volta l’invito ad accogliere una delle sue richieste per consentirgli di riprendere l’attività.
24°) Durante la permanenza in ufficio il dr. Tosti seguitava, ovviamente, ad espletare tutte le altre incombenze di cui era onerato.
25°) Con nota comunicata il 26.5.2005 (doc. 16 fasc. “A” dell’incolpato Tosti) il Presidente del Tribunale invitava il dr. Tosti a tenere le udienze nella sua stanza o in altra senza crocifisso.
26°) Con nota dello stesso giorno (doc. 17 fasc. “A” del Tosti) questo invito veniva immediatamente respinto perché “si risolveva in una sostanziale “ghettizzazione” del dipendente pubblico, che non si identificava in quel simbolo, in locali “diversi” da quelli destinati ai “privilegiati”, cioè ai dipendenti cattolici”.
27°) Con nota del 19.7.2005 (doc. n. 19 fasc. Tosti) il Presidente del Tribunale dr. Alocchi, dopo aver informato il dr. Tosti che era “in corso l’allestimento di un’aula senza crocifisso”, lo invitava formalmente a tenervi le udienze sino a che non fosse stata definita la vertenza giudiziaria (in pratica, sino al suo pensionamento, visto e considerato che il ricorso pende ancora dinanzi al Consiglio di Stato), asserendo che l’aula sarebbe stata a disposizione anche degli altri magistrati, sicché non si sarebbe potuto affermare che sussisteva la discriminatorietà della precedente proposta
28°) Con nota del 7.8.2005 il dr. Tosti respingeva questa “proposta”, ribadendone le palesi connotazioni discriminatorie, la contraddittorietà, l’illegittimità e la perfetta inutilità ai fini della soluzione del problema e, comunque, “dichiarando la sua assoluta disponibilità a riprendere immediatamente la trattazione delle udienze, purché l’Amministrazione avesse invertito i termini della proposta, e cioè avesse provveduto a sostituire gli attuali crocifissi con altrettante menorà ebraiche nelle aule “ufficiali”, escludendo qualsiasi addobbo religioso solo per la “nuova” aula in allestimento”.
29°) Il Presidente del Tribunale, per “compensare” il minor carico di lavoro conseguente a questo rifiuto, gravava immediatamente il dr. Tosti di nuove mansioni, attribuendogli le “funzioni di giudice tutelare, in sostituzione della dott.ssa Rotunno, nonché tutti i ricorsi ingiuntivi e di tutti i ricorsi cautelari” attribuiti agli altri magistrati.
30°) Il Procuratore della Repubblica dell’Aquila, informato dei fatti, anziché perseguire penalmente il Ministro di Giustizia per gli atti di discriminazione religiosa ai danni del dipendente, attivava diversi procedimenti penali a carico della vittima, cioè del dr. Tosti, incriminandolo dei reati di omissione di atti di ufficio p. e p. degli artt. 81, 328 c.p.
31°) La Procura Generale della Cassazione, dopo essere stata informata dei fatti e, in particolare, dell’apertura dei procedimenti penali, attivava il 22.9.2005 un procedimento disciplinare e, poi, chiedeva la sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio.
32°) Con delibera presa il 31.1.2006 la Sezione disciplinare del CSM disponeva la sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio del dr. Luigi Tosti.
33°) Ritenendo che questa pregevole ordinanza fosse totalmente favorevole alle proprie tesi -ancorché affetta da un evidente errore di diritto- il dr. Tosti la produceva nel giudizio penale d’appello a corredo di “motivi aggiunti” coi quali evidenziava che il CSM, pur avendo ritenute fondate le sue pretese di rimozione dei crocifissi, aveva ritenuto ingiustificato il suo rifiuto perché aveva erroneamente equiparato il caso del giudice tutelare che non voleva autorizzare una minorenne ad abortire -e che era un evidente caso di “obiezione di coscienza”- al proprio “caso” che, al contrario, integrava un’ipotesi di “diritto di libertà di coscienza”, assimilabile, semmai, al caso dei testimoni che si erano legittimamente rifiutati di giurare a causa dei riferimenti a Dio contenuti nella formula del giuramento, venendo poi “assolti” dalla Corte Costituzionale perché il rifiuto era stato necessitato dall’esigenza di evitare la lesione del diritto primario di libertà religiosa (sent. n. 117 del 1979).
34°) Con sentenza del 17 febbraio del 2009 la VI Sezione della Corte di cassazione assolveva il Tosti dalla prima condanna con la formula “il fatto non sussiste”. La Corte, in particolare, affermava che tutte le udienze erano state regolarmente tenute dai magistrati che avevano sostituito il dr. Tosti, dopo che questi aveva tempestivamente manifestato la ferma volontà di non tenerle: non esisteva dunque alcuna “udienza” che fosse stata realmente omessa o ritardata nei confronti dei cittadini a causa del suo rifiuto ma, semmai, sussisteva (a monte) “un inadempimento di un dovere funzionale di servizio che poteva trovare risposta solo sul piano disciplinare”.
35°) La Procura Generale della Cassazione promuoveva in data 27 marzo 2009 un secondo procedimento disciplinare col quale, traendo lo spunto da una seconda condanna penale, incolpava il dr. Tosti di essersi astenuto dalla trattazione delle udienze dell’8, 12 e 13 luglio, del 27 settembre, del 3 e 14 ottobre, del 15 novembre 2005 e del 4 e 16 gennaio 2006 “con “dichiarazioni di rifiuto” rese sovente nello stesso giorno di trattazione, così determinando la necessità di immediate sostituzioni”.Con atto datato 22.9.2009 i procedimenti disciplinari venivano riuniti. Il Sost. Proc. Generale ometteva di espletare le attività istruttorie richieste e chiedeva il rinvio a giudizio: il Presidente della Sezione disciplinare fissava la discussione per l’udienza del 22 gennaio 2010.
36°) Con istanza dell’8 gennaio 2010 l’incolpato presentava la propria lista testimoniale, indicando le circostanze di fatto sulle quali essi avrebbero dovuto deporre, ed avanzava in via anticipata la richiesta di proprio esame. Con provvedimento del 18.1.2010 il Presidente respingeva la richiesta di audizione dei testi perché “tutti i fatti erano stati già oggetto di accertamento in sede penale”, asserendo che “la richiesta d’esame era nella facoltà dell’incolpato”.
37°) All’udienza del 22.1.2010 l’incolpato rinunciava in via pregiudiziale alle eccezioni di decadenza e prescrizione (ma non a quelle di giudicato penale) perché riteneva che un’assoluzione per motivi formali sarebbe stata immorale e avrebbe rappresentato un insulto ai contribuenti italiani. Ai fini dell’istruzione dibattimentale il dr. Tosti produceva documenti e reiterava la richiesta del proprio esame: su quest’ultima richiesta il CSM obliterava qualsiasi pronuncia.
38°) In esito al dibattimento, il ricorrente veniva condannato alla rimozione.
Il regime processuale del presente ricorso.
L’art. 32 bis del D. Lgs. 23.2.2006 n. 109, introdotto dalla legge 24.10.2006 n. 269, dispone al primo comma che “le disposizioni di cui al presente decreto si applicano ai procedimenti disciplinari promossi a decorrere dalla data della sua entrata in vigore”, cioè dal 19.6.2006. Nel caso di specie vi sono due procedimenti disciplinari: l’uno promosso in data anteriore al 19.6.2006 (il proc. n. 22/05), per il quale si applica la disciplina sostanziale e processuale previgente (ricorso per cassazione col rito civile); l’altro (il n. 37/2009) promosso in data successiva (marzo 2009) ma avente per oggetto fatti anteriori al 19.6.2006, per il quale dovrebbe applicarsi la nuova disciplina del ricorso per cassazione col rito penale e, sotto il profilo sostanziale, la disciplina di maggior favore. Si pone pertanto il problema di stabilire se il regime processuale dell’impugnazione della sentenza disciplinare sia quello previgente (ricorso alle SS.UU. col rito civile) o quello attuale (ricorso alle SS.UU. col rito penale).
La Sezione disciplinare, partendo dal rilievo che “si tratta di comportamenti della stessa natura e tenuti senza soluzione di continuità, ragione per la quale non si giustificherebbe una applicazione di regimi processuali e sostanziali diversi”, ha optato per la prima soluzione, sancendo che “deve perciò considerarsi di maggior favore l’applicazione dell’art. 18, regime che peraltro disciplinerebbe l’intero procedimento anche ove si dovesse ritenere che la riunione avvenuta con la nuova formulazione della contestazione il 12 settembre 2009 ha determinato la confluenza e l’assorbimento del procedimento più recente in quello più risalente.”
Al di là della correttezza di tale motivazione per ciò che concerne la disciplina sostanziale degli illeciti disciplinari (in realtà i regimi possono essere diversi, se gli illeciti sono stati compiuti sotto la vigenza di norme diverse, cfr. SS.UU. civili, sent. n. 28871/2008), il ricorrente ritiene che debbano essere condivise le statuizioni secondo cui il regime processuale non può che esser unico e che nel caso di specie il processo sia disciplinato dalla normativa pregressa, dal momento che per effetto del provvedimento di riunione del 22.9.2009 il procedimento più recente è confluito in quello più risalente, rimanendone assorbito. Questa soluzione deve ritenersi ancor più valida se si considera che anche il secondo procedimento disciplinare si riferisce a fatti pregressi all’entrata in vigore della nuova normativa sugli illeciti disciplinari.
Confortano queste conclusioni le sentenze delle Sez. Unite civili nn. 20.603/2007, 20.601/2007,. 24.669/2007 e 28.871/2008 che hanno sancito che “i provvedimenti emessi nei procedimenti disciplinari promossi anteriormente al 19.6.2006 sono impugnabili, innanzi alle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, nelle forme previste dal codice di rito civile e nel termine di cui al D.P.R. n. 916 del 1958, art. 60, tanto nel caso in cui il provvedimento sia stato pronunciato prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 109, quanto nel caso in cui esso sia stato pronunciato successivamente”.
Il ricorrente ritiene, poi, che alla celebrazione del dibattimento del presente procedimento disciplinare debbano essere applicate le norme del nuovo codice di procedura penale (che in ogni caso sono state di fatto applicate dalla Sezione disciplinare) perché l’art. 34 del R.D.L. n. 511, che sancisce genericamente che nella discussione nel giudizio disciplinare “si osservano, in quanto compatibili....., le norme dei dibattimenti penali”, va collegato al disposto dell’art. 17 del D.Lgs. n. 273/1989 (modif. dall’art. 1 del D.L. n. 418/1991 e dall’art. 1 del D.Lgs. n. 410/1992) che ha sancito che “fino alla data di entrata in vigore della legge di riforma della procedura relativa alla responsabilità disciplinare dei magistrati e comunque non oltre il 31.12.1994.....i rinvii al codice di procedura penale si intendono riferiti al codice abrogato”. Da tali norme si deduce che dal 1° gennaio 1995 -e comunque dal 19.6.2006, data di entrata in vigore della riforma della responsabilità disciplinare- il dibattimento deve ritenersi disciplinato dal nuovo codice di procedura penale. I riferimenti normativi corretti dovrebbero dunque essere quelli del “nuovo” C.P.P.: in ogni caso, per evitare qualsiasi problematica saranno richiamati sia i riferimenti normativi del vecchio che quelli del nuovo codice.
Infine si evidenzia che il termine per ricorrere per cassazione è di giorni 60 e decorre dalla notifica della sentenza che, nel caso di specie, è avvenuta ex art. 140 c.p.c., e cioè con deposito nella casa comunale e con invio dell’avviso di deposito in plico raccomandato con a.r., a causa della temporanea assenza del destinatario Luigi Tosti. Detto plico, come risulta dalla ricevuta di ritorno, è stato spedito il 6 luglio 2010 e consegnato il 9 luglio successivo, sicché la notifica si è perfezionata in tale data: l’art. 140 c.p.c., infatti, è stato dichiarato incostituzionale con sentenza n. 3 dell’11.1.2010 nella parte in cui non prevede che la notifica si perfezioni, per il destinatario, dalla data di ricezione della raccomandata o, comunque dieci giorni dopo la spedizione della raccomandata, piuttosto che dalla data di spedizione della raccomandata. Il plico è stato spedito il 6 luglio e ricevuto il 9, sicché la notifica si è perfezionata il 9 luglio 2010.
Pertanto il termine di giorni 60, tenuto conto della sospensione feriale dei termini dal 1°.8.2010 al 15.9.2010, scade il 23 ottobre 2010:Trattandosi però di sabato (e questo risulta dal calendario prodotto in giudizio dal Tosti e che nuovamente si produce) ed essendo il sabato seguito di regola dalla domenica, giorno festivo ex lege, il termine utile per la proposizione del ricorso per cassazione scade il giorno 25 ottobre, ex art. 155 4° e 5° comma c.p.c.
L’ORDINANZA DI SOSPENSIONE CAUTELARE DELLA SEZIONE DISCIPLINARE DEL PRECEDENTE CSM.
La Sezione disciplinare del precedente CSM nel deliberare la sospensione cautelare del Tosti ha correttamente assolto l’obbligo di DECIDERE tutte le questioni prospettate, MOTIVANDO la decisione con passaggi logici e giuridici che, seppur inficiati da errori di diritto, sono assolutamente lineari ed esauriscono pressoché compiutamente il thema decidendum.
E cioè:
1) ha correttamente inquadrato i termini della questione affermando che “il nucleo essenziale della posizione del dott. Tosti può identificarsi nella richiesta di rimozione del crocifisso da tutte le aule d’udienza italiane o nella richiesta di autorizzazione ad esporre la menorah”;
2) si è poi correttamente posta il quesito “se, in relazione a tali richieste, la sezione disciplinare dovesse valutarne o non la fondatezza”;
3) a questa domanda ha risposto positivamente, evidenziando che il “giudizio sulla fondatezza della pretesa” del Tosti era doveroso, ancorché “non decisivo”, “dovendosi comunque valutare le modalità di esercizio di tale pretesa e la compatibilità con i doveri nascenti dal rapporto di impiego”;
4) hanno poi eseguito un’accurata e approfondita disamina della “legittimità” della circolare del Ministro Rocco, pervenendo alle conclusioni che “la circolare del ministro della giustizia del 29 maggio 1926 n. 2134/1867 è un atto... privo di fondamento normativo e quindi contrastante con il principio di legalità dell’azione amministrativa, desumibile dagli articoli 97 e 113 Cost.”, che “la pretesa dell’incolpato di chiedere la rimozione generalizzata dei crocifissi appare convincente” perché “l’esposizione del crocifisso nella aule di giustizia, in funzione di solenne “ammonimento di verità e giustizia”, costituisce un’utilizzazione di un simbolo religioso come mezzo per il perseguimento di finalità dello Stato e, pertanto, appare in contrasto con il principio supremo di laicità dello Stato” e che “del pari persuasiva sembra l’affermazione che l’indicazione di un fondamento religioso dei doveri di verità e giustizia ai quali i cittadini sono tenuti, può provocare nei non credenti “turbamenti, casi di coscienza, conflitti di lealtà tra doveri del cittadino e fedeltà alle proprie convinzioni”;
5) per converso, hanno affermato che la pretesa subordina del Tosti di ottenere l’autorizzazione ad esporre la menorà ebraica era infondata, perché la scelta di attuare il principio di laicità con l’ “addizione” di altri simboli poteva essere fatta solo dal legislatore e, peraltro, si trattava di scelta incompatibile col rispetto del diritto (negativo) di libertà religiosa degli atei e degli agnostici;
6) dopo aver riconosciuto la “non manifesta infondatezza della tesi del dott. Tosti, relativa all’illegittimità della circolare 29 maggio 1926”, hanno ribadito che questo accertamento “non esauriva tuttavia l’ambito delle valutazioni alle quali la sezione disciplinare era tenuta, dovendosi anche accertare se l’inadempimento degli obblighi derivanti dal rapporto di impiego potesse ritenersi giustificato dal mancato accoglimento della pretesa alla rimozione del crocifisso”;
7) nel corso di questa ulteriore disamina, hanno affermato che era incontestabile che anche i magistrati fossero titolari dei diritti di libertà religiosa, di coscienza, di eguaglianza e di rispetto del principio supremo di laicità, ma hanno affermato, traendo lo spunto dalla sentenza n. 196/1987 della Corte Costituzionale, che questi diritti -che dovevano essere “bilanciati” con altri interessi costituzionali- divenivano recessivi rispetto alle esigenze di giustizia, sicché, in sintesi, il dr. Luigi Tosti non poteva sottrarsi alla lesione dei suoi diritti inviolabili e doveva “ubbidir tacendo”.
LA SENTENZA DI CONDANNA DELLA “NUOVA” SEZIONE DISCIPLINARE DEL CSM.
I giudici della “nuova” Sezione disciplinare avevano l’ “opportunità” di utilizzare l’ordinanza di sospensione cautelare per “condannare” il dr. Tosti. Questi, però, ha fondato le sue difese proprio su quell’ordinanza, condividendola ed evidenziando gli errori giuridici che erano stati commessi: emendati i quali, non rimaneva altra alternativa che assolverlo con formula piena.
La sezione disciplinare ha preferito condannare il dr. Tosti, rimuovendolo dalla magistratura. Ciò che sconcerta non è la “condanna”, ma la “motivazione” della condanna. Essa diverge infatti totalmente dalla motivazione dell’ordinanza di sospensione cautelare e, per altro verso, oblitera intenzionalmente di esaminare e di decidere tutte le eccezioni e tutti i rilievi esposti dall’incolpato nelle memorie, riducendo la partecipazione al processo del dr. Luigi Tosti al ruolo di spettatore e di larva spettrale. Altrettanto sconcertanti sono la superficialità, le contraddizioni, le illogicità e la cripticità che connotano la sentenza, sì da far fondatamente affermare che dopo la “LUCE” dell’ordinanza di sospensione si è precipitati nelle “TENEBRE” della sentenza di condanna.
QUATTRO sono i “POSTULATI” su cui, in estrema sintesi, si regge la motivazione:
1. il primo postulato afferma -in aperto contrasto con quanto statuito dai giudici della precedente Sezione- che il CSM non è tenuto a pronunciarsi sulla legittimità delle “giustificazioni” che hanno indotto il dr. Tosti a rifiutarsi di tenere le udienze, ovverosia se la presenza del crocifisso leda o meno il principio supremo di laicità e i suoi diritti fondamentali: questo thema decidendum sarebbe stato infatti estromesso dal processo in seguito alla “modifica” del capo d’incolpazione intervenuta il 22.9.2009.
2. Il secondo postulato si fonda sull’assunto che la predisposizione di un’aula senza crocifisso costituisce un rimedio idoneo a salvaguardare il diritto di libertà religiosa dei non cattolici: di qui la giustificazione della rimozione del Tosti, essendosi costui rifiutato di tenere le udienze.
3. Il terzo postulato si fonda sull’assunto che nessun funzionario -e tanto meno un magistrato- può intimare all’Amministrazione ultimatum, subordinando la prestazione di un servizio al loro accoglimento, qualunque sia l’oggetto della richiesta.
4. Il quarto postulato afferma che il dott. Tosti non poteva pretendere la rimozione dei crocifissi da tutte le aule italiane e da tutte le aule del Tribunale di Camerino, ma soltanto dalla singola aula in cui teneva fisicamente le udienze.
IL PRIMO POSTULATO
Questo postulato viene preannunciato in questi termini nella “motivazione” di rigetto delle istanze di riprese audiovisive (pag. 7): “nel caso in esame l’oggetto del giudizio disciplinare non è l’accertamento della liceità della presenza del crocifisso nelle aule, tema direttamente riferibile al contenuto di diritti fondamentali di generale interesse, ma assai più semplicemente la legittimità della reiterata sottrazione del dr. Tosti ai suoi doveri d’ufficio”.
Il che, in buona sostanza, equivale ad affermare che, se un magistrato si rifiuta di prestare servizio perché è in coma o in ferie o in congedo per maternità, al nuovo CSM poco interessa valutare le cause che hanno costretto il magistrato a non lavorare: l’unica indagine che va compiuta è infatti quella di stabilire se la prestazione di servizio era o meno un atto che rientrava nelle sue mansioni. Ebbene, se si considera che era ed è assolutamente pacifico che la tenuta delle udienze rientra tra le mansioni ordinarie di qualsiasi magistrato e che il dr. Tosti fondava la legittimità del suo rifiuto solo e soltanto sulle “giustificazioni” da lui addotte, questa affermazione del CSM costituisce un’anticipazione di giudizio di colpevolezza che è stata formulata dai sei giudici ancor prima dell’apertura del dibattimento.
Questo postulato viene poi ribadito in questi termini a pag. 13-14, sotto la rubrica significativamente titolata “L’oggetto del procedimento e la questione di principio addotta a motivazione della condotta contestata”:
“La questione generale relativa alla esistenza o meno di un obbligo di esposizione del crocifisso negli uffici pubblici e della attuale vigenza e legittimità delle disposizioni regolamentari che lo prescrivono è al centro di un dibattito culturale e giuridico ancora in atto e che va oltre il presente processo. Esso può essere richiamato al solo fine di inquadrare compiutamente, quanto meno ai fini della valutazione dell’elemento psicologico, la condotta dell’incolpato. Occorre tuttavia precisare che, come osservato dallo stesso Procuratore Generale in udienza, e come risulta con assoluta evidenza dall’ordinanza con la quale la sezione disciplinare ha a suo tempo disposto la sospensione del dott. Tosti, la verifica della compatibilità tra i principi della laicità dello stato e di libertà di fede religiosa da una parte e la collocazione del crocifisso nelle aule di giustizia non è l’oggetto proprio e neanche l’oggetto principale del presente procedimento, nel quale deve essere valutata la compatibilità del rifiuto di tenere udienza -determinato dal fatto che in altro luogo e nello stesso o in altro momento la giustizia sia amministrata in presenza del simbolo religioso- ed il (rectius: col) rispetto delle regole organizzative del servizio, dei doveri del magistrato e delle esigenze funzionali del corretto esercizio della giurisdizione.
Con questa criptica circonlocuzione la Sezione disciplinare conferma che essa non è chiamata a decidere il punto controverso prospettato dall’incolpato -e cioè “se la presenza dei crocifissi nelle aule giudiziarie, disposta dalla circolare fascista, leda o meno il principio supremo di laicità dello stato e i diritti di libertà religiosa del Tosti” (ci sarebbe in realtà da aggiungere anche il diritto di eguaglianza)- ma soltanto “se il dr. Tosti poteva rifiutarsi di tenere le udienze dopo che gli era stata messa a disposizione un’aula senza crocifisso”: questo, in effetti, è il significato da attribuire alla involuta espressione “compatibilità del rifiuto di tenere udienza -determinato dal fatto che in altro luogo e nello stesso o in altro momento la giustizia sia amministrata in presenza del simbolo religioso”.
Inizialmente il CSM non giustifica le ragioni di questo restringimento del thema decidendum, ma ha cura di richiamare sia le conformi “osservazioni del Procuratore Generale in udienza” sia quanto “risulta con assoluta certezza dall’ordinanza di sospensione cautelare del Tosti”.
Il primo richiamo del CSM è ovviamente inconsistente, perché le opinioni del P.G. non costituiscono “direttive” alle quali il CSM debba ottemperare. Il secondo richiamo desta invece notevole sconcerto, perché in realtà E’ ASSOLUTAMENTE FALSO che la “precedente” sezione disciplinare abbia asserito che non doveva essere vagliata la fondatezza delle pretese del Tosti di ottenere la rimozione dei crocifissi e, anzi, è vero l’esatto contrario: la precedente sezione disciplinare, infatti, non solo ha ritenuto doveroso questo accertamento, ma ha anche ritenuto che la pretesa di rimozione dei crocifissi da tutte le aule di giustizia italiane fosse fondata!!!!!
Il vero motivo del “restringimento” del thema decidendum viene svelato a pag. 21, laddove il CSM puntualizza che, “come osservato dal rappresentante della Procura Generale in udienza, la contestazione del 22 settembre modifica radicalmente la prospettiva giuridica dell’incolpazione focalizzando il disvalore della condotta nelle violazione delle regole organizzative e nella sottrazione alla prestazione del servizio. In entrambe le prospettive (quella della prima e quella della seconda formulazione della contestazione) la materialità dei fatti è sempre la medesima (il non aver tenuto le udienze con conseguente disservizio), ma mentre nella prima la motivazione della mancata prestazione del servizio era determinante (pur non essendo idonea ad escludere la illiceità disciplinare), nella seconda essa diventa un accidente, riconducibile alla categoria accessoria della mera motivazione, mentre oggetto della verifica giurisdizionale deve essere la reiterata e ingiustificata violazione dei doveri istituzionali e professionali di diligenza e laboriosità e delle disposizioni relative alla prestazione del servizio.”
In estrema sintesi, dunque, la limitazione del thema decidendum alla sola questione relativa alla “legittimità del rifiuto del Tosti di tenere le udienze anche nell’aula senza crocifisso” scaturisce -secondo il CSM- da una (supposta) modifica del capo d’incolpazione da parte del Proc. Gen. della Cassazione, che avrebbe espunto dal processo tutte le “motivazioni addotte dal Tosti a giustificazione del suo rifiuto”.
IL SECONDO POSTULATO.
A pag. 15 la sezione disciplinare afferma che “la presenza del crocifisso, indipendentemente dalla legittimità o vigenza della norma regolamentare che la prevede, non determina in sé, per il solo fatto di essere generalmente osservata (cioè osservata in altre aule, diverse da quella “dedicata” al dr. Tosti: n.d.r.) una lesione diretta del fondamentale diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione del dott. Tosti, che potrebbe essere messo in discussione solo se gli fosse imposto l’obbligo di esercitare la giurisdizione, in contrasto con le sue più profonde e radicate convinzioni, sotto la sua tutela simbolica. Tale preliminare precisazione appare indispensabile per collocare l’oggetto del giudizio nei suoi esatti confini, dovendosi chiarire, prima di affrontare i termini della questione così come richiamata dall’incolpato, che la stessa non attiene, se non quale retroterra motivazionale, ai fatti in contestazione e alla condotta rimproverata al dott. Tosti.”
Con questo brano involuto il CSM afferma, in sintesi, che il rifiuto di tenere le udienze non si giustifica, perché al Tosti fu offerto di tenerle in un’aula senza crocifissi e questo rimedio era idoneo a salvaguardare il suo diritto di libertà religiosa. Il CSM trascura, però, di vagliare le eccezioni sollevate dall’incolpato in merito all’assoluta inidoneità di questo rimedio a salvaguardare il rispetto del principio di laicità e dei suoi diritti di eguaglianza, di non discriminazione e di libertà religiosa sotto il profilo del non essere costretti a rivelare i propri convincimenti.
Questo postulato viene poi ribadito a pag. 21, laddove il CSM, dopo essersi posto il quesito “se la pretesa (rectius: se il mancato accoglimento della pretesa) da parte dell’incolpato della rimozione generalizzata del crocifisso possa legittimare una così ripetuta e prolungata assenza dal servizio”, fornisce un’immediata risposta negativa asserendo che “era sempre possibile al dott. Tosti tenere le udienze in una stanza priva di simboli religiosi”, che “tale soluzione gli era stata formalmente suggerita” e che, infine, “era stata messa a disposizione del Tosti e di tutti i magistrati che avessero preferito utilizzarla un’aula senza crocifisso del tutto omologa alle altre, sicché poteva celebrare l’udienza in condizioni di pari dignità con ogni altro componente del tribunale”. Queste considerazioni sulla idoneità del rimedio dell’aula-ghetto vengono nuovamente ribadite a pag. 22 con questo passo motivazionale: “la possibilità per il dott. Tosti di tenere tranquillamente le udienze, in condizioni di piena legittimazione anche sociale, in un’aula priva di simboli religiosi, rompe qualsiasi nesso tra l’esercizio in concreto delle funzioni e la violazione del suo fondamentale diritto di libertà di religione (o di libertà dalla religione) asseritamente derivante dalla presenza, altrove, di un crocifisso”.
TERZO POSTULATO
Con un evidente salto logico la sezione disciplinare afferma, a pagine 21-22, che il dr. Tosti con la lettera del 1° maggio 2005 ha inteso porre all’Amministrazione un ultimatum e che “a nessuno pubblico funzionario -e tanto meno ai magistrati- è dato di subordinare, in termini consoni a richieste ricattatorie ed estorsive, la prestazione doverosa del proprio servizio al soddisfacimento di pretese di carattere generale (cioè alla rimozione dei crocifissi da “tutte” le aule: n.d.r.), fossero anche mosse da motivazioni di carattere ideale, imponendo condizioni od ultimatum all’amministrazione di appartenenza. La possibilità del dr. Tosti di tenere tranquillamente udienza, in condizioni di piena legittimazione anche sociale, in un’aula priva di simboli religiosi, rompe qualsiasi nesso tra l’esercizio in concreto delle funzioni e la violazione del suo fondamentale diritto di libertà religiosa (o di libertà dalla religione) asseritamente derivante dalla presenza, altrove, di un crocifisso.
La pretesa di subordinare l’adempimento del proprio dovere alla eliminazione in tutte le aule d’Italia del simbolo religioso ha la stessa coerenza logica e la stessa consistenza giuridica della pretesa delle sua eliminazione dalle aule scolastiche o del rifiuto apposto da un professore di scuola di tenere lezione perché il crocifisso è, viceversa, affisso alla parete dell’aula di giustizia ove un qualunque magistrato tiene udienza.”
Questo postulato ricalca, in buona sostanza, il motto dell’“obbedir tacendo”. Il CSM si guarda bene dall’indicare quali siano i riferimenti normativi e le massime giurisprudenziali che lo supportano. Il che è sconcertante, perché il “nuovo” CSM aveva la possibilità di ricopiare le motivazioni che erano state addotte -sul punto- dai precedenti colleghi, e cioè che dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 196 del 1987 si ricavava il principio che i diritti inviolabili del dr. Tosti divenivano recessivi rispetto ad un altro valore costituzionale, quello dell’amministrazione della giustizia. Ebbene, l’aver scartato l’aurea opportunità di attingere alla vera motivazione per la quale il dr. Tosti è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio da circa cinque anni, la dice lunga sulla consapevolezza del CSM dell’inconsistenza giuridica di quella “motivazione”: non si giustifica, altrimenti, perché mai sia stata obliterata.
Comunque, con questo passo motivazione il CSM anticipa e conia anche il suo
QUARTO POSTULATO
cioè asserisce che il Tosti poteva pretendere la rimozione dei crocifissi SOLO per l’aula dove era chiamato a svolgere le funzioni: la pretesa di rimuoverlo da TUTTE le aule d’Italia viene invece considerata, con termine del tutto atecnico, una “questione di principio”, cioè un pretesa priva di fondamento giuridico e di conseguente tutela giurisdizionale.
Questa “opinione” del CSM viene confermata a pag. 15, laddove si afferma che “il dr. Tosti non aveva trovato nel circuito del controllo degli atti amministrativi una tutela soddisfacente e corrispondente alle sue aspettative, ma aveva mostrato di essere consapevole del fatto che la rimozione del crocifisso in aule diverse da quelle dove egli stesso esercitava la giurisdizione esulava in ogni caso dai suoi diretti poteri dispositivi.”
In estrema sintesi, dunque, il “nuovo” CSM ritiene (in pieno contrasto col precedente CSM) che la pretesa del Tosti di ottenere la rimozione di TUTTI i crocifissi a salvaguarda del principio supremo di laicità e dei propri diritti inviolabili di libertà religiosa e di eguaglianza sono delle mere “questioni di principio”, del tutto prive di un fondamento giuridico e di tutela giurisdizionale.
Questa opinione del CSM risulta confermata dal comunicato col quale il Presidente Avv. Nicola Mancino, subito dopo la condanna alla rimozione, ha dichiarato alla Stampa nazionale che «con l'intenzione di risolvere una questione di principio, il giudice Luigi Tosti s'era rifiutato di tenere udienza anche dopo che il Presidente del Tribunale gli aveva messo a disposizione un'aula senza il Crocifisso».
MOTIVI DEL RICORSO
- PRIMO MOTIVO -
Nullità della sentenza per violazione degli art. 185, n. 3, 145, 305 e 477 vecchio C.P.P. (corrispondenti agli articoli 178, lett. c), 121 e 522 nuovo C.P.P.), degli articoli 24 e 111 della Costituzione e degli articoli 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con legge 4.8.1955 n. 848 (art. 360 n. 4 C.P.C. in riferimento all’art. 112 c.p.c.).

SINTESI DEL MOTIVO - Il ricorrente è stato incolpato di essersi “ingiustificatamente” rifiutato di tenere le udienze e, poi, di aver persistito in questo rifiuto anche dopo che gli era stata offerta l’opportunità di tenere le udienze in un’aula senza crocifisso. Da questa accusa si è difeso -anche con memorie scritte- esponendo le ragioni che lo avevano costretto a rifiutarsi di tenere le udienze sotto l’imposizione dei crocifissi e a persistere nel rifiuto anche dopo che gli era stata allestita un’aula senza crocifisso. La Sezione disciplinare del CSM ha omesso di vagliare e di decidere tutte queste eccezioni difensive, violando così i diritti di difesa dell’incolpato e l’obbligo del giudice di pronunciarsi su tutte le eccezioni della parte e di motivare i provvedimenti giurisdizionali. La sentenza deve dunque ritenersi inficiata di nullità per violazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione, degli art. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, e del disposto dell’art. 178, lett. c) del nuovo c.p.p. (185 vecchio codice), secondo regulae iuris costantemente affermate dalla Cassazione civile e penale (in termini cfr. Cass. civ., SS.UU., sent. n. 967/2010).
ESPOSIZIONE DEL MOTIVO
(1) Con memoria del 16.1.2010 il dr. Tosti ha rappresentato alla Sezione disciplinare che essa “era chiamata a decidere la fondatezza o meno delle (medesime) questioni che aveva sollevato nel suo ricorso per cassazione e che la VI Sezione della Corte di Cassazione penale non aveva potuto affrontare e decidere nella sentenza assolutoria n. 28482/2009 perché aveva accolto il motivo, assorbente, dell’insussistenza materiale del reato”: produceva pertanto, “acciocché fossero considerate parti integranti della memoria, sia la copia del ricorso per cassazione che la copia della memoria presentata per la discussione” (cfr. memoria difensiva 16.1.2010 e relativi due allegati).
E, in effetti, era evidente che le “motivazioni” che il dr. Tosti aveva addotto in sede penale a “giustificazione” del suo “rifiuto di tenere le udienze” erano le stesse identiche “motivazioni” che aveva addotto in sede disciplinare a “giustificazione” del suo “rifiuto di tenere le udienze”, al punto tale che, se la Cassazione penale lo avesse assolto -ritenendo che il “rifiuto di tenere le udienze” era “giustificato” dalla necessità di sottrarsi alla lesione di diritti inviolabili- questa sentenza avrebbe spiegato (a maggior ragione) i suoi effetti nel procedimento disciplinare, precludendo dunque qualsiasi condanna per lo stesso comportamento di “rifiuto”. Se un magistrato viene ad esempio assolto dal delitto di omicidio per aver legittimamente reagito in stato di legittima difesa, non può essere condannato in sede disciplinare “perché ha ucciso un uomo per legittima difesa” ma, semmai, può essere censurato per le modalità con le quali ha esercitato il diritto (se, ad esempio, ha infierito sul cadavere).
(2) Con la stessa memoria ha eccepito (a pag. 5) che “attraverso la “modifica” dell’incolpazione, era stato intenzionalmente OBLITERATO UN FATTO VERO, e cioè che la sua condotta di rifiuto era “assertivamente motivata (non solo) dalla presenza del crocifisso nelle aule”, ma anche dalla “dalla mancata autorizzazione ad esporre, a fianco del crocifisso, la menorà ebraica”. Ha sottolineato che si trattava di una circostanza di rilevantissimo valore difensivo, perché la richiesta di esporre i propri simboli non solo era perfettamente accoglibile ma, anzi, era doverosa. La normativa costituzionale, la Convenzione sui diritti dell’uomo e la normativa penale vietavano, infatti, qualsiasi forma di discriminazione religiosa ai suoi danni e, per altro verso, l’art. 2 del D. Lgs. n. 216/2003 vietava qualsiasi forma di “discriminazione” da parte del datore di lavoro pubblico o privato, e cioè qualsiasi forma di “discriminazione diretta” (“quando, per religione...... una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga”) o “indiretta” (“quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione ...... in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”).
(3) Da quanto sopra esposto discende che i giudici della Sezione disciplinare erano obbligati a vagliare e a decidere tutte le eccezioni difensive che il dr. Luigi Tosti aveva addotto a sua discolpa nelle “memorie” e, in particolare, dovevano decidere se la circolare del Ministro fascista ledesse o meno i suoi diritti primari di libertà e di eguaglianza religiosa e la sua prerogativa di rispetto del principio supremo di laicità e, in caso positivo, se il rifiuto di tenere le udienze integrasse l’esercizio di un diritto altrettanto inviolabile.
(4) Nel motivare la condanna del ricorrente, però, la “nuova” Sezione disciplinare del CSM ha deliberatamente OMESSO di vagliare e decidere tutte le eccezioni che l’incolpato aveva addotto nelle sue memorie difensive, smentendo così l’operato dei giudici della Sezione disciplinare del precedente CSM, che avevano invece diligentemente e doverosamente vagliato e deciso nell’ordinanza di sospensione cautelare del 31.1.2006 le tesi difensive dell’incolpato.
(5) La Sezione disciplinare giustifica questa deliberata OMISSIONE DECISORIA con la circostanza che il Procuratore Generale ha “modificato” in data 22.9.2009 l’originaria incolpazione, espungendo dalla stessa le “motivazioni” che l’incolpato aveva addotto a giustificazione del suo rifiuto di tenere le udienze.
In seguito alla scelta operata dal P.G. -chiosa il CSM- “le motivazioni della mancata prestazione del servizio sono divenute un accidente, riconducibile alla categoria accessoria della mera motivazione”, sicché l’unica disamina che il CSM deve compiere è quella relativa al “disvalore della condotta nella violazione delle regole organizzative e nella sottrazione alla prestazione del servizio”, e cioè al fatto che il dr. Luigi Tosti ha “reiteratamente e ingiustificatamente violato i doveri istituzionali e professionali di diligenza e laboriosità e le disposizioni relative alla prestazione del servizio”, ovverosia “non ha tenuto le udienze”.
Così si esprime, in effetti, il CSM a pag. 13-14: “La questione generale relativa alla..... attuale vigenza e legittimità delle disposizioni regolamentari che prescrivono l’obbligo di esposizione del crocifisso negli uffici pubblici .....va oltre il presente processo. Essa può essere richiamata al solo fine di inquadrare compiutamente, quanto meno ai fini della valutazione dell’elemento psicologico, la condotta dell’incolpato. Occorre tuttavia precisare che, come osservato dallo stesso Procuratore Generale in udienza, e come risulta con assoluta evidenza dall’ordinanza con la quale la sezione disciplinare ha a suo tempo disposto la sospensione del dott. Tosti, la verifica della compatibilità tra i principi della laicità dello stato e di libertà di fede religiosa da una parte e la collocazione del crocifisso nelle aule di giustizia non è l’oggetto proprio e neanche l’oggetto principale del presente procedimento, nel quale deve essere valutata la compatibilità del rifiuto di tenere udienza -determinato dal fatto che in altro luogo e nello stesso o in altro momento la giustizia sia amministrata in presenza del simbolo religioso- ed il (rectius: con il) rispetto delle regole organizzative del servizio, dei doveri del magistrato e delle esigenze funzionali del corretto esercizio della giurisdizione.... (pag. 21): “Come osservato dal rappresentante della Procura Generale in udienza, la contestazione del 22 settembre modifica radicalmente la prospettiva giuridica dell’incolpazione focalizzando il disvalore della condotta nella violazione delle regole organizzative e nella sottrazione alla prestazione del servizio. In entrambe le prospettive (quella della prima e quella della seconda formulazione della contestazione) la materialità dei fatti è sempre la medesima (il non aver tenuto le udienze con conseguente disservizio), ma mentre nella prima la motivazione della mancata prestazione del servizio era determinante (pur non essendo idonea ad escludere la illiceità disciplinare), nella seconda essa diventa un accidente, riconducibile alla categoria accessoria della mera motivazione, mentre oggetto della verifica giurisdizionale deve essere la reiterata e ingiustificata violazione dei doveri istituzionali e professionali di diligenza e laboriosità e delle disposizioni relative alla prestazione del servizio.”
(6) In buona sostanza, dunque, la sezione disciplinare sostiene che, se il Procuratore Generale della Cassazione decide di “espungere” dal procedimento disciplinare i fatti e/o le tesi difensive che l’incolpato ha eccepito e addotto a propria difesa, i giudici non potranno più vagliare quei “fatti” e quelle tesi difensive: “chi conduce le danze”, infatti, è solo il Procuratore Generale che si può permettere, ad libitum, di “far scomparire i fatti” e le “argomentazioni difensive” che non risultano “gradite” alla Pubblica Accusa.
Se si applica questo singolarissimo “principio giuridico” al processo penale, si dovrà affermare che, se una persona viene incriminata per omicidio perché, dopo essere stata gravemente ferita nel corso di una rapina, ha ucciso il rapinatore con un colpo di pistola, i giudici non potranno vagliare la fondatezza o meno della scriminante della “legittima difesa” nell’ipotesi in cui il P.M. decida di “modificare” il capo di incolpazione, facendo “scomparire” dall’imputazione originaria sia il fatto storico della “rapina” che la “scriminante della legittima difesa” eccepita dall’imputato a propria discolpa. Dunque, i giudici dovranno condannarlo all’ergastolo perché -ahiloro!- non avranno la possibilità di considerare e vagliare quei fatti e quelle eccezioni difensive.
Alla stessa stregua, se la segretaria del Ministro di Giustizia viene disciplinarmente incolpata di essersi rifiutata di prestare servizio, ma si difende asserendo di esservi stata costretta perché il Guardasigilli la violentava ogni qual volta entrava nel suo ufficio, i giudici disciplinari non potranno prendere in considerazione questa giustificazione nell’ipotesi in cui l’incolpante decida di “espungerla” dal processo disciplinare.
Parimenti, se un magistrato viene disciplinarmente incolpato di essersi rifiutato di tenere una trentina di udienze, ma si difende adducendo di non averle potute tenere perché assente dal servizio per malattia o per congedo o per maternità o perché il palazzo di giustizia era crollato o perché mancava l’assistenza del Cancelliere (così ha stabilito il CSM presieduto dall’Avv. Nicola Mancino nella risposta ad un quesito), i giudici della sez. disc. non potranno prendere in considerazione tutti questi fatti storici e tutte queste “giustificazioni difensive” nell’ipotesi in cui il P.G. decida di ....“espungerli” dal processo!!!
(7) Il ricorrente dubita che questo principio giuridico sia destinato a riscuotere consensi, nonostante lo spessore e l’autorevolezza dell’organo giurisdizionale da cui proviene.
Evidenzia, infatti, di essere stato incolpato di “essersi sottratto ingiustificatamente ed abitualmente.... dalla trattazione di un certo numero di udienze”, con una “condotta assertivamente motivata dalla presenza del crocifisso...e persistita nonostante la messa a disposizione da parte del Presidente del Tribunale di un’aula priva di simboli religiosi”: dunque egli aveva il diritto di difendersi prospettando, anche con memorie difensive, che il suo “rifiuto di tenere quelle udienze” doveva in realtà ritenersi “giustificato” perché “necessitato” dall’esigenza di salvaguardare il principio supremo di laicità e i propri diritti inviolabili di libertà religiosa e di eguaglianza, che venivano lesi dalla presenza generalizzata dei crocifissi e dal contestuale divieto di esporre i propri simboli, e che, dunque, non era un “assenteista”.
Il ricorrente sostiene che tale diritto di difesa gli competeva anche nell’ipotesi in cui nell’incolpazione fossero stati omessi (o espunti) “fatti” o “argomentazioni” a lui favorevoli: il diritto di difesa implica, infatti, quello di “contrastare” le domande avversarie o le accuse con eccezioni e/o argomentazioni giuridiche.
Il ricorrente sostiene anche che il “diritto di difesa” è un diritto inviolabile che è riconosciuto dall’art. 24 della Costituzione, il quale sancisce che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi” e che “la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”.
Il ricorrente sostiene anche che questa norma non può essere interpretata in senso restrittivo -nel senso cioè di riconoscere il diritto di “agire” e di “difendersi” alle sole “parti che introducono un giudizio”o “che accusano”- ma deve essere interpretata in senso estensivo, attribuendolo cioè a tutte le parti che partecipano al giudizio, o perché “evocatevi” o perché “intervenute” volontariamente o su impulso esterno: prova ne è che l’art. 111 della Costituzione sancisce che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” e che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizione di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”.
Dunque, il ricorrente sostiene che, applicando questi elementari principi al processo disciplinare dinanzi al CSM, si debba ineluttabilmente affermare che ai diritti processuali del Procuratore Generale della Cassazione di “incolpare” un magistrato, di acquisire le prove contro di lui e di argomentare le tesi accusatorie, si contrappongano i PARI diritti dell’incolpato di allegare, a propria discolpa, fatti e/o eccezioni, di provocare l’acquisizione di prove a sé favorevoli e, infine, di argomentare le proprie tesi difensive, sia per iscritto che oralmente.
Nell’ambito di questa fisiologica dialettica tra le “parti” -che scaturisce dal principio del “contraddittorio” a “parità di armi”- il ruolo del giudice è quello di un organo “terzo” ed “imparziale”, cioè deputato a controllare e garantire il regolare svolgimento del processo e, poi, a DECIDERE la controversia tenendo conto di TUTTE le prove e di TUTTE le argomentazioni difensive allegate da TUTTE le PARTI e di pronunciarsi su TUTTE le DOMANDE ed ECCEZIONI: l’art. 111 della Costituzione, infatti, sancisce il principio della “parità delle armi” -cioè del contraddittorio in condizione di parità- e sancisce poi che “tutti i provvedimenti giurisdizionali debbano essere motivati”.
Il ricorrente sostiene dunque che NON SI POSSA ammettere che il giudice obliteri colposamente -o addirittura intenzionalmente come nel caso di specie- le allegazioni e/o le eccezioni e/o le prove e/o le memorie difensive di una parte, o che non si pronunci su alcuna o più domande e/o eccezioni giudiziali (“Perché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., è necessario che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabile ...per le quali quella pronuncia si sia resa necessaria ed ineludibile”: Cass. civ. 19.3.2007, n. 6361; “La statuizione del giudice di merito il quale non esamini e non decida una questione oggetto di specifica doglianza è impugnabile per cassazione attraverso la deduzione del relativo error in procedendo da omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 4, c.p.c., in riferimento alla violazione dell’art. 112 stesso codice, laddove la denuncia del vizio di violazione, ex art. 360, n. 5 c.p.c. presuppone, invece, che lo stesso giudice abbia preso in considerazione tale questione e l’abbia risolta senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione adottata in proposito (nella fattispecie la Cassazione ha individuato una censura di omessa pronuncia nella sentenza del Tribunale che aveva respinto l’opposizione avverso un decreto prefettizio di espulsione per omessa richiesta del permesso di soggiorno entro otto giorni dall’ingresso in Italia, senza pronunciarsi sull’eccezione secondo cui il permesso non era da richiedere perché l’interessato non intendeva trattenersi in Italia oltre il termine, non ancora scaduto, di 90 giorni previsto per la scadenza del visto di ingresso”: Cass. civ., n. 4201/2006).
(8) Il ricorrente afferma che questi elementari principi, che trovano fondamento nella Costituzione italiana, sono pedissequamente ribaditi dagli articoli 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
In particolare, l’art. 6 sancisce che “ogni persona ha il diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente ed imparziale, costituito dalla legge, che deciderà ....in ordine alle controversie sui diritti ed obbligazioni di natura civile”. Dal tenore di questa norma è ragionevole dedurre che il diritto di far esaminare da un tribunale nazionale la propria causa non competa soltanto in via di azione, cioè a chi introduce il giudizio, ma anche in via di eccezione, cioè a chi è evocato o interviene nel giudizio, e che esso comporti il diritto di ottenere dai giudici una decisione effettiva delle loro controversie.
In senso analogo, ancorché circoscritto ai diritti e libertà riconosciuti dalla Convenzione, si esprime l’art. 13 della Convenzione, che così dispone: “ogni persona, i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un'istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali.”
Il ricorrente sostiene che queste due norme della Convenzione sono applicabili al proprio caso, dal momento che il dr. Luigi Tosti ha eccepito nel giudizio disciplinare -anche con memorie scritte- che il rifiuto di tenere le udienze (anche nell’aula ghetto) era necessitato dall’esigenza di sottrarsi alla lesione della prerogativa del rispetto del principio supremo di laicità e, altresì, dei propri diritti inviolabili di libertà religiosa, di coscienza e di eguaglianza, sicché egli aveva il DIRITTO di ottenere una decisione “effettiva” delle sue “eccezioni” da parte della Sezione disciplinare del CSM, sia ex art. 13 che ex art. 6 della Convenzione sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo: la Corte Europea dei Dir. dell’Uomo ha infatti costantemente stabilito che la tutela dei diritti inviolabili rientra nell’ambito dell’art. 13 della Convenzione e, a maggior ragione, nell’ambito delle “controversie sui diritti ed obbligazioni di natura civile” menzionate dall’art. 6.
La circostanza che la Sez. disciplinare abbia omesso di pronunciarsi sulle “eccezioni” con le quali l’incolpato ha dedotto la violazione di diritti umani integra, di per sé, la violazioni di tali due norme.
Sul punto si richiamano gli arresti della CEDU, Golder c/Regno Unito del 21 febbraio 1975; Klass e altri c./Germania del 6.9.1978, serieA n. 28, e Ashingdane c/Regno Unito del 28 maggio 1985, serie A n. 18, p. 18, § 36, e n. 93, pp. 24–25, § 57. Significativa è anche la sentenza Luigi Lombardi Vallauri c/ ITALIA del 20 ottobre 2009, ricorso n. 39.128/05, § 66, con la quale l’Italia è stata condannata a causa dell’omessa pronunzia dei giudici interni sulla mancanza di motivazione di una decisione del Consiglio di Facoltà, che aveva determinato l’impossibilità di impugnare tale decisione e di instaurare un dibattito in contraddittorio.
(9) Il ricorrente sostiene, pertanto, che i giudici della Sezione disciplinare avevano l’ “obbligo” di decidere la fondatezza o meno delle “motivazioni” che lo avevano indotto a rifiutarsi di tenere le udienze, sia prima che dopo l’allestimento dell’aula ghetto: avevano cioè l’obbligo di decidere se la presenza dei crocifissi (o la rimozione di un solo crocifisso) ledeva o meno i diritti primari di libertà e di eguaglianza del Tosti e la sua prerogativa di rispetto del principio di laicità. Ma non è tutto.
Dal momento, infatti, che l’ostensione dei crocifissi è imposta da una “circolare” fascista, i giudici avevano anche l’ “obbligo”, imposto loro dagli articoli 5 e 4 della Legge 20.3.1865 n. 2248, di verificare se la circolare in questione dovesse ritenersi tacitamente abrogata ex art. 15 della disp. prel. al codice civile -come affermato dalla Corte di Cassazione penale nella sent. 4273/2000 e come attestato dalla circostanza che la circolare è disapplicata nella parte i cui impone l’ostensione del ritratto del Re- oppure dovesse essere “disapplicata” perché “difforme” alla legge. In seguito alle eccezioni difensive sollevate dall’incolpato, infatti, sussisteva una “contestazione che cadeva sopra diritti e prerogative costituzionali che il dr. Luigi Tosti pretendeva lesi dall’applicazione di quella circolare”, sicché i giudici non potevano sottrarsi all’obbligo di decidere, imposto loro dall’art. 4 della L. n. 2248 del 1865.
Sul punto non possono esservi dubbi, dal momento che TUTTA la giurisprudenza nazionale depone univocamente in questo senso.
Ad esempio, i giudici della Cassazione penale (sent. 4273/2000) che hanno giudicato il prof. Marcello Montagnana perché costui si era rifiutato di adempiere l’ufficio di scrutatore a causa della presenza generalizzata dei crocifissi, non si sono lavati pilatescamente le mani come il CSM, ma si sono doverosamente pronunciati sulla fondatezza delle ragioni addotte dal Montagnana a sostegno del “rifiuto”, pervenendo poi alla conclusione che tutte le norme amministrative che prevedono l’ostensione dei crocifissi sono da ritenere tacitamente abrogate ex art. 15 disp.prel. c.c. perché in contrasto con le norme della Costituzione repubblicana del 1948, cioè perché ledono il principio supremo di laicità e i diritti di libertà religiosa di chi, come lo scrutatore, era costretto ad operare sotto l’incombenza dei crocifissi. Dunque, anche il CSM avrebbe dovuto affrontare e decidere la medesima questione sollevata dal dr. Tosti, essendo costui un cittadino come il prof. Montagnana. Ma non è tutto.
C’è anche da richiamare il caso del teste che si “rifiutò” di giurare a causa dei riferimenti alla “divinità” contenuti nella formula di giuramento. In “questo” caso il giudice penale non si è comportato come la Sezione disciplinare del CSM -non ha cioè affermato quello che l’Avv. Nicola Mancino ha affermato nel suo comunicato stampa, ovverosia che «il Csm non è né la Corte Costituzionale né la Corte Europea e che non doveva pertanto risolvere, e in effetti non ha risolto, la questione della legittimità o meno di tenere il Crocifisso in un'aula giudiziaria»- ma ha al contrario vagliato le “motivazioni” del “rifiuto” di “quel” teste e, avendole ritenute fondate, ha sollevato ex art. 23 della L. 11.3.1953 n. 87 la questione di incostituzionalità della norma del cod. proc. penale che gli imponeva di giurare con quella formula. Trattandosi di norma di legge, infatti, a quel giudice penale era inibito “disapplicarla” ex art. 5 della L. n.2248/1865. Ma non è tutto.
Anche il giudice civile che si è trovato di fronte ad una parte processuale che “si era rifiutata” di prestare il giuramento decisorio a causa dei riferimenti a dio contenuti nella formula non si è lavato pilatescamente le mani, affermando che «lui non era né la Corte Costituzionale né la Corte Europea e che non doveva pertanto risolvere, e in effetti non intendeva risolvere, la questione della legittimità o meno dell’obbligo di prestare il giuramento con formule che contenevano riferimenti alla divinità», ma ha al contrario vagliato l’eccezione della parte e, avendola ritenuta non manifestamente infondata, ha trasmesso gli atti alla Consulta che, poi, ha dichiarato l’incostituzionalità della norma. Ma non è ancora tutto.
Anche i giudici della Corte di Cassazione penale che hanno dovuto decidere il caso di un ispettore di polizia che “si è rifiutato” di ricevere una denuncia penale -contro di lui indirizzata- per salvaguardare il suo diritto primario di difesa, non si sono lavati le mani affermando che “non erano né la Corte Costituzionale né la Corte Europea e che non intendevano pertanto risolvere la questione di principio se un funzionario di P.S. potesse o meno rifiutarsi di compiere un atto di ufficio, se questo determinava la lesione di un diritto primario garantitogli dalla Costituzione”, ma hanno al contrario affrontato e deciso questa eccezione difensiva, affermando che “ “l’esigibilità del compimento dell’atto di ufficio non può sacrificare il diritto alla difesa, anche come tutela avanzata nel senso di non assoggettamento ad atti che possano comportare l’incriminazione del pubblico ufficiale” e che, “in tema di rifiuto di atti di ufficio di cui al primo comma dell'art. 328 C.P., il carattere indebito del rifiuto non è ravvisabile quando il compimento dell'atto determini la lesione di diritti costituzionalmente garantiti del soggetto agente” (Cassazione penale, Sez. VI, Lo Presti ed altri, 20.6.2000 - 6.4.2000 n. 7281). Ma non è ancora finita.
Anche i giudici della Corte di Cassazione che hanno dovuto decidere il caso di due testimoni di Geova che, per obiezione di coscienza religiosa, “si erano rifiutati” di sottoporre a terapia emotrasfusionale il loro figlio minorenne, cagionandone la morte, non si sono lavati le mani come il CSM, ma hanno vagliato le motivazioni ideologiche del rifiuto statuendo, giustamente, che la pretesa del rispetto dei propri convincimenti personali non può mai autorizzare la violazione di norme imperative (Cassazione penale, sez. I, 13 dicembre 1983).
Riepilogando, dalle decisioni or ora riportate si argomenta che “anche” la Sezione disciplinare, essendo un giudice, aveva l’OBBLIGO, ineludibile, di decidere le eccezioni sollevate dal dr. Tosti, e cioè di decidere se l’ostensione obbligatoria dei crocifissi nelle aule ledesse o meno i diritti e le prerogative inviolabili del dr. Tosti e giustificasse, poi, il rifiuto di tenere le udienze, anche dopo l’allestimento dell’aula-ghetto.
Questo obbligo decisorio scaturiva, da un lato dalla circostanza che il dr. Tosti aveva ed ha il diritto di difendersi in giudizio e di ottenere, dunque, pronunce motivate sulle sue “domande” e sulle sue “eccezioni”, dall’altro lato dalla circostanza che il dr. Tosti ha prospettato nel giudizio disciplinare la lesione di diritti inviolabili, sicché i giudici nazionali (CSM e, oggi, le SS.UU..) avevano ed hanno l’obbligo, sancito dagli artt. 13 e 6 della Convenzione, di accordare una tutela giurisdizionale ai diritti inviolabili che il dr. Tosti ha assunto (ed assume) lesi dall’Amministrazione di appartenenza. D’altro canto, l’art. 35 della Convenzione impone al dr. Tosti l’obbligo dell’esaurimento delle vie interne di ricorso proprio allo scopo di consentire ai giudici nazionali di accordare tutela giudiziaria ai suoi diritti inviolabili, sicché è sconcertante che il Presidente della Sezione disciplinare avv. Nicola Mancino abbia diffuso un comunicato stampa col quale ha affermato che «il Csm non è né la Corte Costituzionale né la Corte Europea e che non doveva pertanto risolvere, e in effetti non ha risolto, la questione della legittimità o meno di tenere il Crocifisso in un'aula giudiziaria». In realtà, dalle norme costituzionali e dalla Convenzione si ricavano elementari principi giuridici che “remano” in direzione opposta: e cioè che il CSM aveva l’obbligo di vagliare e decidere le “eccezioni” con le quali il dr. Tosti aveva prospettato, nel corso di un giudizio disciplinare, che il suo comportamento di “rifiuto di doverose attività di servizio” era lecito perché necessitato dall’esigenza di salvaguardare diritti inviolabili.
(10) Da ultimo si rileva che tutti i principi giuridici sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione sui diritti dell’uomo sono ovviamente recepiti dalle normative interne che disciplinano lo svolgimento dei processi penali, civili, amministrativi, tributari etc.
Per ciò che concerne il processo civile, ad esempio, l’art. 112 del c.p.c. impone al giudice l’obbligo di pronunciarsi su tutte le domande e su tutte le eccezioni delle parti a pena di nullità. Analogamente disponeva l’art. 477 del vecchio C.P.P. e dispone, oggi, l’art. 522. Per ciò che concerne il vecchio codice di procedura penale, l’art. 185, n. 3, imponeva al giudice l’obbligo di rispettare le norme relative all’intervento, all’assistenza ed alla rappresentanza dell’imputato a pena di nullità di ordine generale: in senso conforme dispone oggi l’art. 178, comma 1°, lett. C), del codice di procedura penale.
Pertanto, anche per i procedimenti disciplinari dei magistrati -che sono disciplinati dal codice di procedura penale- si applica il principio, costantemente sancito dalla Cassazione penale, secondo cui “l’omesso esame di una memoria difensiva determina la nullità della sentenza”: un principio che è valido sia per il vecchio che per il nuovo codice di procedura penale.
Nella vigenza del vecchio c.p.p., infatti, la Cassazione pen., Sez. I, 17.12.1973, Arioli, aveva stabilito che “la violazione del combinato disposto degli articoli 145 e 305 comma 2° c.p.p. comporta la nullità d’ordine generale prevista dall’art. 185 n. 3, concernendo l’assistenza dell’imputato e la nullità assoluta per omessa pronuncia su una memoria difensiva”.
Parimenti, nella vigenza dell’attuale codice di proc. pen. la Cassazione pen., Sez. I, 7.7.2009 n. 31245 e la Cass. pen., Sez. I, 14.10.2005 n. 45104 hanno sancito che “il rigetto immotivato dell’istanza di acquisizione di una memoria difensiva, presentata ai sensi dell’art. 121 c.p.p., o la sua omessa valutazione determinano la nullità di ordine generale prevista dall’art. 178, comma primo, lett. c), stesso codice, in quanto impediscono all’imputato di intervenire concretamente nel processo ricostruttivo e valutativo effettuato dal giudice in ordine al fatto-reato, comportando la lesione dei diritti di intervento o assistenza dell’imputato stesso, oltre a configurare una violazione delle regole che presiedono alla motivazione delle decisioni giudiziarie”.
Nella parte motiva la Corte si esprime così:
“Il giudice al quale viene presentata una memoria difensiva deve prendere in considerazione il contenuto della stessa e assumerlo a tema dell’indagine, facendolo quindi oggetto della formulazione del proprio giudizio. Una conclusione del genere deriva dal principio generale secondo cui le esigenze di giustizia impongono il vaglio di TUTTE le RAGIONI delle PARTI e di TUTTI i FATTI e le CIRCOSTANZE addotti e riferiti dall’indagato (o imputato)........Il rigetto immotivato dell’istanza di acquisizione e valutazione di una memoria (o istanza) difensiva costituisce violazione dell’art. 121 c.p.p. e determina la nullità di ordine generale prevista dall’art. 178 lett. c). L’omesso e ingiustificato esame delle deduzioni difensive impedisce, infatti, all’imputato di intervenire concretamente nel processo ricostruttivo e valutativo effettuato dal giudice in ordine al fatto-reato e comporta la lesione dei diritti di intervento o assistenza difensiva dell’imputato, oltre a configurare una violazione delle regole che presiedono alla motivazione delle decisioni giudiziarie (Cass. 4.4.1990, n. 8573. rv. 184652; Cass., Sez. I, 6.5.2005, n. 23789, rv. 232518; Cass., Sez. I, 14.10.2005, n. 45104, rv. 232702). Negare tali conseguenze, invero, significherebbe ridurre le parti alla situazione di comparse eventuali, disconoscendone la funzione di protagoniste della dialettica processuale.”
Tutti questi principi, validi per il processo penale, sono stati ribaditi dalle SS.UU. civili nella sentenza n. 967 del 21/01/2010 per ciò che concerne il procedimento disciplinare a carico dei magistrati. Così ha statuito la Corte (Rv. 611109):
“In tema di procedimento disciplinare dei magistrati, l'omesso esame da parte della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura di una memoria difensiva determina la nullità della sentenza ai sensi dell'art. 178, comma primo, lett. c) cod. proc. pen., ma il relativo motivo di ricorso deve ritenersi inammissibile qualora non contenga l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto dai quali la censura trae fondamento e, in particolare, l'enunciazione delle questioni sollevate con la memoria di cui si lamenta la mancata valutazione.”
Concludendo, sulla base delle succitate regulae iuris, che si adattano a perfezione al caso di specie, dovrà essere dichiarata la nullità della sentenza impugnata, dal momento che la Sezione disciplinare del “nuovo” CSM ha deliberatamente omesso (a differenza del precedente CSM) l’esame delle surrichiamate memorie difensive, obliterando la disamina delle questioni e delle ragioni di fatto e di diritto che l’incolpato aveva addotto nelle memorie allo scopo di difendersi dall’accusa di essersi “ingiustificatamente” rifiutato di tenere le udienze a causa della presenza del crocifissi.
(11) Per la precisione, la nuova Sezione disciplinare del CSM ha obliterato la disamina e la decisione delle seguenti eccezioni e punti controversi:
1. l’esposizione del “solo” crocifisso nelle aule giudiziarie italiane, imposta da un circolare fascista del 1926, lede il principio supremo di laicità e, conseguentemente, lede anche il diritto-dovere (cioè la prerogativa costituzionale) del magistrato Luigi Tosti di amministrare la giustizia in nome e per conto di una Repubblica “laica”, e non in nome e per conto di una Repubblica “confessionale” cattolica;
2. l’imposizione dell’obbligo di espletare le funzioni giurisdizionali in aule giudiziarie addobbate con crocifissi lede il diritto inviolabile di libertà religiosa del “dipendente” dr. Luigi Tosti;
3. l’imposizione del crocifisso e il contestuale divieto di esporre i suoi simboli lede il diritto inviolabile di eguaglianza e non discriminazione del Tosti;
4. il rifiuto del Tosti di tenere le udienze a causa dell’imposizione dei crocifissi, attuato dal 9 maggio 2005, deve ritenersi “giustificato” dalla necessità di non calpestare il principio supremo di laicità e di sottrarre il dipendente alla lesione attuale e inevitabile dei suoi diritti inviolabili di libertà religiosa e di eguaglianza, cioè perché espressione del “diritto inviolabile di libertà di coscienza”, che trova riconoscimento diretto nella Costituzione e nella Convenzione sui diritti dell'uomo, non può subire limitazioni, violazioni o deroghe superiori a quelle previste in tali fonti né soggiacere, in caso di conflitto con altri valori primari, ad un bilanciamento che determini restrizioni superiori a quelle consentite, non può diventare recessivo di fronte ai doveri che nascono dal rapporto di pubblico impiego, sanciti dal comma secondo dell'art. 54 Cost., non è limitato o condizionato dalla volontarietà dell'instaurazione e del mantenimento del rapporto d'impiego che lega il magistrato all'Amministrazione, è irrinunciabile, indisponibile, imprescrittibile e non assoggettabile a decadenza e che, avendo natura di scriminante, non necessita di alcuna espressa previsione di legge per essere esercitato, ogni qualvolta il rifiuto di atti doverosi si profili necessario e funzionale a scongiurare la lesione di diritti fondamentali, che, infine, non può essere subordinato al previo esperimento di altri rimedi legali e, in particolare, all' esito favorevole degli stessi, perché ciò comporterebbe comunque, nelle more, la lesione irreparabile dei detti diritti;
5. il rifiuto del Tosti di accettare la “proposta mediatoria” del Presidente del Tribunale di tenere le udienze in un’aula che sarebbe stata allestita senza crocifisso deve considerarsi del tutto legittimo perché: (a) si tratta di una proposta che integra gli estremi del reato di discriminazione per motivi religiosi, previsto e punti dall’art. 3 della legge n. 654/1975, oltre che una forma di apartheid per motivi religiosi, sicché il rifiuto di accettarla deve ritenersi giustificato anche sotto il profilo della legittima difesa (art. 52 c.p.e 2044 c.c.); (b) si tratta di una proposta contraddittoria e contraria al principio di legalità, per la ritenuta vigenza della circolare ministeriale che imponeva il crocifisso in TUTTE le aule, senza dunque deroghe “speciali” per una particolare aula del Tribunale di Camerino; (c) si tratta di una proposta illegale, perché proveniente da soggetti non legittimati a violare la circolare, come espressamente sancito dalla Terza sezione penale della Cassazione nell’ordinanza n. 41.571 pubblicata il 18.11.2005 e come desumibile dagli artt. 4 e 5 della legge 20.3.1865 n. 2248, all. E, che riservano solo ai giudici, nel corso dei giudizi, la potestà di disapplicare atti amministrativi non conformi a legge (e non di “derogarli” per un caso singolo); (d) si trattava di un rimedio assolutamente inidoneo a salvaguardare il principio supremo di laicità, come espressamente sancito dalla Cass. pen. nella sentenza n. 4273/2000 e come affermato dalla VI Sez. pen. della Cassazione nella sent. assolutoria del Tosti n. 28482/2009; (e) si trattava di un rimedio elusivo ed assolutamente inidoneo a salvaguardare il rispetto del diritto “negativo” di libertà religiosa del dipendente Tosti, come espressamente sancito dalle regulae juris affermate dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 117/1979 e dalla CEDH nelle sentenze Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, serie A n. 260-A p. 17, § 31, Buscarini e altri c. San Marino [GC], n. 24645/94, § 34, CEDU 1999-I, DIMITRAS ed altri c. GRECIA, 3.6.2010; (f) si trattava di un rimedio elusivo ed inidoneo a salvaguardare il diritto inviolabile di eguaglianza e, anzi, gravemente discriminatorio, sia perché si vietava al dipendente il pari diritto di esporre i propri simboli religiosi nell’aula “dedicata” e nelle altre aule “ufficiali” del Tribunale di Camerino, sia perché veniva oltraggiosamente “ghettizzato” in un’aula “speciale” in quanto “diverso”, cioè perché non cattolico; (g) infine, si trattava di un rimedio assolutamente inidoneo a risolvere il problema pratico, sia perché il dr. Luigi Tosti -per motivi tecnici e logistici- avrebbe dovuto seguitare a tenere le udienze collegiali civili e quelle penali (sia monocratiche che collegiali, sia come GIP e come GUP supplente) nelle aule “ufficiali” addobbate con i crocifissi, sia perché, infine, egli era coassegnato -e sovente applicato- in altre sedi distrettuali o extradistrettuali e poteva trasferirsi in altra sede del territorio nazionale, sicché sarebbe stato ogni volta costretto ad esternare i propri convincimenti religiosi e a subire l’allestimento di altrettante oltraggiose e discriminatorie “aule-ghetto”, subendo così la lesione del suo diritto “negativo” di libertà religiosa in virtù delle regulae juris sancite dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 117/1979 e dalla CEDH nelle sentenze Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, serie A n. 260-A p. 17, § 31, Buscarini e altri c. San Marino [GC], n. 24645/94, § 34, CEDU 1999-I, DIMITRAS ed altri c. GRECIA, 3.6.2010;
6. la richiesta del dr. Luigi Tosti di poter esporre la menorà a fianco del crocifisso -il cui accoglimento avrebbe consentito al dr. Tosti di tenere regolarmente le udienze- deve ritenersi lecita, AMMISSIBILE e, anzi, DOVEROSA da parte dell’Amministrazione giudiziaria, sia alla luce della normativa costituzionale e convenzionale che sancisce l’eguaglianza di qualsiasi essere umano, senza distinzione di opinioni religiose, sia alla luce dell’art. 2 del D. Lgs. n. 216/2003 che vieta qualsiasi forma di “discriminazione”, “diretta o indiretta”, da parte del datore di lavoro pubblico o privato, e cioè vieta che “una persona sia trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga”;
7. infine, il “rifiuto” posto in essere dal dr. Luigi Tosti era conforme ai principi sanciti dalla Corte di Cassazione penale nella sentenza 1.3.2000 n. 4273, sicché egli non poteva essere condannato per essersi conformato a regulae juris sancite dalla Suprema Corte per un “caso” identico al “suo” e, in ogni caso, doveva essere considerata e valutata, ai fini dell’accertamento della volontarietà del comportamento, la circostanza che egli aveva fatto affidamento su di una sentenza della Corte di Cassazione che legittimava il suo rifiuto (art. 5 C.P., sent. C. Cost. n. 364/1988).
(12) E’ opportuno rimarcare che l’omissione decisoria del CSM ha provocato una discrasia motivazionale inaccettabile nella decisione finale, perché il comportamento di “rifiuto” del dr. Tosti è stato aprioristicamente connotato di “negatività” a prescindere dalla disamina della fondatezza o meno delle motivazioni che lo hanno indotto a “rifiutarsi” di tenere le udienze sicché, in buona sostanza, il dr. Tosti è stato equiparato ad un magistrato “fannullone” e “assenteista”, mentre invece è un magistrato che ha asserito di essere stato costretto a rifiutarsi di adempiere un’attività di servizio per sottrarsi alla lesione di diritti inviolabili e di prerogative costituzionali: ed è questo il comportamento per il quale doveva essere giudicato.
La motivazione della rimozione poggia invece sull’affermazione che il dr. Tosti è venuto meno ai suoi “doveri istituzionali e professionali di diligenza e di laboriosità e delle disposizioni relative al servizio” (pag. 21 della sent.) e che egli ha “lanciato una sfida all’amministrazione”, ha “mostrato ... la volontà di piegare la propria funzione alla spasmodica affermazione di petizioni di principio”, ha “mostrato faziosità, aggressività verbale e scarso equilibrio, andando alla ricerca di reazioni decise attraverso iniziative provocatorie”, “ha inciso con le sue iniziative sulla serenità dell’ufficio, come dimostra il fitto scambio di note in atti, che hanno avuto ampia risonanza mediatica”, ha “minato la sua credibilità di giudice, funzione che richiede equilibrio, ponderazione e terzietà, distacco”, “ha recato pregiudizio al prestigio dell’ordine giudiziario”, “ha utilizzato la propria stessa funzione con modalità sostanzialmente ricattatorie nei confronti delle istituzioni”, “ha tentato di accreditare una grave e pretestuosa persecuzione ai suoi danni”, “ha manifestato la irremovibile volontà di tenere fermo il suo rifiuto fino a quando non sarà tolto il crocifisso dalle aule d’udienza o non sarà esposta la menorà ebraica”.
Se si avallasse un siffatto modo di argomentare si perverrebbe a conseguenze grottesche. Ad esempio, la segretaria del Ministro di Giustizia che si rifiutasse di prestare servizio perché il Guardasigilli la violenta ogni qual volta entra nel suo ufficio, oppure il giudice ebreo che si rifiutasse di tenere le udienze perché una circolare fascista dispone che debba essere sodomizzato durante la trattazione dei processi, dovrebbero essere “rimossi” dall’Ordine giudiziario perché con i loro “rifiuti”di farsi violentare e di farsi sodomizzare dal Ministro di Giustizia sono venuti meno all’ “obbligo di diligenza e laboriosità”, perché hanno “ricattato” (!!!) il povero Ministro di Giustizia, perché “hanno minato la loro credibilità” di fronte al popolo italiano (!!!), perché “hanno tentato di accreditare una grave e pretestuosa persecuzione ai loro danni” (!!!), perché “hanno lanciato una sfida alle istituzioni” (!!!), perché “hanno piegato la loro funzione alla spasmodica affermazione di petizioni di principio” (!!!), perché “hanno inciso con le loro iniziative sulla serenità dell’ufficio” (!!!), perché “hanno manifestato l’irremovibile volontà di tenere fermo il loro rifiuto fino a quando non cesseranno le violenze carnali e le sodomizzazioni ai loro danni” (!!!!), perché “hanno mostrato faziosità, aggressività verbale e scarso equilibrio, andando alla ricerca di reazioni decise attraverso le provocatorie iniziative di rifiutarsi di essere violentati e sodomizzati” (!!!).
Si tratterebbe, ovviamente, di veri e propri deliqui giuridici. Ma la fattispecie del dr. Tosti non è dissimile, perché costui è stato “rimosso” dall’Ordine giudiziario perché si è rifiutato di subire la lesione dei suoi diritti inviolabili di libertà religiosa e di eguaglianza religiosa, perché si è rifiutato di calpestare il principio supremo di laicità (che viene invece deliberatamente calpestato dai Ministri di Giustizia) e perché, infine, si è rifiutato di essere ghettizzato -a causa dei suoi convincimenti religiosi “dissidenti”- in un’aula “speciale” a lui “dedicata”. Dunque il CSM non poteva esimersi dal pronunciarsi sulla fondatezza delle giustificazioni del rifiuto.
D’altro canto, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sancito che è illegale -e fonte di responsabilità risarcitoria per lo Stato che lo avalla- licenziare un dipendente perché “si rifiuta” di iscriversi ad un sindacato: e questo perché si tratta di un’imposizione che lede il diritto inviolabile di libertà di associazione del lavoratore (CEDH, 13.8.1981, Young e altro c. Regno Unito Gran Bretagna). Alla stessa stregua, dunque, appare altrettanto “illegale” “licenziare” un magistrato perché “si rifiuta” di tenere le udienze sotto l’imposizione dei crocifissi, perché si tratta di un’imposizione che lede il suo diritto di libertà e di eguaglianza religiosa e la sua prerogativa di rispetto del principio supremo di laicità.
Ma anche la IV Sez. penale della Cassazione ha sancito, con la sent. n. 4273/2000, che è illegale “condannare” uno scrutatore perché “si rifiuta” di svolgere le operazioni elettorali a causa della presenza generalizzata dei crocifissi, ed anche la Corte Costituzionale con la sent. n. 117/1979 ha sancito che è illegale “condannare” un testimone perché “si rifiuta di subire la lesione del suo diritto di libertà religiosa”, cioè di giurare su Dio. Dunque, anche la Sezione disciplinare doveva applicare al Tosti questi principi, oppure dare contezza del perché li disapplicava.
(13) A chiusura del motivo si ritiene di dover respingere l’obiezione di chi volesse sostenere che non sussiste vizio di omessa pronuncia perché le eccezioni del dr. Tosti circa le “giustificazioni del suo rifiuto” -ancorché non esaminate ex professo- risultano implicitamente disattese dalla circostanza che il CSM ha condannato il dr. Tosti “perché si è rifiutato di tenere le udienze in un’aula senza crocifisso”. Questa obiezione non avrebbe pregio alcuno per due motivi.
Il primo consiste nel fatto che “anche” questa pronuncia ha obliterato di decidere le “eccezioni” con le quali il dr. Tosti ha prospettato che il “rimedio” dell’aula senza crocifisso non valeva a preservare il rispetto del principio di laicità e dei suoi diritti di libertà religiosa e di eguaglianza e che, anzi, li aggravava. Il secondo motivo consiste nel fatto che la motivazione relativa alla (supposta) “idoneità” del rimedio dell’aula-ghetto non può riguardare, in ogni caso, le udienze di data anteriore alla messa a disposizione effettiva di questa aula, sicché per tutte queste udienze sussisterebbe comunque un vuoto decisorio assoluto.
Riepilogando, ancorché non più imposto dal rito, si formula il seguente
QUESITO DI DIRITTO
Dica l’Ecc.ma Corte se – in una fattispecie in cui un magistrato, incolpato in sede disciplinare per essersi rifiutato di tenere delle udienze, respinga l’addebito depositando memorie difensive con le quali deduca la legittimità del proprio comportamento perché necessitato dall’imprescindibile esigenza di salvaguardare prerogative costituzionali e diritti inviolabili- incorra nella violazione dell’art. 178, lett. c), del nuovo C.P.P., nonché degli articoli 24 e 111 della Costituzione e degli articoli 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con legge 4.8.1955 n. 848, la sentenza della sezione disciplinare del CSM la quale, adducendo che il Procuratore Generale della Cassazione, in seguito alla modifica dell’incolpazione originaria, ha espunto dal processo i motivi addotti dal magistrato a giustificazione della legittimità del proprio comportamento, ometta la disamina e la decisione delle eccezioni difensive e delle questioni giuridiche prospettate dall’incolpato, mentre le suddette disposizioni di legge debbono essere correttamente interpretate nel senso che a nessuna parte processuale (nella specie: al Procuratore Generale della Cassazione, parte “incolpante”) può essere conferita la pretesa di limitare i diritti inviolabili di difesa delle altre parti (nella specie: dell’incolpato), che sono riconosciuti dall’art. 24 della Cost. e dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e, in caso di tutela di diritti inviolabili, anche dall’art. 13 della medesima Convenzione, sussistendo per converso, in virtù dell’art. 111 della Cost., commi 2° e 6°, e dell’art. 6 della Convenzione sui diritti dell’uomo, il principio di parità delle armi tra le parti e l’obbligo, per il giudice, di motivare i provvedimenti giurisdizionali e di pronunciarsi su tutte le domande e su tutte le eccezioni delle parti, con la conseguenza che incorre nel vizio di omessa pronuncia ed omesso esame delle memorie, che determina la nullità della sentenza ai sensi dell'art. 185 n. 3 c.p.p. e 477 abrogato (178, comma primo, lett. c) e 522 cod. proc. pen. vigente), la pronuncia che ometta di vagliare e di decidere le questioni di fatto e di diritto prospettate da una parte (nella specie: l’incolpato).

Ai fini dell’autosufficienza del ricorso si trascrivono qui di seguito i brani salienti delle memorie che illustrano, punto per punto, le tesi e/o eccezioni prospettate dall’incolpato:
A. Quanto al 1° PUNTO secondo cui “l’esposizione del “solo” crocifisso nelle aule giudiziarie italiane lede il principio supremo di laicità e la prerogativa costituzionale del magistrato di amministrare la giustizia in nome e per conto di una Repubblica “laica”, e non in nome e per conto di una Repubblica “confessionale” cattolica”:
cfr. pag. 92- 97 ricorso per cassazione all. alla memoria difensiva 16.1.2010: “Ribadisco, qui di seguito, le tre principali motivazioni del mio rifiuto di tenere le udienze, sino a che non saranno rimossi i crocefissi.
1°) La prima motivazione è che io non accetto, nella mia qualità di magistrato, di subire la lesione delle mie prerogative costituzionali di imparzialità, di neutralità e di indipendenza per effetto dell'imposizione, da parte del Ministro di Giustizia, di un simbolo religioso partigiano, che cioè non identifica affatto lo Stato italiano e l'unità nazionale: ho prestato giuramento alla Costituzione Repubblicana -e non al Pontefice- e non intendo pertanto calpestarla né, tantomeno, intendo subire la limitazione della mia prerogativa di indipendenza o la violazione del principio supremo della laicità dello Stato, soggiogandomi supinamente all'imposizione coattiva del crocifisso da parte del Ministro di Giustizia il quale, con tale comportamento, è Lui che lede, viola e calpesta tutti questi sacrosanti principi costituzionali... il Ministro non può costringermi ad identificarmi in questo simbolo partigiano quando esercito le mie funzioni giurisdizionali...Esporre nelle aule giudiziarie i “crocifissi” evoca un messaggio che confligge col principio di laicità della Repubblica italiana. E' come se si dicesse: “in queste aule il giudice esercita le sue funzioni giurisdizionali in nome del Dio dei cattolici”.
B. Quanto al 2° PUNTO, secondo cui “l’imposizione dell’obbligo di espletare le funzioni giurisdizionali in aule giudiziarie addobbate con crocifissi lede il diritto inviolabile di libertà religiosa del “dipendente” dr. Luigi Tosti”:
cfr. pag. 92-97 ricorso per cassazione: “La seconda motivazione del mio rifiuto scaturisce dal fatto che l'imposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie lede il mio diritto soggettivo alla libertà religiosa (art.19 Cost.), che implica non soltanto quello positivo di partecipare agli atti di culto e fare propaganda di fede, ma anche quello negativo di non essere costretti a compiere atti con significato religioso, quello di non essere costretti ad identificarsi in un simbolo religioso, quello di tenersi lontani dalle attività e dai simboli religiosi e, infine, quello di non essere costretti a manifestare la propria ideologia religiosa.
Questa costrizione ideologico/religiosa mi risulta ancor più intollerabile, se si considera che io detesto l’idolatria, non espongo e non venero alcun crocifisso a casa mia e che, invece, vengo costretto dal mio datore di lavoro ad identificarmi in questo simbolo dal quale, peraltro, mi sono anche dissociato -e mi dissocio- per tutte le gravissime implicazioni di criminalità, di genocidio, di intolleranza, di torture, di assassini, di razzismo, di schiavismo, di inquisizione, di superstizione, di abuso della credulità popolare, di truffe, di oscurantismo e di prevaricazione dei diritti umani e politici dei cittadini, legati alla nefasta storia della Chiesa cattolica Romana.
C. Quanto al 3° PUNTO, secondo cui “: il divieto di esporre i simboli religiosi del “dipendente” Luigi Tosti a fianco dei crocifissi lede il suo diritto inviolabile di eguaglianza e non discriminazione”:
- cfr. pag. 95-97 ricorso per cassazione: “La terza motivazione del mio rifiuto dipende dal fatto che l'esposizione obbligatoria del SOLO crocifisso nelle aule giudiziarie, congiunta al divieto di esporre i miei simboli, lede il mio diritto soggettivo all'eguaglianza.
La Cassazione nella sentenza 4273/2000 ha infatti affermato che l'ostensione del solo crocifisso “urta contro il chiaro divieto posto in questa materia dall'art. 3 cost., come ha recentemente ricordato corte cost. 14.11.1997, n. 329, laddove ha sottolineato - con un'affermazione tale da assumere la portata di un orientamento generale, al di là della specifica questione dell'art. 404 c.p. ivi scrutinata - come “il richiamo alla cosiddetta coscienza sociale, se può valere come argomento di apprezzamento delle scelte del legislatore sotto il profilo della loro ragionevolezza, è viceversa vietato laddove la Costituzione, nell'art. 3, 1° comma, stabilisce espressamente il divieto di discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l'appunto la religione”. E, nella specie, si differenzia appunto in base alla religione nel momento in cui si dispone l'esposizione del SOLO crocifisso.
Il “privilegio” accordato ai cattolici si risolve dunque, necessariamente, in una discriminazione ai danni di tutte le altre fedi: il che è stato ribadito da Corte Cost. (sent. n. 195/1993), che ha affermato che “qualsiasi DISCRIMINAZIONE in danno dell'una o dell'altra fede è COSTITUZIONALMENTE INAMMISSIBILE in quanto contrasta con il diritto di libertà di religione e con il principio di eguaglianza......
- cfr pag. 17- 20 ric. per cassazione: “..........io mi sono rifiutato di tenere le udienze in primo luogo perché lo Stato confessionale Cattolico mi ha imposto il suo crocifisso e non mi ha autorizzato ad esporre la mia menorà ebraica, in tal modo ledendo i miei diritti costituzionali all’eguaglianza religiosa ed alla libertà religiosa......... l’art. 3 della Costituzione.... dice che “tutti i cittadini -quindi anche gli ebrei- “hanno pari dignità e sono uguali dinanzi alla legge, senza distinzione di religione”. .. l’art. 8 della Costituzione... dice che “tutte le confessioni religiose -e quindi anche l’ebraismo- sono egualmente libere davanti alla legge”.... l’art. 19 della Costituzione.. dice che “tutti -e quindi anche gli ebrei- hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, di farne propaganda e di esercitarne il culto anche in pubblico”. l’art. 9 della Convenzione internazionale sui diritti dell’Uomo dice che “ogni persona -e quindi anche l’ebreo- ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; questo diritto importa la libertà di cambiare religione o di pensiero, come anche la libertà di manifestare la propria religione o il proprio pensiero individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, per mezzo del culto, dell’insegnamento, di pratiche e di compimento di riti “.......l’art. 14 della medesima convenzione dice che “il godimento dei diritti civili e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere garantito a tutti, quindi anche agli ebrei, senza alcuna distinzione, fondata soprattutto sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o altre opinioni... l’art. 58 del regolamento penitenziario (D.P.R. 30.6.2000 n. 230... accorda a tutti i detenuti -e quindi anche agli ebrei- il sacrosanto diritto di esporre, nella propria camera o nel proprio spazio di appartenenza, immagini e simboli della propria confessione religiosa, evitando così qualsiasi possibile discriminazione tra i credenti.... l’art. 43 del D. L.vo n. 286/1998, titolato “Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” sanziona come atto discriminatorio “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulle........ convinzioni e pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica” e stabilisce che “compie un atto di discriminazione... il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione....... di appartenente ad una determinata..... religione lo discriminino ingiustamente” nonché “il datore di lavoro o i suoi preposti i quali....... compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una.............confessione religiosa”. ... l’art. 43 del D.L.vo 286/1998 sancisce che “Quando il comportamento....... della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi..... religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione.....
l’art. 2 del D. Lgs. n. 216/2003 sanziona qualsiasi forma di “discriminazione” da parte del datore di lavoro pubblico o privato, e cioè sia la “discriminazione diretta” (“quando, per religione...... una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga”) che quella “indiretta” (“quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione ...... in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”), sicché è a dir poco lampante che lo Stato non può -salvo commettere un patente atto discriminatorio- esporre l’idolo dei cattolici nelle aule e vietare allo “sporco” ebreo di esporre il proprio simbolo...... la convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995 e ratificata con Legge 28 agosto 1997, n. 302, .........sancisce all’art. 6 che “Le Parti incoraggeranno lo spirito di tolleranza ed un dialogo inter-culturale, ed adotteranno misure effettive per promuovere il rispetto e la comprensione reciproca, nonché la cooperazione tra tutte le persone che vivono sul loro territorio, a prescindere dalla loro identità ......religiosa....... e si s’impegnano ad adottare ogni misura appropriata per proteggere le persone che potrebbero essere vittime di minacce o di atti di discriminazione, di ostilità o di violenza in ragione della loro identità...... religiosa”...... l’art. 2, parte I^, della L. 8.3.1989 n. 101 ha sancito che “in conformità ai principi della Costituzione, è riconosciuto il diritto di professare e praticare liberamente la religione ebraica in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto e i riti”, che “é assicurata in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa, senza discriminazione tra i cittadini e tra i culti”...... l’art. 3 della legge 13.10.1975, ......., punisce con la reclusione sino a tre anni “chi commette atti di discriminazione per motivi...religiosi”.
E allora? Perché mai, a fronte di una normativa costituzionale, internazionale e penale così “chiara” e così ostile ad ogni forma di discriminazione religiosa, gli Organi Istituzionali della Repubblica Confessionale Cattolica italiana hanno osteggiato il mio diritto di esporre la menorà ebraica a fianco del crocifisso, cioè di godere della stessa dignità umana accordata alla superiore “razza” cattolica?..... Forse gli ebrei sono considerati esseri appestati che non possono vantare gli stessi diritti dei Giudici confessionali cattolici?
D. Quanto al 4° PUNTO, secondo cui “il rifiuto del Tosti di tenere le udienze a causa dell’imposizione dei crocifissi, deve ritenersi “giustificato” dalla necessità di non calpestare il principio supremo di laicità e di sottrarre il dipendente alla lesione attuale dei suoi diritti inviolabili di libertà religiosa e di eguaglianza e non discriminazione, cioè perché espressione del “diritto inviolabile di libertà di coscienza”:
- cfr. pag. 14-25 memoria per discussione datata 21.10.2008:
“A) Il “DIRITTO DI LIBERTA' DI COSCIENZA”: fonti normative e contenuto.
L'art. 1 della Convenzione, titolato “Obbligo di rispettare i diritti dell'uomo”, dispone che “le Alte Parti contraenti riconoscono ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà indicate nel titolo I della presente Convenzione”: i diritti inviolabili, dunque, sono diritti che vengono riconosciuti ad ogni persona, in contrapposizione agli Stati cui le persone appartengono.
Da queste premesse normative discende che i diritti inviolabili non possono subire limitazioni, violazioni o deroghe superiori a quelle previste dalla Convenzione e/o dalla Costituzione né subire, in caso di conflitto con altri valori primari, un “bilanciamento” che determini restrizioni superiori a quelle consentite.
Il che è mirabilmente espresso nella sentenza n. 11432/1997 delle Sezioni Unite della Cassazione civile: “Le situazioni enunciate come diritto assoluto alla libertà di coscienza e di religione, diritto assoluto all'eguaglianza ed alla non discriminazione, diritto di vedere rispettato come attori cittadini il principio fondamentale della laicità dello Stato e della Scuola, diritto alla salute anche psichica delineano la violazione di diritti primari, derivanti dallo stesso disposto costituzionale, rispetto ai quali nessun potere di sacrificio può individuarsi da parte della pubblica amministrazione. Non esiste alcun organo dello Stato (eccezion fatta per il Parlamento con le modalità e la procedura di modifica costituzionale) che possa incidere in maniera pregiudizievole sui diritti assoluti in cui si esprimono le libertà fondamentali costituzionalmente garantite. Se neppure al legislatore ordinario è consentito derogare ai principi costituzionali, a maggior ragione detta deroga non è consentita, NEPPURE IN VIA PROVVISORIA, alla pubblica amministrazione”.
....l'art. 17 della Convenzione, che sancisce che “nessuna disposizione della Convenzione può essere interpretata come contenente per uno Stato, un raggruppamento, o un individuo, un diritto a....compiere un atto che mira alla sospensione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o ad una limitazione di questi diritti e libertà maggiore di quella prevista dalla Convenzione”.
Dal tenore di questa disposizione si evince che gli Stati contraenti non possono OBBLIGARE i funzionari, magari dietro comminatoria di sanzioni penali e/o disciplinari, a compiere atti che provocano la lesione di diritti fondamentali, cioè ad “obbedire, tacendo”, ad atti normativi che violano diritti umani: se agli Stati fosse infatti consentita una siffatta facoltà, la tutela dei diritti inviolabili sarebbe non soltanto sospesa, ma addirittura annichilita..... da tutte le norme sopra citate si ricava il principio di diritto che nessuna persona -sia essa un soggetto privato o un pubblico funzionario- può essere costretta -sotto comminatoria di sanzioni penali, disciplinari, amministrative o civili- a ledere diritti “inviolabili” altrui.
I. Ma c’è di più. L’art. 9 della Convenzione, infatti, riconosce ad ogni persona (e quindi anche ai funzionari) il diritto inviolabile alla libertà di coscienza, sicché non si può disconoscere che, per libertà di coscienza legata al rispetto dei diritti umani altrui, chiunque sia autorizzato a disobbedire a qualsiasi legge o atto normativo che determini la lesione di questi diritti inviolabili.
II. E se il diritto di libertà di coscienza, espressamente riconosciuto dall’art. 9 della Convenzione, compete a chi non intende ledere i diritti inviolabili altrui, a maggior ragione deve essere riconosciuto ai titolari dei diritti inviolabili, ai quali, dunque, giammai potrà essere negato il diritto di “disobbedire, lecitamente, a qualsiasi legge o atto normativo od ordine che determini la lesione dei diritti inviolabili propri”!
III. Il contenuto del “diritto inviolabile di libertà di coscienza”, dunque, consiste nella “facoltà di rifiutarsi di compiere atti doverosi, motivata dalla necessità di evitare la lesione di diritti inviolabili, propri o altrui, che inevitabilmente conseguirebbe dall'adempimento dell'attività doverosa”.
Quindi, chi rifiuta l'atto doveroso pone necessariamente in essere una forma di “autotutela” di questa portata: “io mi rifiuto deliberatamente di adempiere l'atto doveroso perché, se lo facessi, subirei la lesione di diritti inviolabili miei, oppure lederei i diritti inviolabili di altri soggetti”.....Dalle considerazioni sopra esposte emerge che il “diritto di libertà di coscienza” ricalca, in sostanza, il paradigma della legittima difesa prevista dall'art. 52 C.P., con l'unica peculiarità che si tratta di una forma di autotutela contro atti normativi primari (leggi) o secondari (regolamenti, circolari etc.), di cui si deduce e si denuncia l'illegittimità costituzionale, cioè la lesività di DIRITTI PRIMARI.
Ogni qualvolta ricorra un'ipotesi di “libertà di coscienza” -ovverosia sussista il diritto di disubbidire per preservare diritti inviolabili propri o altrui- non vi può essere mai la necessità di procedere ad alcun cervellotico giudizio di “bilanciamento di interessi costituzionali contrapposti”, perché non vi può mai essere un “contestuale” interesse di rango costituzionale che possa rischiare di essere pregiudicato dall'esercizio del diritto di libertà di coscienza e che, dunque, possa “giustificare” il sacrifico del diritto inviolabile. Chi si rifiuta per libertà di coscienza, infatti, non entra in conflitto con altri valori costituzionali, ma denuncia, al contrario, che l’attività che gli viene imposta contrasta con canoni costituzionali (o convenzionali) che la rendono illecita e, dunque, lesiva di diritti inviolabili, cioè denuncia che il Legislatore ordinario o la Pubblica Amministrazione hanno travalicato i limiti imposti loro dalla Costituzione e/o dalla Convenzione e, pertanto, pretende il ripristino della LEGALITA’:
B) L' OBIEZIONE DI COSCIENZA
L’obiettore di coscienza è invece una sorta di “kamikaze fuori-legge”, che pretende di sottrarsi agli obblighi e ai precetti normativi perché li ritiene “contrari” ai SUOI personali convincimenti morali, religiosi o filosofici, senza però prospettarne o denunciarne alcun vizio di incostituzionalità.....l’obiettore, pretendendo di sottrarsi all’osservanza di norme di legge, senza però addurre la violazione di alcun precetto primario delle norme, finisce per “contestare” le scelte discrezionali operate dal Legislatore, al quale imputa di aver legiferato in modo contrastante con le SUE opinioni e coi SUOI convincimenti personali. E’ come se dicesse: “tu, Legislatore, non potevi legiferare nel modo in cui hai legiferato, perché la scelta che hai operato contrasta con i MIEI personali convincimenti, di cui dovevi tenere conto. Pertanto, dal momento che gli artt. 19 e 21 della Costituzione tutelano la mia libertà di religione e di opinione, io mi rifiuto di obbedire ad un comando che viola questi miei diritti”.
Questa pretesa è però viziata da un palese e macroscopico errore giuridico, che la rende assolutamente infondata.
Per un elementare e basilare principio Costituzionale, infatti, la potestà di legiferare non compete ai “cittadini”, ma al Legislatore, il quale la esercita con assoluta discrezionalità e col solo limite dell’osservanza dei precetti costituzionali e delle Convenzioni internazionali.
Nessun cittadino, dunque, può pretendere che il Legislatore emani norme che siano rispettose delle SUE peculiari credenze religiose, filosofiche, morali ed ideologiche: non solo perché sarebbe impossibile salvaguardarle tutte, ma anche perché le leggi sono il frutto della “mediazione” delle ideologie che si confrontano in sede parlamentare e, quindi, essendo approvate dalla maggioranza, sono obbligatorie per tutti.
D’altro canto, se neppure alla Corte Costituzionale è consentito interferire nelle scelte discrezionali del legislatore, è assurdo ipotizzare che una simile facoltà possa competere ai singoli cittadini!!!!
E' per questi motivi, pertanto, che la Corte Costituzionale ha costantemente escluso che l’ “obiezione di coscienza” possa avere una qualche rilevanza giuridica, cioè possa rendere “legittimo” il rifiuto di adempiere un obbligo giuridico: salvo che, ovviamente, una specifica legge non autorizzi in modo espresso l'obiezione di coscienza.
Il caso del giudice tutelare che pretese di sottrarsi all’obbligo di legge di autorizzare una minorenne ad abortire, perché lo riteneva contrario ai SUOI convincimenti religiosi, integra una chiara fattispecie di “obiezione di coscienza”: e tale è stata peraltro qualificata in modo espresso dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 196/1987. E, in effetti, quel giudice tutelare non dedusse che gli artt. 9 e 12 della L. 194/1978 contrastavano con diritti inviolabili o con principi costituzionali, ma si limitò a dedurre che gli obblighi impostigli dalle due norme “contrastavano” col “SUO modo di pensare”, pretendendo dunque di ottenere dalla Corte Costituzionale il “privilegio personale” di essere “esonerato” dal loro adempimento.
I principi affermati dalla Corte Costituzionale per “quel” caso sono dunque esattissimi, ma la Corte d’Appello ha errato ad applicarli al caso del dr. Tosti: il suo rifiuto non scaturisce infatti da un’obiezione di coscienza. Il dr. Tosti non si è rifiutato di tenere le udienze perché questa incombenza contrastava con suoi contrapposti convincimenti ideologici ma, al contrario, si è astenuto per la necessità di preservare obblighi e diritti di rango primario, denunciando, con puntuali riferimenti normativi, i vizi di illegittimità costituzionale che inficiavano le “modalità” con le quali gli veniva imposto di tenere le udienze.
Pertanto, il principio enucleato dalla sentenza n. 196/87, secondo cui “il conflitto tra l'adempimento dei propri doveri e l'imperativo contrario della propria coscienza poteva essere superato solo dando la prevalenza all'indeclinabile e primaria realizzazione della esigenza di giustizia, che discende dall'art. 54 e dall’art. 107 della Costituzione”, non poteva essere applicato al caso del dr. Tosti, che integra una chiara fattispecie di diritto di libertà di coscienza.
E la riprova inconfutabile dell’esattezza di queste conclusioni la si ricava dalle sentenze n. 85/1963 e n. 117/1979 della Corte Costituzionale, che hanno per oggetto “due” differenti casi di “rifiuto” di prestare il giuramento: il primo, motivato da una semplice “obiezione di coscienza”; il secondo, motivato dall’esercizio del “diritto di libertà di coscienza”.
La prima sentenza (la n. 85/1963) riguarda il caso di due testimoni che si rifiutarono di prestare il giuramento in quanto la “religione pentecostale”, da essi professata, vietava di prestare il giuramento sotto qualsiasi forma, conformemente all’insegnamento di San Matteo, capitolo V, 34-37, e che furono pertanto processati per il reato di cui all’art. 366 C.P.
Ebbene, la Corte Costituzionale, trattandosi di un evidentissimo caso di “obiezione di coscienza”, ritenne ingiustificato il loro rifiuto e, dunque, respinse l’eccezione di incostituzionalità con una motivazione che ricalca quella formulata per il giudice tutelare nella sentenza n. 196/1987: affermò cioè che “la libertà religiosa...non può essere intesa in guisa da contrastare e soverchiare l'ordinamento giuridico dello Stato, tutte le volte in cui questo imponga ai cittadini obblighi che, senza violare la libertà religiosa, si assumano vietati dalla fede dei destinatari della norma: tanto più, poi, quando, come nel caso in esame, l'obbligo ha la sua fonte in un precetto costituzionale, quale quello contenuto nel secondo comma dell'art. 54 della Costituzione, il quale stabilisce che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi previsti dalla legge”.
Con la seconda sentenza, la n. 117/1979, la Corte Costituzionale affrontò il caso del teste che si rifiutò anch’egli di giurare, questa volta però a causa dei riferimenti alla “divinità” contenuti nella formula di rito, subendo anch’egli un processo per il delitto previsto dall’art. 366 del C.P.
La Consulta, trattandosi in questo caso di un’evidente ipotesi di “rifiuto per libertà di coscienza”, cioè necessitato dall’esigenza di non subire la lesione del diritto di libertà religiosa, pervenne ad una pronuncia diametralmente opposta, e cioè dichiarò l’incostituzionalità dell’art. 251 del doc. di proc. civile, senza dunque attribuire, in questo caso, la benché minima rilevanza giuridica alla circostanza che i testimoni sono cittadini che esercitano “funzioni pubbliche” e che, inoltre, debbono “prestare giuramento per obbligo di legge”, ex art. 54 Costituzione.
Pertanto, il principio di diritto che è stato applicato al dr. Tosti risulta smentito e annichilito da queste due pronunce della Corte Costituzionale: da esse si evince infatti un principio diametralmente opposto, e cioè che l' “obbligo di adempiere le funzioni pubbliche con disciplina ed onore”, sancito dall’art. 54, comma 2°, a carico dei “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche”, non impedisce il legittimo esercizio del “diritto di libertà di coscienza” -cioè la facoltà di rifiutarsi di adempierle- ogniqualvolta ne derivi la lesione di diritti primari propri o altrui”.
Dunque, è palesemente erronea la petizione di principio secondo cui i giudici (anzi: tutti i funzionari, visto che l’art. 54 si riferisce a tutti “i cittadini cui sono affidate pubbliche funzioni”) hanno l’obbligo incondizionato di “obbedir tacendo”, anche quando ciò determina la lesione di diritti inviolabili.
Questo principio risulta smentito anche:
a) dalla citata sentenza della Corte di Cass. penale n. 7281/2000, che ha ritenuto giustificato il rifiuto di compiere un atto di ufficio, se ciò determina il “sacrificio” di un diritto primario del funzionario;
b) dalla citata sent. 11432/1997 delle SS.UU. civili, che hanno sancito che nessun organo dello Stato -e neppure il Legislatore- può derogare ai principi costituzionali o incidere in maniera pregiudizievole sui diritti e sulle libertà fondamentali dell’individuo;
c) dalla citata sentenza n. 4273/2000 (Montagnana) che, stante la sostanziale identità della fattispecie, doveva essere applicata al caso del dr. Luigi Tosti.
Il principio di diritto affermato dalla Corte di Appello, secondo cui ai magistrati compete sì il diritto di libertà di coscienza, ma esso diviene recessivo -cioè si annichilisce- di fronte all’obbligo dell’art. 54 della Costituzione di “adempiere le funzioni pubbliche con disciplina ed onore”, non può essere condiviso per altri due motivi.
1) Il primo è di ordine logico-giuridico: affermare infatti che ai magistrati compete il diritto di rifiutarsi di compiere attività doverose per libertà di coscienza, ma che questo diritto non può essere esercitato perché l’art. 54, comma 2° della Costituzione, lo vieta, è un vero e proprio ossimoro, dal momento che la conclusione nega la premessa da cui si è partiti.
2) Il secondo motivo è rappresentato dalla circostanza che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo stabilisce, agli articoli 15, 17 e 18, che non possono essere imposte ai diritti fondamentali dell’uomo deroghe o restrizioni maggiori di quelle previste dalla Convenzione: nel caso di specie dal tenore degli artt. 9, 13, 15 e 17 della Convenzione si ricava che non può essere imposto alcun limite o restrizione al “diritto di libertà di coscienza” di chicchessia.
cfr. poi pag. 6-11 memoria per discussione del 21.10.2008:
“ SECONDO MOTIVO: Erronea applicazione dell’art. 52 del codice penale in relazione alla prospettata scriminante della legittima difesa.... il dr. Luigi Tosti si è rifiutato di tenere le udienze dal 9 maggio 2005, e questo per sottrarsi ad atti di discriminazione religiosa che assumono, nella fattispecie, anche connotazioni criminali. L’art. 3 della legge 13.10.1975 n. 654, infatti, punisce con la reclusione sino a tre anni “chi...commette atti di discriminazione per motivi...RELIGIOSI”: e se il divieto agli ebrei di entrare nei locali pubblici integra un atto di criminale discriminazione razziale, non può non essere considerato un atto di criminale discriminazione vietare alle menorà ebraiche di entrare ed essere esposte nelle aule di giustizia, visto che ai crocifissi cattolici è consentita la pubblica affissione, addirittura a spese della collettività, “grazie” ad una circolare di un regime fascista e razzista. l’UNICO modo per sottrarsi alla criminale discriminazione religiosa e, comunque, per preservare i suoi diritti inviolabili di eguaglianza e di libertà religiosa, era quello di non tenere le udienze L’art 3 della legge 13.10.1975, infine, punisce con la reclusione sino a tre anni “chi commette atti di discriminazione per motivi...religiosi”.
E. Quanto al 5° PUNTO, secondo cui “il rifiuto del Tosti di accettare la “proposta mediatoria” del Presidente del Tribunale di tenere le udienze in un’aula che sarebbe stata allestita senza crocifisso, deve considerarsi del tutto legittimo”
cfr. Pag. 76-80 del ricorso per cassazione:
“... denuncio e rilevo, per l’ennesima volta, che l’indecente e criminale “offerta” di seguitare a tenere le udienze in un’aula ghetto, predisposta appositamente per me senza crocifisso, nella quale mi si vietava di esporre i miei simboli, non poteva e non può essere considerata una “soluzione valida”, che cioè io avrei dovuto accettare e che, dunque, ha reso “indebito”, ex art. 328 C.P., il mio rifiuto di tenere le udienze.
Questi i motivi, che ho peraltro vanamente esposto nei due gradi di giudizio, senza ottenere una sillaba di risposta:
Innanzitutto la “proposta” che mi è stata fatta viola il principio di legalità, sancito dagli artt. 97 e 101 della Costituzione, che TUTTI i giudici -e quindi anche il Presidente del Tribunale di Camerino ed il Presidente della Corte di Appello di Ancona- dovrebbero scrupolosamente osservare.. dal momento che il Ministro di Giustizia ha sostenuto che la circolare fascista del ministro Rocco è ancora viva e vegeta e va dunque osservata con scrupolo, è semplicemente delirante -e degno di una Repubblica delle banane- che questa circolare sia stata deliberatamente violata “per me”: la circolare fascista, infatti, non ammetteva e non ammette che si possano effettuare “deroghe” particolari per un’aula del Tribunale di Camerino o per il dr. Tosti.
Pertanto, delle due l'una: o il Crocifisso è legittimo, e quindi non è legittimo fare un'aula apposta per Tosti, oppure è illegittimo e dunque vanno rimossi tutti....L'inderogabilità dell'esposizione crocifisso è stata ulteriormente proclamata dall'Avvocatura di Stato nel giudizio dinanzi al TAR e, come se non bastasse, anche la Cassazione penale, Sez. III, con l'ordinanza n. 41.571, pubblicata il 18.11.2005, ha giustamente affermato che “è da escludere che un giudice, di qualsivoglia ordine e grado, possa prendere una decisione in contrasto con la circolare ministeriale Rocco”.. In terzo luogo rilevo.... che la proposta dell’aula-ghetto si profilava e si profila del tutto irrilevante alla luce della sentenza n. 4273/2000 della IV Sez. Penale della Cassazione, che ha sancito che l'esimente della “libertà di coscienza” non può dipendere dall'occasionale assenza del crocifisso in un'aula.... C'è anche da ribadire, l'assoluta impraticabilità della sconcia “soluzione” dell'aula-ghetto, sia perché le funzioni di GIP da me ricoperte debbono necessariamente svolgersi nell'aula “ufficiale”, attrezzata per la registrazione, sia perché io esercito abitualmente anche funzioni collegiali......Né è da sottovalutare l'ulteriore circostanza che vengo sovente applicato in altre sedi, in ipotesi anche al di fuori del distretto della Corte di Appello, sicché il regime di apartheid che mi si vorrebbe imporre -sino al mio pensionamento!!- è quanto di più assurdo, di ridicolo, di offensivo, di criminale e di lesivo della dignità umana si possa concepire: in ogni nuova sede, infatti, dovrebbe essere istituita in tutta fretta un'aula-ghetto per ospitare l'ebreo....”appestato”!! ribadisco che la soluzione “mediatoria” di essere confinato, sino al mio pensionamento, nell'aula-ghetto che è stata appositamente allestita, senza crocifissi, per il “perfido” dipendente ebreo, era inaccettabile perché essa integrava ed integra gli estremi del delitto previsto e punito dall’art. 3 della legge n. 654/1975, oltre che costituire una violazione del mio diritto di rango primario all’eguaglianza e alla non discriminazione, garantitomi dall’art. 3 della Cost. e dall’art. 14 della Convenzione.
- Cfr. inoltre a pag. 37-39 della memoria difensiva del 21.10.08:
“QUINTO MOTIVO: Inosservanza e/o erronea applicazione degli art. 97 e 101 Cost., art. 3 L. 654/1975, dell’art. 14 L. 4.8.1955 n. 848, art. 328 C.P., per aver qualificato come “indebito” il rifiuto di tenere le udienze nell’ “aula-ghetto”, allestita senza crocifisso dal Presidente del Tribunale di Camerino (606, lett. b, C.P.P.).
La Corte di Appello ha ritenuto che il rifiuto del dr. Tosti di tenere le udienze sia da ritenere “indebito” alla luce della circostanza che gli fu allestita un’aula-ghetto, senza crocifisso, dove “riprendere il suo lavoro”.
Questa motivazione non è soltanto erronea, ma è anche grottesca ed offensiva. Questi i motivi.
1°) L’allestimento dell’aula-ghetto integra gli estremi del delitto previsto e punito dall’art. 3 della legge n. 654/1975, oltre che costituire una violazione del diritto di rango primario del dr. Tosti all’eguaglianza e alla non discriminazione, garantitogli dall’art. 3 della Cost. e dall’art. 14 della Convenzione: il rifiuto di tale indecente proposta, dunque, è più che legittimo.
2°) La proposta dell’aula-ghetto non era accoglibile perché irrilevante: la IV Sez. Penale della Cassazione ha infatti statuito nella sentenza n. 4273/2000 che “la libertà di coscienza...non è divisibile a tutto tondo in modo da ritenerla esercitabile solo se riguardi il seggio di destinazione dell’agente come scrutatore e non la totalità dei seggi e cioè l’intera amministrazione....Ogni violazione del principio di laicità...non può non essere avvertita da una coscienza informata a quel principio come violazione di quel bene nella sua interezza, indipendentemente dal luogo in cui si verifichi, cosicché non è possibile attribuire rilevanza al fatto che casualmente la violazione non si verifichi nel seggio di destinazione”.
3°) La “proposta” che è stata fatta al dr. Tosti non poteva essere accolta perché viola il principio di legalità sancito dagli artt. 97 e 101 della Costituzione: se è infatti vero quanto sostenuto dalla P.A. -e cioè che la circolare fascista del ministro Rocco è ancora vigente- non si giustificavano e non si giustificano “deroghe” di favore per il dr. Luigi Tosti, dal momento che la legge è uguale per tutti.
Pertanto, delle due l'una: o il Crocifisso è legittimo, e quindi non è legittimo fare un'aula apposta per Tosti, oppure è illegittimo e dunque vanno rimossi tutti.
La Cassazione penale, Sez. III, ha peraltro affermato, con l'ordinanza n. 41.571, pubblicata il 18.11.2005, che “è da escludere che un giudice, di qualsivoglia ordine e grado, possa prendere una decisione in contrasto con la circolare ministeriale Rocco”: la regola, dunque, vale anche per i “Superiori” del dr. Tosti, che non avevano alcuna legittimazione a disporre la rimozione del Crocifisso dall’aula-ghetto.
4°) La proposta dell’aula-ghetto era inutile, sia perché le funzioni di GIP del dr. Tosti dovevano essere espletate in un’aula attrezzata per la registrazione, nella quale permaneva la presenza del crocifisso, sia perché il dr. Tosti espletava abitualmente anche funzioni collegiali.
Egli, inoltre, veniva applicato in altre sedi, in ipotesi anche al di fuori del distretto della Corte di Appello, sicché il regime di apartheid era ingiurioso e lesivo dei suoi diritti di eguaglianza e di libertà religiosa: in ogni nuova sede, infatti, sarebbe stato costretto ad esternare i propri convincimenti religiosi per l’allestimento di altre “aula-ghetto”.
F. Quanto al 6° PUNTO, secondo cui “la richiesta del dr. Luigi Tosti di poter esporre la menorà a fianco del crocifisso -al cui accoglimento aveva subordinato la PIENA DISPONIBILITA’ di seguitare a tenere le udienze- deve ritenersi pienamente AMMISSIBILE e, anzi, DOVEROSA da parte dell’Amministrazione:
cfr. pag. 6-11 memoria per discussione ricorso per cassazione n. 3482400 allegata alla memoria difensiva del 16.1.2010:
“Con la lettera del 3.5.2005 il dr. Luigi Tosti ha chiesto che venissero eliminati i crocifissi da tutte le aule o che, in subordine, egli fosse autorizzato ad esporre la menorà ebraica a fianco del Crocifisso: con questa richiesta ha rivendicato..... gli stessi diritti e la stessa dignità che la Repubblica Italiana riserva ai Cattolici. .... l’art. 2, parte I^, della L. 8.3.1989 n. 101 sancisce che “in conformità ai principi della Costituzione, è riconosciuto il diritto di professare e praticare liberamente la religione ebraica in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto e i riti”, che “é assicurata in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa, senza discriminazione tra i cittadini e tra i culti”.....- l’art. 2 del D. Lgs. n. 216/2003 sanziona qualsiasi forma di “discriminazione” da parte del datore di lavoro pubblico o privato, e cioè sia la “discriminazione diretta” (“quando, per religione...... una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga”) -il che ricorre in modo macroscopico nel caso in esame, dal momento che lo Stato consente l’esposizione dell’idolo cattolico ma vieta l’esposizione degli altri simboli- che quella “indiretta” (“quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione ...... in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”)Alla luce di tutta questa normativa..... è sconcertante constatare ......... che i Ministri di Giustizia.......... abbiano negato ad un dipendente di esporre, a proprie spese, la menorà a fianco del crocifisso: un’autorizzazione, questa, assolutamente possibile, ma che è stata negata perché i Ministri di Giustizia italiani sono “razzisti” e ritengono che gli ebrei siano indegni di affiancare i loro simboli a quello della “Superiore Razza Cattolica”.
G. Infine, quanto all’7° PUNTO, secondo cui “il rifiuto posto in essere dal dr. Luigi Tosti era conforme ai principi sanciti dalla Corte di Cassazione penale nella sentenza 1.3.2000 n. 4273, sicché egli non poteva essere condannato per essersi attenuto rigorosamente alle regulae juris stabilite dalla Suprema Corte per un “caso” che era sostanzialmente identico al “suo”::
cfr. pag. 89-98 ricorso per cassazione allegato alla memoria difensiva del 16.1.2010:
“UNDICESIMO MOTIVO: Travisamento della sentenza della Cassazione Penale, IV Sez., 1.3.2000, n. 4273 ( imp. Montagnana).
“Anche io, come il Montagnana, mi sono rifiutato di tenere le udienze ...... a causa delle illegittime modalità con le quali lo Stato allestisce le aule di udienze, e cioè perché le addobba con crocefissi che determinano, con nesso causale immediato e diretto la lesione delle mie prerogative costituzionali di imparzialità e indipendenza (quando giudico, voglio essere imparziale e non intendo, dunque, identificarmi in un simbolo religioso partigiano)...Per evidenziare ancor più le strettissime analogie tra i due casi, ritengo utile rileggere i passi salienti della “sentenza Montagnana”, adattandoli alle peculiarità del “caso Tosti”: “Il contenuto dell'ufficio di giudice consiste solo indirettamente nei compiti o nelle prestazioni ad esso connessi, ma direttamente ed immediatamente nella funzione di pubblico ufficiale che con la nomina egli viene ad assumere. Una volta designato, infatti, il giudice svolge una pubblica funzione, un'attività, cioè, che è diretta manifestazione di pubbliche potestà o - in senso enfatico - dell'autorità dello Stato per la presenza dei poteri tipici della potestà giurisdizionale, come indicati dal secondo comma dell'art. 357 cod. proc. pen. novellato dalle leggi n. 86 del 1990 e n. 181 del 1992 (cfr. Cass. sez. un. 24-09-1998, n. 10086, ced 211190). Il contenuto dell'ufficio di giudice è, quindi, quello di formare e manifestare la volontà dell’ amministrazione della Giustizia (Cass. sez. un. 27-03-1992, n. 7958, ced. 191173): e, quindi, innanzitutto la “inserzione nell'ufficio” (Cass. 5-5-1992, n. 5332, ced 189972).
È in relazione a questo immediato contenuto dell'ufficio di giudice che va quindi valutata l'esistenza del rapporto di causalità immediata con il motivo del rifiuto: ed essa, se pur dubbia o non appariscente in relazione ai singoli compiti assegnati al giudice, riemerge allora con immediatezza. Infatti, il dott. Tosti ha rifiutato di “svolgere la funzione di giudice”, piuttosto che i compiti ad essa connessi, e cioè l'inserzione come pubblico ufficiale in una amministrazione della Giustizia che, non provvedendo “affinché venga rimosso qualsiasi simbolo o immagine religiosa da tutte le aule di giustizia”, non garantisce, contro il suo convincimento, “il rispetto della irrinunciabile libertà di coscienza garantita dalla Costituzione a ciascun cittadino” e del “supremo principio costituzionale della laicità dello Stato”.
4. - L'immediatezza, e non la strumentalità, del rapporto tra il rifiuto motivato ed il contenuto dell'ufficio di giudice scaturisce dalla portata dell'invocato principio di laicità dello Stato, che con quel contenuto ha in comune la nota dell'imparzialità del giudice (art. 111 Cost.), in funzione della quale vanno organizzate le aule di giustizia, in cui il giudice è inserito, in particolare per garantire sotto i molteplici aspetti formali previsti dalla legge la libera formulazione del giudizio.
Il principio indicato implica un “regime di pluralismo confessionale e culturale” (corte cost. 12.4.1989, n. 203) e presuppone, quindi, innanzitutto l'esistenza di una pluralità di sistemi di senso o di valore, di scelte personali riferibili allo spirito o al pensiero, che sono dotati di pari dignità e, si potrebbe dire, nobiltà. Ne consegue una pari tutela della libertà di religione e di quella di convinzione, comunque orientata: infatti, anche “la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici” è garantita in connessione con la tutela della “sfera intima della coscienza individuale” (corte cost. 19.12.1991, n. 467), conformemente all'interpretazione dell'art. 19 Cost (che tutela la libertà di religione, non solo positiva ma - come riconosciuto dalla corte fin dalla sentenza 10.10.1979, n. 117, e ribadito da quella 8.10.1996, n. 334 - anche negativa: vale a dire, anche la professione di ateismo o di agnosticismo) e all'art. 9 della convenzione europea dei diritti dell'uomo, resa esecutiva con l. 4.8.1955, n. 848 (che tutela la libertà di manifestare “la propria religione o il proprio credo”).
Il detto principio, inoltre, si pone come condizione e limite del pluralismo, nel senso di garantire che le aule di giustizia deputate al conflitto tra i sistemi indicati siano neutrali e tali permangano nel tempo: impedendo, cioè, che il sistema contingentemente affermatosi getti le basi per escludere definitivamente gli altri sistemi......
6. - La rimozione del simbolo religioso del crocifisso da ogni aula di giustizia, che è la condizione a cui il dott. Luigi Tosti aveva subordinato l'espletamento della funzione di giudice = pubblico ufficiale imparziale, si muove lungo questo solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale in termini di laicità e pluralismo, reciprocamente implicantisi........
In particolare, l'imparzialità della funzione del giudice-pubblico ufficiale è strettamente correlata alla neutralità (altro aspetto della laicità, evocato sempre in materia religiosa da corte cost. 15.7.1997, n. 235) delle aule di giustizia deputate alla formazione dei processi decisionali nelle cause civili e penali, che non sopporta esclusivismi e condizionamenti sia pure indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del contenuto di fede, che ogni immagine religiosa simboleggia..........
Sta di fatto, tuttavia, che la condizione apposta dal dot. Tosti non si è verificata e che egli ne ha tratto motivo per non ritenere garantito il principio di laicità dello stato e quindi - con un rapporto tra causa ed effetto - di imparzialità della propria funzione di giudice, inducendolo ad un'azione di rifiuto adeguata a tali principi costituzionali.........
Ora la libertà di coscienza, prospettata per dir così a tutto tondo, non è divisibile in modo da ritenerla esercitabile solo se riguardi l’aula utilizzata dall'agente come giudice e non la totalità delle aule e cioè l'intera amministrazione della Giustizia........... Ogni violazione del principio di laicità nel modo indicato in qualsivoglia aula giudiziaria non può non essere avvertita da una coscienza informata a quel principio come violazione di quel bene nella sua interezza, indipendentemente dal luogo in cui si verifichi, cosicché non è possibile attribuire rilevanza al fatto che casualmente la violazione non si verifichi nell’aula di destinazione.
Costituisce, pertanto, giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di giudice la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo di laicità dello Stato e l'adempimento dell'incarico a causa dell'organizzazione della Giustizia in relazione alla presenza obbligatoria nelle aule giudiziarie, pur se casualmente non in quella di specifica destinazione, del crocifisso o di altre immagini religiose.”]

SECONDO MOTIVO
Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio (art. 360 n. 5, c.p.c.)
In via gradata al motivo che precede, nell’ipotesi che si voglia sostenere che la sezione disciplinare si è comunque pronunciata sull’intero capo di incolpazione, dal momento che ha condannato il dr. Tosti per l’omessa tenuta di TUTTE le udienze in esso elencate, si denuncia vizio di omessa motivazione, perché non è dato capire né “come” siano state valutate le pretese sostanziali del Tosti (se cioè diritti inviolabili o mere obiezioni di coscienza) né perché, in presenza della lesione di diritti inviolabili, al funzionario dovrebbe esser vietato avanzare richieste, diffide e ultimatum, prospettando la necessità di rifiutarsi di adempiere attività doverose al fine di salvaguardare propri diritti e proprie prerogative inviolabili, né perché al dipendente sia vietato -nel caso di concreta lesione di diritti inviolabili- di autotutelarsi col rifiuto di adempiere attività doverose che lo espongono, con nesso causale diretto e immediato, alla lesione irreversibile di quei diritti, né perché i principi sanciti dalla Cassazione penale nella sent. Montagnana non siano applicabili al dr. Tosti, né perché sia stato ritenuto legittimo l’allestimento di un’aula-ghetto in deliberata violazione sia della circolare fascista, ritenuta tuttora vigente, che della pronuncia n. 41.571/2005 della terza sezione penale della Cassazione, né perché il confino del Tosti in un’aula-ghetto fosse idoneo a salvaguardare il principio supremo di laicità che, al contrario, necessita della rimozione generalizzata dei crocifissi, come espressamente sancito dalla Cass. pen. nella sentenza n. 4273/2000, né perché il confino del Tosti in un’aula, col contestuale divieto di esporvi i propri simboli, potesse ritenersi compatibile col divieto di discriminazioni religiose nell’ambiente di lavoro, sanzionato civilmente dall’art. 2 del D.lgs. n. 216/2003 e, penalmente, dall’art. 3 della legge n. 654/1975, né perché il “rimedio” di confinare il Tosti in un’aula potesse ritenersi compatibile col suo diritto inviolabile di non essere costretto a manifestare i propri convincimenti religiosi, né perché l’aula “speciale” fosse idonea a garantirgli di tenerci le udienze penali e quelle collegiali civili -che andavano invece necessariamente tenute nelle aule “ufficiali”- e quelle che avrebbe dovuto tenere in altri uffici del distretto o extradistretto in seguito alla coassegnazione presso il Tribunale di Macerata o all’applicazione o a trasferimenti presso altre sedi.
La sezione disciplinare ha accuratamente obliterato qualsiasi motivazione su tutti questi punti, limitandosi ad affermare, in modo apodittico e senza un solo richiamo di una norma giuridica e/o di una sentenza che li supporti, i QUATTRO POSTULATI sopra menzionati, e cioè:
1. che non era necessario valutare la fondatezza o meno delle pretese di rimozione dei crocifissi da parte del Tosti e dei “motivi” che lo avevano indotto ad astenersi dalle udienze;
2. che a nessun pubblico funzionario in genere, ma in particolare ai magistrati, è concessa la facoltà di rifiutarsi di adempiere attività di servizio per salvaguardare prerogative di rango costituzionali e/o propri diritti inviolabili;
3. che la “stanza” personale del Tosti e l’aula allestitagli senza crocifisso erano idonee a salvaguardare il rispetto del suo diritto di libertà religiosa;
4. che il dott. Tosti non poteva pretendere la rimozione dei crocifissi da tutte le aule italiane e da tutte le aule del Tribunale di Camerino, ma soltanto dalla singola aula in cui era chiamato a tenere le udienze.
Se questo significa “motivare”, non vi è all’evidenza alcuna necessità di ricorrere a personale qualificato (e lautamente stipendiato) per decidere le controversie: chiunque, facendo ricorso ai propri personali convincimenti, è in grado di formulare giudizi e “postulati”.
Questo modus operandi non può essere accettato. Eludere la motivazione significa infatti violare, in primo luogo, il fondamentale diritto di difesa, cioè il diritto delle parti di conoscere le ragioni del rigetto o dell’accoglimento delle domande e delle eccezioni: ma significa anche costringere altri giudici -nella specie la Corte di Cassazione- a sobbarcarsi il lavoro omesso da altri.
E sul fatto che il “nuovo” CSM abbia eluso l’obbligo motivazionale non possono esservi dubbi: basta soltanto confrontare la motivazione della sentenza di condanna -cioè il vuoto- con la motivazione dell’ordinanza di sospensione cautelare del precedente CSM, che ha invece diligentemente affrontato e deciso tutti i punti, ancorché con motivazione che il ricorrente ha ritenuto e ritiene affetta da errori di diritto. Il “nuovo” CSM avrebbe potuto, volendolo, “copiare” quell’ordinanza, come provocatoriamente suggerito dal dr. Tosti: la circostanza che non l’abbia fatto è eloquente e ad un tempo inquietante, perché dimostra che la Sezione disciplinare del CSM era perfettamente consapevole che l’incolpato doveva essere assolto sulla base delle medesime motivazioni che avevano supportato la sua sospensione cautelare.
TERZO MOTIVO
Omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio (art. 360 n. 5, c.p.c.)
In ulteriore via gradata al motivo che precede, si denuncia la contraddittorietà dei postulati sui quali si fonda l’intera motivazione della sentenza.
PRIMA CONTRADDIZIONE.
Il CSM ha fondato la condanna del dr. Tosti sul “postulato” che la predisposizione di un’aula senza crocifisso costituiva rimedio idoneo a salvaguardare il suo diritto di libertà religiosa, sicché egli non aveva più un valido motivo per rifiutarsi. Argomentando a contrario, però, si deve ritenere che il “rifiuto” del dr. Tosti fosse giustificato prima che gli venisse allestita quell’aula: questo assunto, però, si pone in insanabile conflitto logico con la circostanza che il dr. Tosti non è stato condannato per le sole udienze omesse dopo l’allestimento dell’aula senza crocifisso, ma per TUTTE le udienze contestategli. E, in effetti, l’annuncio dell’allestimento dell’aula-ghetto risale al 19.7.2005 (doc. n. 19 sottofascicolo “A” dell’incolpato), sicché è inconfutabile che almeno 19 delle 25 udienze per le quali il Tosti ha riportato condanna si collocano in momenti antecedenti a tale data: per esse, dunque, non sussiste plausibile giustificazione di condanna o, se si preferisce, sussiste contraddittorietà tra motivazione e dispositivo.
SECONDA CONTRADDIZIONE.
Il CSM ha affermato che il dr. Tosti non poteva rifiutarsi di tenere le udienze sotto l’incombenza dei crocifissi, anche nell’ipotesi in cui la prestazione di questa attività lo avesse esposto a subire la lesione di diritti inviolabili (postulato dell’“ubbidir tacendo”). Come sopra visto, però, la condanna del Tosti poggia su una motivazione diametralmente opposta, e cioè che il dr. Tosti non poteva rifiutarsi di tenere le udienze dopo che gli fu messa a disposizione un’aula senza crocifisso perché quest’aula, a giudizio del CSM, gli garantiva il rispetto del diritto di libertà religiosa. Questi due postulati confliggono in modo insanabile tra di loro. E, in effetti, delle due l’una: o il CSM ritiene che il dr. Tosti era obbligato a tenere le udienze sotto l’incombenza dei crocifissi -ma in questo caso non ha senso affermare che il suo rifiuto deve considerarsi indebito perché gli è stata messa a disposizione un’aula senza crocifisso- oppure il CSM ritiene che il rifiuto del Tosti deve ritenersi indebito solo perché gli è stata messa a disposizione un’aula senza crocifissi: ma in questo caso è contraddittorio affermare che egli fosse obbligato a tenere le udienze sotto l’incombenza dei crocifissi, anche se questo provocava la lesione di diritti inviolabili.
D’altro canto, se un magistrato si rifiuta di tenere le udienze perché l’Amministrazione non gli fornisce un trono d’oro in sostituzione del normale scranno in legno, non ha senso rimuoverlo dalla magistratura perché non ha accettato la proposta “mediatoria” di tenerle su un trono d’avorio, dal momento che la sua “pretesa iniziale” era infondata e l’Amministrazione non aveva, dunque, alcun obbligo di sostituire lo scranno in legno con scranni di maggior pregio.
Alla stessa stregua, dunque, se si parte dal presupposto che la “pretesa” del dr. Tosti di non tenere le udienze sotto l’incombenza dei crocifissi è da ritenere comunque infondata, non ha senso rimuoverlo dalla magistratura perché non ha accettato la proposta alternativa di tenerle in un’aula senza crocifisso, dal momento che l’Amministrazione non era tenuta ad allestirgli un’aula senza crocifisso, cioè difforme dalle prescrizioni di legge.
Oltre ad essere contraddittoria, la motivazione si profila su questo punto anche OMESSA e INSUFFICIENTE. Dal momento, infatti, che la proposta di tenere le udienze in un’aula senza crocifissi divergeva dalle richieste effettive del Tosti (questi aveva infatti chiesto la rimozione dei crocifissi da tutte le aule o, in subordine, l’autorizzazione ad esporre i propri crocifissi), il CSM non poteva esimersi dall’esaminare la fondatezza o meno delle richieste del Tosti e, in caso affermativo, di valutare se la proposta “alternativa” dell’Amministrazione (aliud pro alio) fosse idonea a soddisfare le pretese del Tosti.
In altri termini, se ad esempio un somministrante sospende la somministrazione perché il somministrato non versa il corrispettivo in danaro e, poi, si rifiuta di accettare in pagamento la cessione di una nave al posto del danaro, non può il giudice omettere di pronunciarsi sulla legittimità dei “motivi” della sospensione della somministrazione (cioè la “morosità), adducendo la circostanza che il somministrato gli ha successivamente offerto un aliud pro alio. Al contrario, il giudice deve prima valutare se la sospensione della somministrazione fu giustificata dalla morosità e, solo in caso positivo, valutare se l’offerta di un aliud pro alio sia stata idonea a sanare la morosità e a rendere dunque ingiustificabile la persistenza del rifiuto. Questo stesso onere motivazionale doveva essere espletato dal CSM nel caso di specie, e cioè il CSM doveva valutare se il rifiuto del dr. Tosti di tenere le udienze a causa dell’imposizione dei crocifissi e del divieto di esporre i propri simboli era fondato: soltanto in caso positivo il CSM aveva l’onere di verificare se l’offerta dell’aula senza crocifisso era idonea a soddisfare le diverse pretese del Tosti.
TERZA CONTRADDIZIONE.
La motivazione è altresì contraddittoria perché per un verso condivide (pag. 17) il principio affermato dalla sentenza delle Sezioni Unite civili n. 11432 del 1997, secondo cui “nessun provvedimento amministrativo può limitare diritti fondamentali di libertà, al di fuori degli spazi eventualmente consentiti da una legge ordinaria conforme a costituzione”, per altro verso, però, proclama un “postulato” diametralmente opposto, e cioè che “non è dato ai pubblici funzionari in genere, ma ai magistrati in particolare, di ....subordinare la prestazione doverosa del proprio servizio al soddisfacimento di pretese di carattere generale”. Ora, è evidente che non si possa contemporaneamente affermare che la P.A. non può limitare i diritti fondamentali degli individui e che, poi, gli individui che siano lesi nei loro diritti individuali da parte della P.A. non abbiano il diritto di sottrarsi a tale lesione: quest’ultima petizione, infatti, postula l’affermazione che la P.A. può limitare o calpestare i diritti inviolabili (ad esempio: ordinare lo sterminio degli ebrei e dei rom) e che i titolari dei diritti debbono soggiacervi remissivamente!
QUARTA CONTRADDIZIONE. La motivazione è contraddittoria nella parte in cui, da un lato richiama e “condivide” l’ordinanza di sospensione n. 112/2006, che afferma che la pretesa del Tosti di ottenere la rimozione di TUTTI i crocifissi da TUTTE le aule giudiziarie italiane era GIURIDICAMENTE fondata, ma, dall’altro lato, afferma l’esatto contrario, e cioè che la pretesa del Tosti di ottenere la rimozione di TUTTI i crocifissi da TUTTE le aule è una mera “questione di principio” e che lo stesso dr. Tosti “era consapevole di non poter pretendere la rimozione dei crocifissi da aule diverse da quelle dove egli stesso esercitava la giurisdizione”.
Tutti i vizi motivazionali sin qui evidenziati cadono su fatti decisivi e rendono del tutto incomprensibile l’iter logico che supporta la decisione finale.
QUARTO MOTIVO
Insufficienza della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5, c.p.c.)
Il CSM afferma a pag. 15 della sentenza il CSM che “una lesione diretta del fondamentale diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione del dott. Tosti.... potrebbe essere messa in discussione solo se gli fosse imposto l’obbligo di esercitare la giurisdizione, in contrasto con le sue più profonde e radicate convinzioni, sotto la sua tutela simbolica.
Da questo brano si arguisce che, secondo il CSM, giammai la Pubblica Amministrazione avrebbe costretto il dr. Tosti ad esercitare la giurisdizione sotto la “tutela simbolica” dei crocifissi. Questa ricostruzione dei fatti è però inveritiera e smentita dagli atti processuali: da essi risulta infatti in modo incontrovertibile che il dr. Tosti, in realtà, è stato costretto ad esercitare la sua giurisdizione sotto la “tutela simbolica” dei crocifissi.
Gli elementi probatori che smentiscono ed annichiliscono la ricostruzione dei fatti operata dal CSM sono infiniti. Si citano soltanto i seguenti:
1. come risulta dal doc. n. 4 del sottofascicolo “A” dell’incolpato, il Presidente del Tribunale di Camerino dr. Aldo Alocchi ha respinto il 23.12.2003 la richiesta di rimozione dei crocifissi asserendo che “la circolare del ministro Rocco, con la quale è stata prescritta l’affissione del crocifisso nelle aule di udienza, costituisce una norma interna....tuttora vigente...Ne consegue che le tue domande non possano trovare accoglimento”: dalla reiezione della sua domanda di rimuovere i crocifissi si deduce che al dr. Luigi Tosti è stato imposto di tenere le udienze sotto l’incombenza dei crocifissi.
2. Dal sottofascicolo “F” (doc. 1) risulta che il dr. Luigi Tosti, con ricorso del 20.4.2004, ha chiesto al TAR delle Marche la rimozione dei crocifissi dalle aule giudiziarie chiedendo nelle conclusioni (pag. 21) che “A) In via cautelare: che il Tribunale Amministrativo Regionale adito voglia disporre la misura cautelare della rimozione dei crocifissi dalle aule del Tribunale di Camerino, ordinando dunque al Ministero di Giustizia e al Presidente del Tribunale di Camerino di procedere alla rimozione senza indugio, con contestuale comminatoria, in caso di ulteriore ritardo, di nomina di commissario ad acta alla scadenza del termine fissato; B) Nel merito: che l'Ecc.mo T.A.R. adito, accertata la lesione dei diritti soggettivi del ricorrente e la conseguenziale illegittimità del rifiuto opposto dal Ministro di Giustizia, voglia ordinare al Ministro di Giustizia e al Presidente del Tribunale di Camerino di rimuovere dalle aule del Tribunale di Camerino il simbolo religioso del crocifisso, condannando dunque l'Amministrazione ad eseguire la rimozione senza indugio, con contestuale comminatoria, in caso di ulteriore ritardo, di nomina di commissario ad acta alla scadenza del termine fissato”. Dal tenore di queste domande giudiziali si deduce che al Tosti veniva imposto di tenere le udienze sotto la tutela simbolica dei crocifissi perché, altrimenti, egli non avrebbe proposto il ricorso al TAR per chiederne la rimozione.
3. Dal sottofascicolo “F”, doc. 2, risulta che l’Avvocatura di Stato si è costituita nell’interesse del Ministro nel giudizio dinanzi al TAR, resistendo alla domanda del Tosti e asserendo che andava “riconosciuta piena dignità e legittimità ermeneutica alla tesi sostenuta dal Presidente del Tribunale nella nota del 23.12.2003 con cui comunicava all’interessato di non poter accogliere le sue richieste di rimozione dei crocifissi dalle aule del tribunale...”: dal tenore dello scritto difensivo, imputabile all’Amministrazione ed avente dunque natura confessoria, risulta documentalmente provato che l’Amministrazione ha imposto al Tosti di tenere le udienze sotto l’incombenza dei crocifissi e che ciò fosse conforme a legge.
4. Dal sottofascicolo “F”, doc. 8, risulta che il TAR delle Marche ha dichiarato il difetto di giurisdizione sulla domanda proposta dal Tosti coi motivi aggiunti per ottenere che, “accertata la lesione dei diritti soggettivi del ricorrente e la conseguenziale illegittimità dei rifiuti opposti dal Ministro di Giustizia, venisse ordinato in via principale al Ministro di Giustizia e al Presidente del Tribunale di Camerino di rimuovere dalle aule del Tribunale di Camerino e dalle aule di tutti gli uffici giudiziari il simbolo religioso del crocifisso, condannando dunque l'Amministrazione ad eseguire la rimozione senza indugio” e, “in via gradata, condannare l'Amministrazione ad esporre a proprie spese in tutte le aule giudiziarie italiane tutti gli altri simboli religiosi, atei ed agnostici e, in ogni caso, la menorà ebraica. In via più gradata consentire al ricorrente di esporre altri simboli religiosi, atei o agnostici in qualsiasi altra aula giudiziaria italiana.” Da tale pronuncia si evince che al dr. Tosti veniva imposto di tenere le udienze sotto i crocifissi perché, altrimenti, non avrebbe fatto quelle richieste e la Controparte ne avrebbe comunque eccepito la non corrispondenza al vero.
5. Dalla lettera del 1.5.2005 (doc. n. 14 del sottofascicolo “A” del Tosti) risulta che l’incolpato ha inviato al Ministro di Giustizia un ultimatum col quale gli ha ingiunto testualmente: “chiedo: in via principale che l'Amministrazione Giudiziaria provveda a rimuovere da tutti gli uffici giudiziari il simbolo religioso del crocifisso; in via subordinata -e in attesa della decisione definitiva del mio ricorso da parte del TAR delle Marche- che l'Amministrazione esponga permanentemente nelle aule giudiziarie, a sue spese, o che consenta a me di esporre permanentemente nelle aule giudiziarie, a mie spese, il simbolo della menorà della religione ebraica, cui ho aderito anche agli effetti della legge n. 101/1989. Per l'ipotesi in cui nessuna delle due richieste trovi accoglimento entro il giorno 8 maggio 2005, mi rifiuterò di prestare le mie funzioni di magistrato a causa della presenza del simbolo del crocifisso nelle aule giudiziarie”. Dal tenore di tale richiesta si argomenta che al dr. Tosti venivano imposti i crocifissi, perché altrimenti non l’avrebbe formulata.
6. Nella lettera del 25.5.2005 a firma del Presidente Alocchi (doc. n. 16 sottofascicolo “A” del Tosti) si legge che al dr. Tosti è stato rivolto l’invito formale a “tenere le udienze almeno nella sua stanza o in altra senza crocifisso”: da tale lettera, avente anch’essa carattere confessorio, si arguisce in modo incontrovertibile che al Tosti veniva imposto di tenere le udienze sotto l’incombenza dei crocifissi e che la prima offerta di tenerle nella sua stanza, in “deroga” alla circolare del Ministro fascista, gli pervenne solo in tale data e dopo reiterati rifiuti.
7. Le stesse considerazioni valgono per la nota 19.7.2005 a firma del Presidente Alocchi (doc. n. 19 sottofascicolo “A” del Tosti) dove si comunica al Tosti l’allestimento (e non già la disponibilità attuale) di un’ “aula-ghetto”, senza crocifisso, con invito al Tosti di tenervi le udienze quando sarà ultimata: dal che si trae l’indefettibile conclusione che sino alla data del 19.7.2005 (e in realtà anche oltre) al dr. Tosti fu preclusa la possibilità di tenere le udienze in “quella” aula senza crocifisso, perché inesistente.
Riepilogando: tutte queste prove documentali dimostrano, in modo incontrovertibile, che al dr. Luigi Tosti venne imposto di tenere le udienze sotto l’incombenza dei crocifissi e che la prima proposta di tenerle nella sua “stanza”, e poi in un’aula senza crocifisso, gli fu formulata, rispettivamente, in data 25.5.2005 e in data 19.7.2005. E’ dunque provato che il Tosti fu costretto a tenere le udienze sotto l’incombenza dei crocifissi quanto meno sino al 19.7.2005 ma che, in realtà, vi fu costretto sino alla data in cui venne materialmente allestita questa aula-ghetto (si ignora se e quando sia stata allestita).
Concludendo, la sentenza deve ritenersi inficiata da insufficienza motivazionale, perché la Sez. disc. non ha tenuto conto di tutti questi elementi probatori. Trattasi di fatto decisivo, perché l’accertamento di questo fatto rende ingiustificabile la condanna che è stata inflitta al Tosti “anche” per i “rifiuti” anteriori alle date di messa a disposizione delle aule senza crocifisso.
Ma c’è di più. Il CSM avrebbe potuto condannare il Tosti SOLO sulla base della dimostrazione che fu effettivamente allestita un’aula senza crocifisso. Su questo punto vi è totale carenza di prova e di motivazione: e l’onere probatorio non incombeva certamente sull’incolpato. Il dr. Tosti ha peraltro chiesto il proprio esame e la prova per testi. Sulla prima richiesta il CSM ha omesso qualsiasi pronuncia, precludendo al Tosti di sottoporsi all’esame ed esporre (anche) questa circostanza di fatto. La prova per testi è stata poi respinta dal Presidente della Sezione disciplinare perché i fatti, a suo dire, erano già provati dal giudicato penale. Se la prova fosse stata ammessa, sarebbe stato dimostrato se e in quale data fu realmente allestita l’aula-ghetto.
La motivazione si profila dunque omessa o, comunque, non sufficiente, perché non esiste alcun accertamento sulla data in cui l’aula-ghetto sarebbe stata allestita. Il dr. Tosti aveva dunque il diritto di escutere il Presidente del Tribunale su questa e sulle altre circostanze. I suoi diritti di difesa sono stati dunque calpestati e la sentenza deve ritenersi affetta dal vizio motivazionale denunciato.
QUINTO MOTIVO
Violazione e falsa applicazione degli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione (cioè del principio supremo di laicità dello Stato) - Violazione e falsa applicazione degli articoli art. 19 della Costituzione e dell’art. 9 della L. 848/1955 (cioè del diritto di libertà religiosa) - Violazione e falsa applicazione degli articoli 3 della Costituzione, dell’art. 14 della L. 4.8.1955 n. 848, dell’art. 2 del D. Lgs. 9 luglio 2003 n. 216, dell’art. 3 della L. 654/1975, dell’art. 43 del D. L.vo n. 286/1998, degli articoli 1, 4, 5, 6, 7 ed 8 della Legge 28.8.1997 n. 302, dell’art. 2, parte I^, della L. 8.3.1989 n. 101 (cioè del diritto di eguaglianza e non discriminazione) - Violazione e falsa applicazione degli articoli 2 della Costituzione e degli articoli 1, 9, 13 e 17 della Convenzione sui diritti dell'uomo (L. n. 848/1955), degli artt. 52 e 54 C.P., 2044, 2045 e 1460 cod. civ. (cioè del diritto di libertà di coscienza e/o del diritto di autotutela e/o dello stato di necessità) - Violazione e falsa applicazione dell’art. 629 del codice penale (Art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c.).
Col secondo POSTULATO il CSM ha ritenuto che il dr. Tosti fosse obbligato a tenere le udienze anche in ipotesi di conclamata lesione del principio supremo di laicità e dei suoi diritti inviolabili di libertà e di eguaglianza religiosa, e cioè che fosse sfornito di qualsiasi diritto o facoltà di “autotutela”.
Secondo il CSM, infatti, “non è dato ai pubblici funzionari in genere, ma ai magistrati in particolare, di imporre condizioni o ultimatum all’amministrazione di appartenenza subordinando, in termini più consoni a richieste ricattatorie ed estorsive, la prestazione doverosa del proprio servizio al soddisfacimento di pretese di carattere generale, fossero anche mosse da motivazioni di carattere ideale...... La pretesa di subordinare l’adempimento del proprio dovere alla eliminazione in tutte le aule d’Italia del simbolo religioso ha la stessa coerenza logica e la stessa consistenza giuridica della pretesa delle sua eliminazione dalle aule scolastiche o del rifiuto apposto da un professore di scuola di tenere lezione perché il crocifisso è, viceversa, affisso alla parete dell’aula di giustizia ove un qualunque magistrato tiene udienza”.
1°) Il CSM non si è premurato di indicare quali siano i riferimenti normativi che supportano questo singolarissimo postulato, ma le conseguenze che scaturiscono dalla sua condivisione sono a dir poco grottesche.
Ad esempio, nell’ipotesi in cui una circolare del Ministro di Giustizia fascista disponga che i giudici ebrei debbano tenere le udienze con crocifissi radioattivi appesi al collo e che per tutta la durata delle udienze debbano essere incessantemente sodomizzati con le pere metalliche in uso ai Tribunali della Santissima Inquisizione, nonché vilipesi -anche con sputi- da dieci dipendenti del Ministero di Giustizia che li attorniano, a questi giudici -adottando il “postulato” clerico/fascista dell’obbedir tacendo- dovrebbe essere inibito il diritto di rifiutarsi di tenere le udienze per salvaguardare i diritti alla vita, all’integrità fisica, alla non tortura, all’onore, alla libertà di religione etc.
Alla stessa stregua, se la segretaria del Ministro di Giustizia venisse costantemente violentata ogni qual volta entra nell’ufficio del Guardasigilli, costei -come testualmente afferma il CSM- non potrebbe “subordinare la prestazione doverosa del suo servizio” alla “pretesa” “ricattatoria ed estorsiva” (!!!!) “di non essere più violentata dal Ministro” perché, altrimenti, dovrebbe essere “rimossa” dal pubblico impiego come il dr. Tosti!
Anche i magistrati che “scioperano”, che cioè subordinano la prestazione doverosa del loro servizio a pretese “ricattatorie” di contenuto economico o, addirittura, a pretese “ricattatorie” di carattere ideale come l’approvazione di particolari leggi di competenza esclusiva del Parlamento, dovrebbero essere rimossi. Ma non sembra che ciò sia mai accaduto.
Idem per i magistrati che non tengono le udienze perché sono in congedo, in malattia o in maternità, e per quelli che si rifiutano di tenere le udienze perché il palazzo di giustizia, magari in seguito ad un terremoto, è pericolante: tutti costoro dovrebbero essere rimossi. Ma non è mai avvenuto.
Il principio dell’ “obbedir tacendo” dovrebbe poi essere applicato ai magistrati che si rifiutano ex abrupto di tenere le udienze per la “ricattatoria” pretesa di essere assistiti da un cancelliere che, invece, manca. Guarda caso, però, come risulta dal doc. n. 1 del sottofascicolo “B” dell’incolpato Tosti è lo stesso CSM presieduto dall’avv. Nicola Mancino che, rispondendo al quesito “se i magistrati dell’Ufficio possano o meno rifiutarsi di tenere l’udienza senza assistenza del cancelliere”, ha escluso che costoro possano essere rimossi dalla magistratura se “si rifiutano di tenere le udienze perché manca il cancelliere”. Il CSM ha infatti “sentenziato”, nella seduta del 14.2.2007, la piena legittimità della loro “estorsione”, e cioè del “rifiuto di tenere udienza, anche in procedimenti cautelari” a causa dell’assenza del Cancelliere, sebbene “la consolidata giurisprudenza di legittimità” escluda che “la redazione del processo verbale da parte del Cancelliere sia imposta a pena di nullità”!!!
Come si vede, dunque, l’apodittico “postulato” del CSM, secondo cui i dipendenti pubblici (e in particolare i “magistrati”) non possono subordinare la prestazione doverosa del proprio servizio al soddisfacimento di proprie pretese, è in primo luogo smentito dalla realtà dei fatti, oltre che dal buon senso: esistono infatti molteplici ipotesi di rifiuto legittimo di “tenere le udienze”, che poggiano su “cause di giustificazione” diverse, come ad esempio l’esercizio di un diritto, lo stato di necessità, la legittima difesa, il diritto di libertà di coscienza etc.
2°) Ma c’è di più. Questo “postulato” risulta infatti polverizzato e annichilito dalla sent. della Corte Costituzionale n. 122/1970, che ha sancito che “le libertà fondamentali affermate, garantite e tutelate dalla Costituzione della Repubblica sono riconosciute come diritti del SINGOLO, che il singolo deve poter far valere erga omnes”, sicché “nessuno può recarvi attentato, senza violare un bene assistito da rigorosa tutela costituzionale”, nonché dalla sentenza delle SS.UU. civili n. 11432/1997 che lo stesso CSM, senza averne percepito minimamente il significato e la portata, ha avuto cura di “ricopiare” dall’ordinanza di sospensione del precedente CSM (pag. 17 della sentenza), e cioè che “le situazioni enunciate come diritto assoluto alla libertà di coscienza e di religione, diritto assoluto all'eguaglianza ed alla non discriminazione, diritto di vedere rispettato come attori cittadini il principio fondamentale della laicità dello Stato e della Scuola, diritto alla salute anche psichica delineano la violazione di diritti primari, derivanti dallo stesso disposto costituzionale, rispetto ai quali nessun potere di sacrificio può individuarsi da parte della pubblica amministrazione. Non esiste alcun organo dello Stato (eccezion fatta per il Parlamento con le modalità e la procedura di modifica costituzionale) che possa incidere in maniera pregiudizievole sui diritti assoluti in cui si esprimono le libertà fondamentali costituzionalmente garantite. Se neppure al legislatore ordinario è consentito derogare ai principi costituzionali, a maggior ragione detta deroga non è consentita, neppure in via provvisoria, alla pubblica amministrazione”.
Da queste pronunce emerge una concezione dello Stato moderno diametralmente opposta a quella di stampo “clerico/fascista” congetturata dalla sensibilità del CSM: uno Stato, cioè, in cui non è consentito ledere i diritti inviolabili di nessuno e nel quale, pertanto, non si può imporre ai pubblici funzionari di obbedir, tacendo, a leggi o ad altri atti od ordini che ledano diritti inviolabili di chicchesia.
3°) Altrettanto infondata è l’affermazione della Sezione disciplinare secondo cui l’ “obbligo di subir tacendo” si applica, a maggior ragione, alla particolare categoria dei magistrati. Sia la Corte Costituzionale, con la sent. n. 100/1981, sia le SS.UU. della Cassazione civile, con la sent. n. 5 del 18.1.2001, sia la Sez. disc. del CSM, con la sent. n. 115/2001, hanno infatti affermato il principio opposto, e cioè che “anche” i magistrati sono titolari dei diritti inviolabili garantiti a tutti gli esseri umani e che i limiti al godimento di tali diritti possono essere imposti solo per la salvaguardia di interessi di pari rango costituzionale: “fin dalla sentenza della Corte Costituzionale 7.5.1981 n. 100 è stato precisato che i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà riconosciuti ad ogni altro cittadino e quindi anche di quello relativo alla manifestazione del pensiero, che rientra tra i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. Posto, inoltre, che in un sistema democratico lo svolgimento della funzione giurisdizionale, al pari dell'esercizio di ogni funzione pubblica, non può considerarsi sottratto alla possibilità di verifica e discussione, le critiche all'attività giudiziaria, anche quando provenienti da magistrati, debbono ritenersi lecite in via di principio. D'altra parte l'esercizio di un diritto, specie quando esso abbia un collegamento funzionale con la tutela di un pubblico interesse, può ben dar luogo ad una situazione di conflitto. Negare che ciò possa avvenire senza che la condotta diventi un illecito disciplinare significherebbe -né più né meno- affermare che, se l'esercizio del diritto implica valutazioni negative circa l'operato del titolare di un pubblico ufficio, tale esercizio deve essere escluso in radice. Una simile concezione presupporrebbe, inoltre, un divieto assoluto -che non esiste nell'ordinamento giuridico- per tutti i titolari di pubbliche funzioni di esprimere opinioni che possano contenere giudizi sull'operato di soggetti appartenenti alla stessa categoria o che, comunque, rivestano cariche di pubblico rilievo” (Cass. S.U. n. 5/2001). La libertà di manifestazione del pensiero non è tuttavia illimitata, dovendo il suo esercizio contemperarsi con il rispetto di altri valori di rango costituzionale con la conseguenza che, ove si configuri la lesione di tali valori, non vi è più esercizio, ma abuso del diritto. Le critiche all'attività giurisdizionale, pertanto, non debbono trasmodare nella falsità o nell'offesa, nella denigrazione gratuita e nella diffamazione personale”.
Da tali pronunce si ricavano dunque due principi giuridici diametralmente opposti a quelli congetturati dal CSM. Il primo è che l’esercizio di un diritto inviolabile non può integrare, in sé per sé, un illecito disciplinare perché, altrimenti, “si escluderebbe in radice l’esercizio del diritto”. E questo è proprio quello che è avvenuto nel caso di specie, perché il CSM, rimuovendo dalla magistratura il dr. Tosti perché si è rifiutato di subire remissivamente la lesione dei suoi diritti inviolabili, ha finito per negare in radice al dr. Tosti i suoi diritti inviolabili. Il secondo è che l’esercizio di un diritto inviolabile può essere “sanzionato” SOLO nel caso di “abuso”, cioè quando siano stati lesi altri interessi di rango costituzionale: il che è da escludere categoricamente nel caso di specie, anche perché il dr. Tosti ha avuto l’accortezza e la correttezza di preannunciare con largo anticipo il suo rifiuto, evitando così che venissero lesi ipotetici diritti di terzi. Ma non è tutto.
4°) Tutte queste preliminari considerazioni lasciano intuire che il principio dell’ “obbedir tacendo”, di matrice clerico-nazi-fascista, non possa essere ritenuto valido per un regime che si autoproclama democratico e rispettoso dei diritti umani e che, al contrario, debba essere affermato il principio di diritto diametralmente opposto a quello congetturato dalla sensibilità culturale e giuridica della Sezione disciplinare del CSM: ovverosia che nessuno -sia esso un privato o un pubblico funzionario- può essere obbligato a subire remissivamente la lesione di diritti inviolabili propri o a ledere diritti inviolabili altrui -cioè “ad ubbidir tacendo” e che, pertanto, chiunque ha il diritto di “rifiutarsi”, per diritto di libertà di coscienza e/o di legittima difesa, di subire o compiere atti che determinano simili lesioni: e questo anche nell’ipotesi in cui la “disobbedienza” riguardi precetti imposti da leggi.
Un principio giuridico, questo, che il dr. Tosti ha sempre reclamato a fondamento della liceità del suo rifiuto e che dovrà necessariamente essere vagliato dalla Corte ai fini della decisione del presente ricorso.
5°) Il dr. Luigi Tosti, infatti, ha sostenuto e sostiene che l’imposizione dei crocifissi nelle aule giudiziarie, congiunta al contestuale divieto di esporre i propri simboli religiosi, determina la lesione dei suoi diritti inviolabili di libertà religiosa e di eguaglianza religiosa, nonché la violazione della sua prerogativa costituzionale di rispetto del principio supremo di laicità, sicché sostiene che il suo rifiuto di tenere le udienze deve ritenersi legittimo e giustificato dalla necessità di salvaguardare tali diritti e prerogative che, altrimenti, sarebbero lesi dall’adempimento dell’attività di servizio (cd. diritto di libertà di coscienza e/o di legittima difesa), con l’ulteriore conseguenza che il suo rifiuto non possa essere qualificato come un’ “estorsione”, come grottescamente ritenuto dal CSM in sentenza. Infatti, chi, come il Tosti, pretende di non essere leso nei suoi diritti e/o prerogative inviolabili, non esercita “minacce” o violenze nei confronti della P.A. -né tantomeno si procura un ingiusto profitto ai danni dell’Amministrazione- sicché non ricorre l’ipotesi di reato prevista e punita dall’art. 629 del cod. penale, ma esercita legittimamente, in via stragiudiziale o comunque prodromica, il proprio diritto costituzionale di difesa.
Queste le motivazioni.
IL CROCIFISSO NELLE AULE GIUDIZIARIE e LE MOTIVAZIONI DEL RIFIUTO DEL TOSTI DI TENERE LE UDIENZE
(1) Il significato simbolico del crocifisso.
Il “crocifisso” è una rappresentazione fisica di una divinità e il suo culto -che è una forma di idolatria- rientra a pieno titolo nell’ambito del legittimo esercizio del diritto di libertà religiosa, garantito a chiunque sia dall’art. 19 della Costituzione che dall’art. 9 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
Sul fatto che i crocifissi siano da considerare “oggetti di devozione e di culto” non è necessario spendere molte parole. Basta ricordare che l’art. 404 del codice penale -anche nell’attuale formulazione- punisce con sanzioni penali coloro che vilipendono “cose che formano oggetto di culto” e che, per costante giurisprudenza della Cassazione penale (cfr. Cass. pen. Sez. I, 28.10.1966, Fagiali; Cass. pen., Sez. III, 21.12.1967, Conti), il “crocifisso” rientra a pieno titolo tra le “cose oggetto di culto” (assieme alle reliquie, come ad esempio i tredici prepuzi di Gesù Cristo, il latte della madonna e la cacca dell’asino che trasportò Gesù) il cui vilipendio veniva sanzionato con la pena della reclusione da uno a tre anni, prima che la legge n. 85/2006 la riducesse alla sola multa da 1.000 a 5.000 euro.
(2) L’ostensione del crocifisso: significato e valore.
L’ostensione del crocifisso sulla propria persona o in casa propria o in altro luogo di appartenenza integra un atto di manifestazione di libertà religiosa, cioè di professione e di propaganda di fede. Chi lo compie è come se dicesse: io sono cristiano e questo, che espongo al collo e/o a casa mia, è il Dio in cui io credo e che propagando.
La conferma inconfutabile di questa valutazione la si ricava dall’art. 58 dell’ordinamento penitenziario (D.P.R. n. 230/200) che disciplina le “manifestazioni della libertà religiosa” da parte dei detenuti e che sancisce, al comma 2°, che “è consentito ai detenuti e agli internati che lo desiderino di esporre, nella propria camera individuale o nel proprio spazio di appartenenza nella camera a più posti, immagini e simboli della propria confessione religiosa”.
Se l’ostensione del crocifisso è un atto di manifestazione di libertà religiosa per il fedele, a maggior ragione lo è per le Istituzioni e le Congregazioni religiose che promuovono la religione cattolica e si autoproclamano “rappresentanti legali” di Dio sul pianeta Terra. Pertanto, esporre i crocifissi nelle chiese e nei conventi equivale ad affermare -sempre nell’ambito del legittimo esercizio del diritto di libertà religiosa- che in quei “templi” i sacerdoti praticano il culto e la venerazione del Dio “Gesù”.
(3) I limiti al diritto di ostensione dei simboli religiosi.
Così come il diritto di fumare sigarette in casa propria non implica il diritto di fumarle in casa altrui, alla stessa stregua il diritto di esporre i propri simboli al proprio collo o a casa propria o nei propri templi non implica quello di esporli al collo, nelle case o nei templi altrui, perché si tratterebbe di indebite ingerenze nel diritto di libertà religiosa dei terzi. Come tutti i diritti di libertà, infatti, anche quello religioso deve essere inteso non solo in senso positivo ma anche in senso negativo, cioè come diritto di “non essere costretti a (e quindi “rifiutarsi di”) compiere o a subire atti con significato religioso”.
(4) L’ostensione del crocifisso nelle aule dei tribunali ecclesiastici: significato ed effetti.
I primi Tribunali nei quali comparvero i crocifissi furono i criminali Tribunali della Santa Inquisizione. La loro esposizione aveva lo scopo di ostentare la fede nel Dio dei cattolici e di connotare di “sacralità” cristianità l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte di quei giudici criminali. Come dire: la “Giustizia”, in queste aule, è “ispirata” dal buon Dio degli eserciti ed amministrata in suo nome.
Soppressi i criminali Tribunali della Santa Inquisizione, oggi la Chiesa seguita ad esporre nei Tribunali ecclesiastici e della Sacra Rota i suoi crocifissi. Lo scopo è ovviamente lo stesso: quello di ostentare la fede nel Dio dei cattolici e di affermare che la giustizia viene amministrata in quelle aule in “Suo” nome.
Il ricorrente non avanza dubbi sulla liceità dell’ostensione del crocifisso nei tribunali ecclesiastici, sia perché si tratta di una scelta che rientra nell’ambito del legittimo esercizio del diritto di libertà religiosa della Chiesa, sia perché, trattandosi di Tribunali “confessionali”, l’esposizione del “vessillo” della Chiesa è del tutto “fisiologica” ed assume la stessa valenza “identitaria” che assumono, nei tribunali “laici”, le bandiere e gli altri simboli dell’Autorità civile.
Il ricorrente ritiene, anzi, che lo Stato italiano giammai potrebbe imporre alla Chiesa Cattolica l’obbligo di esporre nei tribunali ecclesiastici le bandiere tricolori della Repubblica italiana: si tratterebbe infatti di una ingerenza indebita che violerebbe sia il principio di “confessionalità” della Chiesa cattolica che il suo diritto di libertà religiosa.
Alla stessa stregua, però, il ricorrente ritiene che né alla Chiesa né al Vaticano né al Ministro di Giustizia competa il diritto o la “pretesa” di imporre alla Repubblica italiana -che è aconfessionale- l’obbligo di esporre nei “nostri” tribunali i “loro” “vessilli”: si tratterebbe, infatti, di un’ingerenza altrettanto indebita, che violerebbe il principio supremo di “laicità” dello Stato italiano.
(5) L’ostensione del crocifisso nelle aule dei tribunali italiani: significato ed effetti.
Come appena visto, le ragioni che rendono giustificabile e lecita l’esposizione dei crocifissi nelle aule dei tribunali ecclesiastici sono le stesse che la rendono del tutto ingiustificabile e illecita nei tribunali della Repubblica italiana: questi ultimi sono -pardòn, dovrebbero essere- tribunali aconfessionali per dettato costituzionale, sicché non si giustifica che attraverso l’esposizione del crocifisso si ostenti la fede in un SOLO Dio -quello dei cattolici- e che si connoti di sacralità cristiana l’esercizio della funzione giurisdizionale dei giudici italiani.
E, in effetti, la circolare del Ministro di Giustizia fascista del 29.5.1926, n. 2134/1867, impone l’ostensione obbligatoria del crocifisso nelle aule giudiziarie proprio allo scopo di connotare di confessionalità cattolica l’esercizio della funzione giurisdizionale, nonché quello di manifestare e propagandare la fede religiosa nel “Dio” della “religione di Stato” (“Prescrivo che nelle aule di udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all'effige di Sua Maestà il Re sia restituito il Crocefisso, secondo la nostra antica tradizione. Il simbolo venerato sia solenne ammonimento di verità e giustizia”).
Se questa ostensione era giustificabile e lecita quando l’Italia era una Dittatura monarchica “confessionale”, dove esisteva un solo partito politico ed una sola religione di stato, più non può esserlo dal 1948, da quando cioè l’Italia è divenuta una Repubblica democratica assoggettata agli opposti principi della laicità, del pluralismo religioso, della libertà religiosa e dell’eguaglianza e pari dignità di tutte le confessioni e di tutti i singoli cittadini.
Non si giustifica, dunque, che un Ministro di Giustizia della Repubblica italiana ordini l’ostensione nelle aule giudiziarie di un simbolo religioso partigiano, qual’è il “crocifisso”: salvo che, ovviamente, non si voglia sostenere che l’Italia sia una Repubblica Pontificia.
Esporre il crocifisso nelle aule di giustizia italiane significa, infatti:
1°) ostentare e propagandare, pubblicamente, la fede in un SOLO Dio -quello dei cattolici- violando così il diritto (negativo) di libertà religiosa di tutti coloro che sono costretti -o per motivi di lavoro o per esigenze di giustizia- a frequentare quelle aule;
2°) significa poi evocare e trasmettere, in forma simbolica, il solenne messaggio secondo cui "in quelle aule di giustizia la funzione giurisdizionale è esercitata anche in nome del Dio dei cattolici", connotando cioè di sacralità cristianità l’esercizio della funzione giurisdizionale e calpestando il principio supremo di laicità che vieta a qualsiasi istituzione pubblica -sia essa centrale, periferica, locale o autonoma- di “professare una fede religiosa ex art. 19 della Costituzione”;
3°) significa, infine, evocare e trasmettere un messaggio confessionale, e cioè che "nelle aule di giustizia italiane è ammessa SOLTANTO la PRESENZA del Dio dei cattolici”, calpestando così il diritto all’eguaglianza e non discriminazione religiosa di chi, non essendo cattolico o credente, non ha la pari opportunità di veder esposti i propri simboli.
E’ bene puntualizzare che il “diritto di libertà religiosa” -che è riconosciuto dalla Costituzione nella parte relativa ai “DIRITTI E DOVERI DEI CITTADINI”- non riguarda affatto le “ISTITUZIONI PUBBLICHE”, bensì soltanto i “cittadini”, in forma “individuale o associata”. Dunque, a nessun Comune, a nessuna Provincia, a nessun Parlamento, a nessuna Regione, a nessun Ministro, a nessun Prefetto può essere accordato lo strampalato “diritto di professare liberamente, ex art. 19 Cost., la propria fede religiosa, di farne propaganda e di esercitarne il culto in privato o in pubblico”.
(6) La richiesta di rimozione dei crocifissi del dr. Luigi Tosti.
Il dr. Luigi Tosti non è un magistrato che ha scelto di “lavorare” alle dipendenze della Chiesa o del Vaticano nei Tribunali della Santa Inquisizione o in quelli ecclesiastici o rotali: se lo avesse fatto, non avrebbe potuto accampare la strampalata pretesa di far rimuovere i crocifissi, avendo egli accettato, sin ab initio, di lavorare alle dipendenze di un’Amministrazione della Giustizia CONFESSIONALE.
Il dr. Luigi Tosti è, al contrario, un cittadino che, dopo aver superato un concorso in magistratura, ha accettato di lavorare alle dipendenze del Ministero di Giustizia di una Repubblica “laica” e, quindi, in tribunali che non possono tollerare né manifestazioni di “libertà religiosa” da parte dello Stato, né connotazioni di “confessionalità partigiana” dell’attività giurisdizionale espletata dai giudici né, infine, imposizioni di natura religiosa alle quali non ci si possa sottrarre se non attraverso il recesso dal rapporto di lavoro.
Il dr. Luigi Tosti è anche un soggetto che, nell’esercizio del suo insindacabile diritto individuale di libertà religiosa, aborre qualsiasi forma di idolatria o di simbolismo religioso, tant’è che non espone sulla propria persona o in casa sua o nei luoghi di sua appartenenza idoli, feticci, immagini sacre o macabre reliquie come brandelli di pelle, croste e grumi di sangue di Padre Pio.
Dunque, egli non accetta e non accetterà mai -si ripete per la seconda volta: non accetta e non accetterà mai- -si ripete per la terza volta: non accetta e non accetterà mai- -si ripete per la quarta volta, sperando che il concetto sia assimilato: non accetta e non accetterà mai che il Ministro di Giustizia gli imponga di esercitare le sue mansioni lavorative sotto l’incombenza dei crocifissi. Tale imposizione non è infatti un atto anodino, così come non sarebbe un atto anodino l’omologo ipotetico obbligo di tenere le udienze con un crocifisso appeso al collo.
Il dr. Tosti non contesta che l’Amministrazione e il Legislatore gli possano imporre simbolismi neutrali, come ad esempio la bandiera, il ritratto del Presidente o la toga; contesta, però, che gli si possano imporre simbolismi partigiani, di natura religiosa, come i crocifissi. E se un crocifisso al collo -magari sopra la toga- connota la giurisdizione di partigianeria cattolica e lede il diritto di libertà religiosa del giudice che è obbligato ad indossarlo, un crocifisso appeso sulla parete, sopra la testa, ha gli stessi identici significati, la stessa identica valenza religiosa e gli stessi effetti pregiudizievoli sul diritto di libertà del giudice e sulle sue prerogative di imparzialità.
L’indubbia circostanza che ci si sia “assuefatti” alla visione dei crocifissi, perché risultano appesi alle pareti delle aule da quasi 90 anni, non deve indurre nessuno all’erroneo convincimento che il crocifisso sia un simbolo “passivo”, un “inerte” che non obbliga nessuno a credere o a compiere atti di culto, come grottescamente affermato da alcuni giudici.
Se così fosse, infatti, si dovrebbe anche affermare la piena legittimità di un’ipotetica legge che imponga ai cittadini italiani l’obbligo di esporre i crocifissi nelle proprie private dimore, magari sanzionando pesantemente i trasgressori: anche in questo “caso” (che non ha nulla di ipotetico, visto e considerato che centinai di Sindaci “sceriffi” hanno emanato “ordinanze” con le quali hanno imposto l’esposizione dei crocifissi negli esercizi pubblici, comminando sanzioni sino a 500 euro) si potrebbe infatti sostenere che questi crocifissi sono dei simboli “passivi”, degli “inerti” che non obbligano gli inquilini delle case a credere o a compiere atti di culto. Questa valutazione, però, non è accettabile perché si pone in palese conflitto col principio giuridico che si desume dall’art. 58 del Reg. penitenziario, che qualifica come “atto di manifestazione di libertà religiosa” l’ “esposizione delle immagini e dei simboli della propria confessione religiosa nella propria camera o nel proprio spazio di appartenenza”.
Se si considera poi che la scelta di un fedele di esporre un crocifisso al collo ha lo stesso significato e la stessa valenza religiosa di quella di esporlo in un luogo di appartenenza (ad es. in casa o in auto), è giocoforza dedurne che, se al Ministro di Giustizia si accorda il “diritto” di imporre ai dipendenti l’obbligo di lavorare sotto l’incombenza del crocifisso, allo stesso Ministro non si potrebbe poi negare l’omologo “diritto” di obbligare i dipendenti a lavorare col crocifisso appeso al collo. Il ricorrente dubita che i dipendenti pubblici italiani siano disposti ad accettare una simile imposizione e ritiene, al contrario, che vi sarebbe un “RIFIUTO” di vaste proporzioni: il che dovrebbe indurre i raziocinanti a riflettere sull’omologo, quanto “solitario” “RIFIUTO” che è stato posto in essere dal dr. Luigi Tosti.
E, in effetti, se il “rifiuto” del dr. Luigi Tosti si connota per la sua “singolarità” (solo il magistrato Tosti si è rifiutato), questo non dipende dalla “singolarità” delle motivazioni da lui addotte (che sono al contrario avallate da sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale e della CEDU), ma dall’assuefazione generale degli italiani (pardòn, dei sudditi del Vaticano) alla presenza dei crocifissi, dal momento che risultano appesi alle pareti da quasi 90 anni. Se un magistrato si presentasse però in udienza con abbigliamento simil-cardinalizio, cioè con un vistoso crocifisso appeso al collo, il ricorrente dubita fortemente che non vi sarebbero reazioni negative, sia da parte degli utenti che da parte delle autorità preposte alla vigilanza. E allora che cosa farebbe Sua Eccellenza il Ministro di Giustizia, buon viso a cattivo gioco, oppure promuoverebbe un procedimento disciplinare contro il magistrato perché “osa” esibire al collo quello stesso crocifisso che Lui gli impone sopra la testa? Queste considerazioni dovrebbero indurre i raziocinanti a riflettere sulla questione sollevata dal “solitario” Tosti.
Riepilogando, il ricorrente ritiene che l’imposizione di lavorare in aule addobbate con crocifissi violi, in primis, il suo diritto (negativo) di libertà religiosa. Ma non è tutto.
Il dr. Luigi Tosti è infatti anche un soggetto che è “deprecabilmente” informato al rispetto e all’osservanza dei principi della Costituzione, in particolar modo di quelli “supremi”: dunque egli non accetta e non accetterà mai -si ripete per la seconda volta: non accetta e non accetterà mai, si ripete per la terza volta, acciocché il concetto sia ben recepito: non accetta e non accetterà mai che il Ministro di Giustizia/datore di lavoro lo costringa a calpestare il principio supremo di laicità, obbligandolo a connotare di partigianeria cattolica l’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali. In uno Stato realmente “laico”, infatti, i giudici debbono amministrare la giustizia in modo “visibilmente” imparziale, neutrale ed equidistante, e non identificandosi platealmente in un idolo partigiano come il crocifisso.
Si ribadisce che il principio di "laicità" scaturisce dalla circostanza che tutti i cittadini e tutte le confessioni religiose “sono” eguali di fronte alla legge (art. 3 ed 8) e che, dunque, lo Stato ha l’obbligo di essere "equidistante, imparziale e neutrale verso tutte le religioni secondo il disposto dell'art. 8 della Costituzione, ove è appunto sancita l'eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge" (così da ultimo si esprime Corte Cost. 18.4.2005-29.4.2005 n. 168).
E se lo Stato ha l'obbligo di non discriminare i cittadini, è assai ovvio che i cittadini hanno il corrispondente DIRITTO assoluto soggettivo a non essere discriminati e ad essere trattati con imparzialità, neutralità ed equidistanza in relazione al proprio credo o alla propria religione. Dunque, il "principio di laicità" non è un oggetto "marziano" o un'invenzione della Corte Costituzionale, bensì un vero e proprio "rapporto giuridico" che scaturisce dalla circostanza che tutti i cittadini e tutte le fedi religiose hanno eguali diritti e pari dignità, sicché lo Stato e tutti gli enti pubblici hanno il corrispondente obbligo di non discriminare i cittadini e le confessioni religiose in ragione del credo.
Ebbene, esporre un solo simbolo religioso nelle aule giudiziarie significa privilegiare una confessione religiosa e connotare di confessionalismo cattolico l’esercizio della funzione giurisdizionale, violando così uno dei precetti fondamentali della Costituzione: il che è ovviamente vietato, tant’è che la Corte Costituzionale, con sent. n. 195/1993, ha affermato che “qualsiasi DISCRIMINAZIONE in danno dell'una o dell'altra fede è COSTITUZIONALMENTE INAMMISSIBILE in quanto contrasta con il diritto di libertà di religione e con il principio di eguaglianza”.
Il che per il dr. Luigi Tosti -che ha giurato fedeltà alla Costituzione ITALIANA, e non ad un monarca di uno stato estero come il Papa- è assolutamente intollerabile.
Ma non è ancora tutto.
Il dr. Luigi Tosti è infatti un soggetto che, pur non essendo cattolico, “osa” avanzare la “pretesa” di avere la stessa dignità e gli stessi diritti che il suo datore di lavoro accorda alla “superiore” “razza” dei cattolici: egli, dunque, non accetta e non accetterà mai -si ripete per la seconda volta: non accetta e non accetterà mai- -si ripete per la terza volta, visto che il concetto non è stato minimamente assimilato da coloro che si sono interessati alla sua vicenda: non accetta e non accetterà mai- -si ripete per la quarta volta, sperando che il concetto cominci ad essere assimilato: non accetta e non accetterà mai che il Ministro di Giustizia, dopo avergli imposto l’obbligo di lavorare sotto l’incombenza dei crocifissi cattolici, gli neghi il pari diritto di esporre i propri simboli, ovverosia lo discrimini in modo diretto e plateale nell’ambiente di lavoro a cagione del suo credo religioso.
E si ribadisce anche che il dr. Tosti ha manifestato la sua più totale disponibilità a tenere le udienze sotto l’incombenza dei crocifissi, purché venisse autorizzato ad esporre i propri simboli, cioè perché non venisse calpestato il suo pari diritto di propagandare e manifestare i suoi convincimenti religiosi. Dunque, se vi è una responsabilità per l’omessa tenuta delle udienze, questa non è del Tosti, ma dell’Amministrazione “razzista” che gli ha impedito di esporre i suoi simboli, calpestando e stuprando le seguenti disposizioni di legge:
- l’art. 3 della Costituzione, che sancisce che “tutti i cittadini -quindi anche gli ebrei e gli atei- “hanno pari dignità e sono uguali dinanzi alla legge, senza distinzione di religione”;
- l’art. 8 della Costituzione, che sancisce che “tutte le confessioni religiose -e quindi anche l’ebraismo e l’ateismo- sono egualmente libere davanti alla legge”;
- l’art. 19 della Costituzione, che sancisce che “tutti -e quindi anche gli ebrei e gli atei- hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, di farne propaganda e di esercitarne il culto anche in pubblico”;
- l’art. 9 della Convenzione internazionale sui diritti dell’Uomo, che sancisce che “ogni persona -e quindi anche l’ebreo e l’ateo- ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; questo diritto importa la libertà di cambiare religione o di pensiero, come anche la libertà di manifestare la propria religione o il proprio pensiero individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, per mezzo del culto, dell’insegnamento, di pratiche e di compimento di riti”;
- l’art. 14 della medesima convenzione, titolato “Divieto di discriminazione”, che sancisce che “il godimento dei diritti civili e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere garantito a tutti -quindi anche agli ebrei e agli atei- senza alcuna distinzione, fondata sulla... religione”;
- l’art. 43 del D. L.vo n. 286/1998, titolato “Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, che sanziona come atto discriminatorio “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulle........ convinzioni e pratiche religiose” e stabilisce che “compie un atto di discriminazione... il pubblico ufficiale ..... che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino.... che, soltanto a causa della sua condizione....... di appartenente ad una determinata..... religione lo discriminino ingiustamente” nonché “il datore di lavoro che....... compia qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una.............confessione religiosa”;
- l’art. 43 del D.L.vo 286/1998, che sancisce che “Quando il comportamento....... della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi..... religiosi, il giudice può......... ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione”;
- la convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, stipulata a Strasburgo il 1° febbraio 1995 e ratificata con Legge 28 agosto 1997, n. 302, che sancisce all’art. 6 che “Le Parti incoraggeranno lo spirito di tolleranza ed un dialogo inter-culturale, ed adotteranno misure effettive per promuovere il rispetto e la comprensione reciproca, nonché la cooperazione tra tutte le persone che vivono sul loro territorio, a prescindere dalla loro identità ......religiosa....... e si s’impegnano ad adottare ogni misura appropriata per proteggere le persone che potrebbero essere vittime ..... di atti di discriminazione...... religiosa”;
- l’art. 2, parte I^, della L. 8.3.1989 n. 101, che sancisce che “in conformità ai principi della Costituzione, è riconosciuto il diritto di professare e praticare liberamente la religione ebraica in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto e i riti”, che “é assicurata in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa, senza discriminazione tra i cittadini e tra i culti”;
- la direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000, che sancisce “il diritto di tutti all'uguaglianza dinanzi alla legge” e dispone che “la protezione contro le discriminazioni costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, dalla convenzione delle Nazioni Unite sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, dai patti delle Nazioni Unite relativi rispettivamente ai diritti civili e politici e ai diritti economici, sociali e culturali e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali di cui tutti gli Stati membri sono firmatari”. Tale direttiva dispone anche che “la discriminazione basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali può pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del trattato CE, in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera circolazione delle persone”;
- l’art. 2 del D. Lgs. n. 216/2003, che sanziona qualsiasi forma di “discriminazione” da parte del datore di lavoro pubblico o privato, e cioè sia la “discriminazione diretta” (“quando, per religione...... una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga”) che quella “indiretta” (“quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione ...... in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”);
- infine l’art. 3 della legge 13.10.1975, che punisce con la reclusione “chi commette atti di discriminazione per motivi...religiosi”.
In quarto ed ultimo luogo, infine, il dr. Tosti è una persona ispirata ed informata al rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, al rispetto della Costituzione repubblicana, al rispetto dei principi fondamentali che reggono gli Stati democratici moderni, al rispetto delle norme penali e di quelle inderogabili e, non ultimo, al rispetto del suo “cervello” e delle sue capacità logiche e critiche di essere pensante. Pertanto, così come non tollererebbe che lo Stato italiano gli imponga la criminale svastica nazista -cioè il vessillo di quei cristiani criminali che sotto il comando di un criminale cattolico di nome Adolf Hitler si sono resi artefici della persecuzione razziale e del genocidio di sei milioni di ebrei, di rom e di omosessuali- a maggior ragione non tollera che il Ministro di Giustizia gli imponga un simbolo che è infinitamente più criminale della svastica, cioè il vessillo di una banda di criminali e di falsari che si è resa artefice, in circa 1.700 anni di storia nefasta, di efferati crimini contro l’umanità, provocando lo sterminio di centinaia di milioni di esseri umani, e non di “appena” 6 milioni di innocenti. Il crocifisso -ad onta dei compiacenti ed oltraggiosi tentativi di contrabbandarlo come “il simbolo storico/culturale che identifica il popolo italiano e che esprime un sistema di valori di libertà, di eguaglianza, di dignità umana e di tolleranza religiosa, che stanno alla base del principio di laicità dello Stato”- rappresenta il “vessillo” della più grande banda di criminali e della più grande banda di falsari che sia mai esistita sul pianeta Terra, la quale si è resa artefice dei più efferati crimini contro l’umanità, condividendoli di papa in papa senza il minimo moto di resipiscenza o di pentimento.
La storia del “crocifisso” gronda di sangue, di genocidi, di assassini, di torture, di criminale inquisizione, di criminali crociate, di criminale razzismo, di criminali condanne a morte di eretici, di criminali torture e condanne al rogo di centinaia di migliaia di streghe, di criminale schiavizzazione a livello planetario delle popolazioni indigene, di superstizione, di criminale discriminazione e persecuzione razziale, di criminale shoà, di criminale collaborazione con i genocidi degli ustascia, di criminale fornitura di falsi passaporti e di aiuti per consentire l’espatrio e la fuga dei criminali di guerra nazisti, di criminali rapimenti di bambini ebrei perché “battezzati”di nascosto, di castrazione di bambini per innalzare celesti “melodie” al “buon” Dio degli eserciti, di criminali genocidi dei nativi americani ed australiani, di criminali confische, di patologica misoginia ed omofobia, di discriminazione delle donne e degli omosessuali, di patologica sessuofobia, di intolleranza, di oscurantismo, di negazione assoluta dei più elementari diritti politici ed umani di eguaglianza, di libertà di opinione, di libertà di pensiero, di libertà di religione e di libertà di scienza e ricerca, di omertosa e criminale copertura dei preti pedofili a livello planetario, di omertosa e criminale copertura di assassini e di occultamento di cadaveri nei sottotetti delle Chiese, di mafiose connivenze e scambi di favori economici con politici e “gentiluomini” del Papa per ottenere i finanziamenti dei grandi eventi, di omertosa e criminale complicità nel riciclaggio del danaro sporco e nell’evasione fiscale, di imposizione di pratiche contro natura come la castità, di criminale istigazione all’omicidio attraverso il divieto dell’uso del preservativo ai malati di AIDS, di mancata adesione alle Convenzioni internazionali stipulate dagli Stati civili per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali degli uomini e delle donne, di mancata adesione alle Convenzioni internazionali finalizzate alla lotta contro la criminalità, contro il riciclaggio e contro l’evasione fiscale, di illeciti finanziari, di accumulazione parassitaria di ingenti ricchezze che rappresentano uno scandalo “teologico” e un insulto alla povertà, di ostentazione di sfarzi, ori, pietre preziose, ricchezze, paramenti liturgici e scarpine di Prada che oltraggiano i veri poveri “cristi” di questo Pianeta, di “paradisi finanziari” creati e gestiti per occultare la tracciabilità delle operazioni bancarie ed agevolare i criminali, di negazione assoluta dei diritti politici e di libertà religiosa, di negazione assoluta del diritto inviolabile di matrimonio dei preti e delle monache, di truffe, di costante abuso della credulità popolare a fini speculativi, di truffaldine messe gregoriane, di simonia, di mercimonio di indulgenze, di truffaldine commercializzazioni di “medagliette” “miracolose” della Madonna ed altre divinità inferiori, di commercializzazione truffaldina del miracoloso monossido di diidrogeno dei prestigiosi laboratori farmaceutici di Lourdes, di mafiose bolle di componenda, di false natività di Gesù Cristo, di false “donazioni” di Costantino per “giustificare” il potere temporale della Chiesa sul Pianeta Terra, di costanti falsificazioni e taroccamenti di scritture sacre, di false reliquie, di falsi prepuzi di Gesù (almeno 13!), di falsi sangui di Gesù cristo, di false “fasce” di Gesù bambino, di false mangiatoie del bue e dell’asinello, di false culle di Gesù bambino, di falsi biberon di Gesù bambino, di falsi e truffaldini “sangui di San Gennaro”, di false piume delle ali dell’Arcangelo Gabriele, di falsi veli della Madonna, di falsi capelli della madonna, di false cinture della madonna, di falsi anelli di fidanzamento di Giuseppe e Maria, di falsi bastoni e cinture di San Giuseppe, di falsi “latti” della madonna, di false corone di spine, di false “teste” di san Giovanni Battista decollato, di falsi danari di Giuda -con relative false borse- di calotte craniche, cervelli, vertebre, clavicole, dita, piedi, mani, femori ed altri macabri resti umani, appartenenti a chi sa chi ed attribuiti a falsi Santi, di false apparizioni della madonna -a migliaia, ma nessuna in un Paese islamico- di false madonne che lacrimano sangue, di una pletora di false ostie che si tramutano miracolosamente in fiorentine al sangue, di false case della madonna di Loreto -che svolazzano qua e là per la gioia dei piloti italiani- di falsi chiodi della croce di Gesù, di falsi legni della croce di Gesù, di false lance di Longino (Heilige Lanze) venerate dal criminale cattolico Hitler, di false sindoni, di false veroniche, di falsi miracoli, di falsi Santi -autori di falsi miracoli- di falsi esorcisti che praticano riti sciamanici su malati mentali o complici impostori, di false stigmate, di false transustanziazioni delle ostie, di Santi Padri Pii impostori, di falsi purgatori, di falsi limbi, di falsi demoni, di falsi angeli, di falsi arcangeli, di falsi cherubini, di falsi serafini, di falsi troni, di falsi indemoniati e, persino, della falsa “cacca” dell’asino che avrebbe trasportato Gesù Cristo.
Esporre i crocifissi nelle aule di giustizia non è dunque soltanto un insulto al principio supremo di laicità e all’intelligenza umana, ma è anche un insulto e un oltraggio alla Legalità, alla Giustizia, alla Civiltà e alla Memoria delle centinaia di milioni di esseri umani che, in nome di quel macabro e orrifico simbolo, sono stati assassinati, torturati, sbudellati, incarcerati, discriminati, inquisiti, ghettizzati, prevaricati, abbindolati, truffati, vilipesi ed emarginati dalla Chiesa Cattolica nella sua nefasta storia criminale. Il ricorrente ritiene che non esista un simbolo che sia più “squalificato” e più indegno di essere esposto nelle aule di Giustizia del crocifisso.
Il ricorrente ritiene vergognoso e intollerabile che lo Stato italiano esponga questo “vessillo” negli uffici giudiziari, così come trova vergognoso, indecente e intollerabile che il Papa e le gerarchie ecclesiastiche seguitino tuttora ad essere accreditate, sponsorizzate e spalleggiate dalle Istituzioni italiane, ad onta dei trascorsi criminali della Chiesa e ad onta del loro presente, tutt’altro che commendevole. Il ricorrente trova vergognoso che le gerarchie ecclesiastiche invadano quotidianamente la politica italiana, gli spazi pubblici e la RAI con interventi intrusivi che brutalizzano il principio di laicità ed il pluralismo religioso e che siano chiamate a presenziare -in prima fila e in perfetta “solitudine”- l’apertura dell’anno giudiziario italiano, sia dinanzi alla Cassazione che dinanzi alle Corti di Appello, quasi che l’Ordinamento Giudiziario sia sottoposto, per dettato costituzionale, alla sovranità della Chiesa.

IL RIFIUTO DI TENERE LE UDIENZE DAL 9.5.2005.
(1) Il dr. Tosti ha inoltrato al datore di lavoro un “ultimatum” con la lettera del 1° maggio 2005, preannunciando che sarebbe stato costretto a rifiutarsi di tenere le udienze dal 9 maggio in poi se il Ministro non avesse rimosso i crocifissi o, in via subordinata, non avesse esposto o non l’avesse autorizzato ad esporre la sua menorà ebraica.
Come di consueto il Ministro di Giustizia non ha risposto, sicché il dipendente Luigi Tosti si è rifiutato, a far data dal 9 maggio 2005, di tenere le udienze, ponendo in essere l’UNICA ALTERNATIVA che gli consentiva -in via di LEGITTIMA AUTOTUTELA- di salvaguardare i suoi DIRITTI INVIOLABILI di LIBERTA’ e di EGUAGLIANZA RELIGIOSA e, altresì, la sua prerogativa di rispetto del principio supremo di laicità.
E, in effetti, il dr. Luigi Tosti aveva quattro “alternative”:
1. la prima era di dimettersi dalla magistratura, visto che il rapporto di lavoro era volontario e non obbligatorio;
2. la seconda era di rassegnarsi alle prevaricazioni e di subire dunque supinamente la lesione delle proprie prerogative costituzionali e dei propri diritti;
3. la terza era di attendere l’esito del ricorso giurisdizionale per la rimozione dei crocifissi;
4. la quarta, infine, era quella di rifiutarsi per diritto di libertà di coscienza e, comunque, per legittima difesa di tenere le udienze sotto l’incombenza dei crocifissi, autotutelando in questo modo i suoi diritti primari di libertà e di eguaglianza religiosa e la sua prerogativa di rispetto del principio supremo di laicità.
La prima alternativa era senz’altro praticabile ed avrebbe avuto l’indubbio effetto di sottrarre il dr. Tosti agli atti di prevaricazione da parte del datore di lavoro. Il dr. Tosti, tuttavia, non l’ha praticata perché, essendo la VITTIMA degli atti di prevaricazione, ha ritenuto -e ritiene- che non è lui che deve rinunciare al rapporto di impiego e di lavoro (cioè a due diritti umani inviolabili) per sottrarsi agli atti di criminale discriminazione, ma semmai deve essere il Ministro di Giustizia che deve desistere dal suo comportamento illecito, consentendo al Tosti di espletare le sue attività di servizio nel pieno rispetto della sua dignità e dei suoi diritti inviolabili.
Il dr. Luigi Tosti ha scartato anche la seconda alternativa, che era quella di “rassegnarsi” alle angherie dei Ministri “razzisti”. Per costante giurisprudenza della Cassazione civile, della Cassazione penale, della Corte Costituzionale e della CEDH, infatti, NESSUNO può essere costretto a subire supinamente la lesione dei propri diritti e delle proprie prerogative inviolabili, sicché il dr. Tosti ribadisce -sperando che il concetto cominci ad essere ben chiaro- che non accetta e non accetterà MAI che gli si imponga -né con legge, né con regolamento, né con circolare, né con sentenza, né sul collo, né sopra la testa- il crocifisso dei cattolici: salvo che, ovviamente, non gli venga contestualmente accordato il diritto di vedere esposti o di esporre i simboli religiosi dei “negri” al loro fianco.
Anche la terza alternativa è stata scartata, perché attendere l’esito del ricorso amministrativo si profilava e si profila del tutto irrilevante: se il ricorso dovesse infatti essere accolto -magari tra 15 anni- il dr. Luigi Tosti avrebbe medio tempore subito la lesione irreversibile dei suoi diritti e delle sue prerogative. Se il ricorso dovesse invece essere respinto, il dr. Tosti non avrebbe altra alternativa che rifiutarsi comunque di tenere le udienze, perché solo in questo modo -lo si ribadisce per l’ennesima volta- egli potrebbe SALVAGUARDARE i suoi diritti inviolabili e le sue prerogative costituzionali. Ma c’è di più. Il Consiglio di Stato ha infatti avallato la legittimità dell’esposizione del crocifisso nelle aule pubbliche e, nonostante la sonora condanna inflitta all’Italia a causa di questa aberrante sentenza, il Governo ha impugnato la sentenza della CEDU del 3.11.2009 dinanzi alla Grande Camera, preannunciando attraverso suoi qualificati leaders che giammai l’Italia ottempererà alle sentenze della CEDU (testualmente, Ignazio La Russa: “E comunque non lo leveremo, il crocifisso. Possono morire. Il crocifisso resterà in tutte le aule (applauso) della scuola, in tutte le aule pubbliche. Possano morire. Possano morire, loro e quei finti organismi internazionali che non contano nulla”). Di più: sono stati presentati una trentina di disegni di legge per rendere obbligatoria l’ostensione del “sacro” crocifisso in tutti gli uffici pubblici, anche attraverso la modifica della Carta Costituzionale. Dunque, nella “malaugurata” ipotesi che tra 20 anni il dr. Tosti possa ottenere dal Consiglio di Stato una sentenza che gli dia ragione (e che dovrebbe necessariamente essere difforme a quella già presa per i crocifissi nella aule scolastiche) il dott. Tosti si vedrebbe vanificare questa pronuncia da leggi, anche costituzionali, che disporrebbero in senso opposto.
Riepilogando, l’unica alternativa VALIDA per salvaguardare i propri diritti e prerogative inviolabili dalla loro attuale e permanente lesione, era -ed è- quella di “rifiutarsi, per diritto di libertà di coscienza o, comunque, per legittima difesa, di tenere le udienze”.
Si tratta di una forma di AUTOTUTELA che il ricorrente assume essere pienamente legittima e supportata da una serie impressionante di pronunce della Corte Costituzionale, della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte di Cassazione penale e della Corte di Cassazione civile.
I DIRITTI INVIOLABILI
1. Il ricorrente dr. Luigi Tosti ha sostenuto e sostiene -in sintonia con tal Norberto Bobbio- che tutti gli uomini hanno alcuni diritti fondamentali -come quello alla vita, alla libertà personale, alla sicurezza, alla non tortura, all’equo processo, alla libertà di pensiero, di espressione, di coscienza, di religione, di riunione ed associazione, di eguaglianza e non discriminazione- che lo Stato, o più concretamente coloro che in un determinato periodo storico detengono il potere legittimo di esercitare la forza per ottenerne l'ubbidienza ai loro comandi, debbono rispettare non invadendoli, e debbono garantire nei riguardi di ogni possibile invasione da parte di terzi.
Tali diritti primari sono riconosciuti ad ogni persona in “contrapposizione” agli Stati cui le persone appartengono: mutatis mutandis, questo significa che gli Stati, rispetto ai diritti umani, non si trovano nella posizione di “supremazia assoluta” congetturata dalla Sezione disciplinare del CSM, bensì in quella di “obbligo”. Non a caso l'art. 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall’Italia con legge n. 848/1955, sotto il titolo “Obbligo di rispettare i diritti dell'uomo” dispone che “le Alte Parti contraenti riconoscono ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà indicate nel titolo I della presente Convenzione”.
I diritti e le libertà inviolabili sono riconosciuti anche dall’art.2 della Costituzione repubblicana e da altre Convenzioni internazionali, tra le quali spiccano la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’ONU il 10.12.1948, ed il Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 16 dicembre 1966.
2. Il ricorrente dr. Luigi Tosti sostiene (in ciò confortato dalla sopra menzionata sentenza delle SS.UU. civili del 18.11.1997 n. 11.432) che non esiste alcun organo dello Stato -eccezion fatta per il Parlamento con le modalità e la procedura di modifica della Costituzione o delle Convenzioni internazionali- che possa incidere in maniera pregiudizievole su tali diritti “inviolabili” e che, se neppure al legislatore ordinario è consentito derogare a tali diritti, a maggior ragione la deroga può esser consentita, neppure in via provvisoria, alla pubblica amministrazione. Il ricorrente ritiene che tale principio debba applicarsi anche ai giudici, come si argomenta inequivocabilmente dal tenore degli art. 13 e 35 della Conv. per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, sicché neppure ai giudici può essere conferita la potestà di incidere in maniera pregiudizievole sui diritti inviolabili. Non esiste, in altri termini, alcun obbligo di “obbedir tacendo” alle sentenze, ancorché passate in giudicato, che ledano (o avallino la lesione di) diritti inviolabili come, ad esempio, ipotetiche sentenze che statuiscano che “è giusto” che gli ebrei e i rom debbano essere infilati nelle camere a gas o sterminati nelle fosse ardeatine.
IL DIRITTO DI LIBERTA’ DI COSCIENZA
1. Il ricorrente dr. Luigi Tosti ha sostenuto e sostiene -in pieno contrasto col “postulato” clerico/fascista dell’ “obbedir tacendo”- che nessun essere umano -sia esso un privato o un pubblico funzionario- può essere “costretto” -né per legge, né per sentenza, né per atto amministrativo- a compiere o a subire atti che determinano la lesione di diritti primari inviolabili, sia propri che altrui (ad esempio ad entrare nelle camere a gas, perché ebrei, o costringere gli ebrei ad entrare nelle camere a gas, oppure a torturare gli imputati durante le udienze con le raffinate pere metalliche dei Tribunali della Santa Inquisizione) e che, per converso, chiunque ha il sacrosanto “diritto di rifiutarsi” di “obbedir, tacendo”, all’imposizione di tali atti, anche nelle ipotesi in cui la “disobbedienza” riguardi precetti e/o obblighi che siano imposti da norme di legge, da sentenze o da atti autoritativi di altra natura, magari sotto la comminatoria di sanzioni penali, civili, amministrative, disciplinari o di altro genere.
LE FONTI DEL DIRITTO DI LIBERTA’ DI COSCIENZA
1. Il ricorrente sostiene, in prima battuta, che questo “diritto di non essere costretti a” (e quindi di “rifiutarsi di”) subire la lesione di diritti inviolabili propri o ledere quelli altrui, nient’altro è se non il contenuto del “diritto inviolabile di libertà di coscienza”, che trova riconoscimento e fonte normativa nell’art. 2 della Costituzione e negli articoli 1, 9, 13 e 17 della Convenzione sui diritti dell'uomo. In ciò il ricorrente è confortato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana e, in particolare, dalle sentenze n. 117/1979 e n. 334/1996 che hanno sancito la piena legittimità del rifiuto dei testi e delle parti processuali di prestare il giuramento per libertà di coscienza, cioè per salvaguardare il diritto negativo di libertà religiosa.
2. In seconda battuta, il ricorrente sostiene che questo “diritto di non essere costretti a (e quindi di “rifiutarsi di”) subire l’imposizione di atti lesivi dei diritti inviolabili costituisce l’indefettibile aspetto negativo di qualsiasi diritto inviolabile, come costantemente sostenuto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Il diritto alla vita, ad esempio, non implica soltanto quello di “vivere”, ma anche quello di non essere costretti a (e quindi di “rifiutarsi di”) compiere atti o subire atti privativi della vita (ad es. di entrare nelle camere a gas); parimenti, il diritto alla libertà religiosa non implica soltanto il diritto di credere o non credere e di praticare e/o di propagandare, in pubblico o in privato, una credenza religiosa, ma anche il diritto di non essere costretti a (e quindi rifiutarsi di) compiere atti o subire atti con significato e/o valenza religiosa, come ad es. praticare culti religiosi, recitare preghiere e rosari, indossare simboli religiosi o esporli in casa propria o manifestare le proprie convinzioni religiose. Parimenti, il diritto di associarsi (art. 11 Convenzione sui diritti dell’Uomo, art. 20 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ed art. 22 del Patto intern. sui diritti civili) non implica soltanto il diritto “positivo” di iscriversi, ad esempio, ad un sindacato, ma anche il diritto “negativo”, di non essere obbligati -magari dietro la comminatoria di sanzioni estreme come il licenziamento- ad aderire ad un sindacato, come peraltro espressamente sentenziato dalla CEDH e come sancito dal secondo comma dell’art. 20 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’ONU il 10.12.1948 (“Nessuno può essere costretto a far parte di un'associazione.”).
3. In terza battuta, infine, il ricorrente sostiene che il “diritto di non essere costretti a (e quindi di “rifiutarsi di”) subire l’imposizione di atti lesivi dei diritti inviolabili costituisce in ogni caso il contenuto del “diritto di legittima difesa” e/o dello “stato di necessità” (artt. 52 e 54 C.P., 2044 e 2045 cod. civ.) e, in ambito contrattuale, anche dell’ “exceptio inadimpleti contractus” (art. 1460 c.c.), in virtù del paradigma secondo cui “il principio dell’autotutela è uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, dipanantesi attraverso le norme del codice civile e del codice penale, in virtù del quale ogni cittadino, di fronte ad un atto illecito che lo danneggi, ha il diritto di adottare tutti i mezzi adeguati al fine di ottenere che l’illecito in suo danno cessi per impedire il ripetersi di consimili illeciti” (così Tribunale di Bolzano, sentenza del 28.3.1979).
4. Riassumendo, il ricorrente sostiene che il contenuto del “diritto inviolabile di libertà di coscienza” si sostanzia nel “diritto di rifiutarsi di compiere atti doverosi, motivato dalla necessità di evitare la lesione di diritti inviolabili, propri o altrui, che inevitabilmente conseguirebbe dall'adempimento dell'attività doverosa”.
Il ricorrente sostiene che il diritto di libertà di coscienza si connota per le seguenti peculiari caratteristiche:
a ) non può subire limitazioni, violazioni o deroghe superiori a quelle previste dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e dalla Costituzione;
b ) non non può mai soggiacere, in caso di conflitto con altri valori primari, ad alcun bilanciamento che determini restrizioni superiori a quelle previste dalla Convenzione;
c ) non può diventare recessivo di fronte ai doveri che nascono dal rapporto di pubblico impiego e che sono sanciti dal comma secondo dell'art. 54 Cost.;
d ) non è limitato o condizionato dalla volontarietà od obbligatorietà del rapporto d'impiego che lega il dipendente all’Amministrazione;
e ) è irrinunciabile, indisponibile, imprescrittibile e non assoggettabile a decadenza;
d ) non necessita, avendo natura di scriminante, di alcuna espressa previsione di legge per essere esercitato, essendo soltanto sufficiente che il rifiuto di atti doverosi si profili necessario e funzionale a scongiurare la lesione di diritti fondamentali;
f ) non può essere subordinato al previo esperimento di altri rimedi legali e all’esito favorevole degli stessi, perché ciò comporterebbe comunque, nelle more, la lesione irreparabile dei diritti inviolabili.
LE FONTI NORMATIVE DEL DIRITTO DI LIBERTA’ DI COSCIENZA
1. Il diritto di libertà di coscienza è espressamente contemplato dall’art. 9 della Convenzione, ma trova il suo fondamento anche sul combinato disposto degli articoli 1 e 17 della Convenzione.
In particolare l’art. 1 della Convenzione dispone che “le Alte Parti contraenti riconoscono ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà indicate nel titolo I della presente Convenzione”: da questa norma (al pari dell’omologo art. 2 della Costituzione, che dispone che “La repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”) si ricava il principio che lo Stato (come qualsiasi altro soggetto) è OBBLIGATO (e non “facoltizzato”) a rispettare i diritti e le libertà inviolabili dell’uomo in tutta la loro pienezza.
L’art. 17 della Convenzione sancisce poi che “nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata come contenente per uno Stato, un raggruppamento, o un individuo, un diritto a....compiere un atto che mira alla sospensione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o ad una limitazione di questi diritti e libertà maggiore di quella prevista dalla Convenzione”: da tale norma si ricava che i diritti inviolabili non possono subire limitazioni, violazioni o deroghe superiori a quelle previste dalla Convenzione né subire, in caso di conflitto con altri valori primari, un “bilanciamento” che determini restrizioni superiori a quelle consentite”. Pertanto il Legislatore ordinario -come costantemente affermato dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale- pur essendo “sovrano” nell’emanazione delle leggi, trova dei limiti invalicabili -oltre che nel rispetto dei principi costituzionali- anche nel rispetto pieno e incondizionato dei diritti primari inviolabili.
Quindi, ad esempio, in caso di epidemie contagiose non potrebbe essere decretata, magari con legge, la soppressione in massa delle persone infette, anche se tale misura sarebbe giustificata dall’esigenza di tutelare un altro interesse “costituzionale”, quello della “salute della collettività” previsto dall’art. 32, 1° comma, della Costituzione: a ciò osterebbe, infatti, la circostanza che la vita è riconosciuta, sia ex art. 2 della Costituzione che ex artt. 2 e 15 della Convenzione sui diritti dell’uomo, come diritto inviolabile dell’individuo, sicché le uniche “limitazioni” consentite sono quelle espressamente previste dall’art. 2, comma 2°, e dall’art. 15 della Convenzione (ad es. pena di morte, legittima difesa, stato di guerra).
Alla stessa stregua, non potrebbe essere autorizzata o imposta la tortura degli imputati per ottenere la confessione, pur essendo indubbio che la tortura sarebbe giustificata da “esigenze di Giustizia”, altro “valore” di indubbio rango “costituzionale”. Nemmeno potrebbe essere imposto l’obbligo di iscriversi a partiti politici, pur essendo indubbio che la “partecipazione dei cittadini alla politica nazionale” è un altro valore costituzionale contemplato dall’art. 49 Cost. Infine, non potrebbe essere imposto l’obbligo di giurare in nome di un qualche Dio, o di baciare crocifissi o di recitare preghiere o rosari per rafforzare nei testi l’impegno a dire la verità, pur essendo innegabile che l’“obbligo del “giuramento” è contemplato dall’art. 54 della Costituzione e che è correlato ad un interesse di rango costituzionale: quello dell’amministrazione della “Giustizia”.
2. E’ d’uopo segnalare, a questo punto, un’apparente lacuna, contenuta sia nella Convenzione sui diritti dell’uomo che nella Carta Costituzionale: in nessuna delle due, infatti, esiste una norma che riconosca esplicitamente a qualsiasi persona il “diritto di rifiutarsi di ledere i diritti inviolabili altrui”, cioè di “disobbedire a leggi o ad altri atti normativi che impongano, magari dietro comminatoria di sanzioni penali, amministrative, disciplinari o civili, di ledere i diritti di terze persone”, come ad esempio di sterminare o torturare o rinchiudere nei lager gli ebrei e i rom.
Si tratterebbe di una gravissima incongruenza, che vanificherebbe la ratio e l’efficacia della Convenzione, facendo sì che possano ripetersi gli orrori dell’ultimo conflitto mondiale, quando militari e funzionari furono costretti a perpetrare crimini contro i diritti umani con cieca remissività, cioè ad “obbedir tacendo”.
3. Questa ipotesi interpretativa deve essere ripudiata alla luce dei seguenti riferimenti normativi.
A) In primo luogo, sia dall’art. 1 della Convenzione che dall’art. 2 della Costituzione italiana si deduce che lo Stato italiano deve garantire il rispetto dei diritti inviolabili e, dal momento che ogni Stato agisce necessariamente attraverso i suoi funzionari (cd. rapporto di rappresentanza organica), si deve ritenere che i funzionari abbiano l’obbligo (e comunque il diritto) di rifiutarsi di applicare norme illegittime che cagionano la lesione di diritti inviolabili altrui.
B) Argomento altrettanto univoco si trae dall’art. 13 della Convenzione, che sancisce che “ogni persona, i cui diritti e libertà riconosciuti nella presente convenzione fossero violati, ha diritto di presentare un ricorso avanti ad una magistratura nazionale, anche quando la violazione fosse stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio di funzioni ufficiali”. Dal tenore di questa norma si argomenta che la violazione dei diritti fondamentali da parte dei “funzionari” deve ritenersi, di regola, un'eccezione patologica e che, per converso, i funzionari hanno l’obbligo di applicare le norme della Convenzione con priorità rispetto alle norme interne. E dal momento che gli Stati membri non possono violare i diritti fondamentali dell’individuo, è giocoforza dedurre che i funzionari possano legittimamente “disobbedire” a leggi o ad altri atti di imperio che, ponendosi in contrasto con la Convenzione, provocano la violazione dei diritti umani.
C) Risolutivo è infine il testo dell'art. 17 della Convenzione, che sancisce che “nessuna disposizione della Convenzione può essere interpretata come contenente per uno Stato, un raggruppamento, o un individuo, un diritto a....compiere un atto che mira alla sospensione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o ad una limitazione di questi diritti e libertà maggiore di quella prevista dalla Convenzione”.
Dal tenore di questa disposizione si evince infatti che gli Stati contraenti non hanno alcun diritto di limitare i diritti inviolabili in misura maggiore di quella prevista dalla Convenzione e che, pertanto, non possono OBBLIGARE i funzionari, magari dietro comminatoria di sanzioni penali e/o disciplinari, a compiere atti che provocano la lesione di diritti fondamentali altrui: se agli Stati fosse infatti consentita una siffatta facoltà, la tutela dei diritti inviolabili sarebbe, non soltanto sospesa, ma addirittura annichilita.
Riepilogando, dalle norme sopra citate si ricava il principio di diritto -esattamente opposto a quello clerico/fascista postulato dal CSM- secondo cui nessuna persona -sia essa un soggetto privato o un pubblico funzionario- può essere costretta -sotto comminatoria di sanzioni penali, disciplinari, amministrative o civili- a ledere diritti “inviolabili” altrui.
4. Bisogna a questo punto considerare che l’art. 9 della Convenzione riconosce ad ogni persona (e quindi anche ai funzionari) il diritto inviolabile di libertà di coscienza, sicché non si può disconoscere che, per libertà di coscienza legata al rispetto dei diritti umani altrui, chiunque sia autorizzato a disobbedire a qualsiasi legge o atto normativo che determini la lesione di diritti inviolabili “altrui”.
E se il diritto di rifiutarsi per libertà di coscienza compete a chi non intende ledere i diritti inviolabili altrui, a maggior ragione deve essere riconosciuto per i diritti inviolabili propri, sicché a chiunque deve essere riconosciuto il diritto di rifiutarsi, per libertà di coscienza, di subire la lesione di propri diritti inviolabili e, dunque, di disobbedire a qualsiasi legge, atto d’imperio od ordine che determini la lesione dei propri diritti”.
Il contenuto del “diritto inviolabile di libertà di coscienza”, dunque, consiste nella “facoltà di rifiutarsi di compiere atti doverosi, motivata dalla necessità di evitare la lesione di diritti inviolabili, propri o altrui, che inevitabilmente conseguirebbe dall'adempimento dell'attività doverosa”.
Quindi, chi rifiuta l'atto doveroso pone necessariamente in essere una forma di “autotutela” di questa portata: “io mi rifiuto deliberatamente di adempiere l'atto doveroso perché, se lo facessi, subirei la lesione di diritti inviolabili miei, oppure lederei i diritti inviolabili di altri soggetti”.
Il diritto di libertà di coscienza assume un valore fondamentale per l’efficacia della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, perché rappresenta lo strumento giuridico indispensabile per evitare che si ripetano gli orrori dell'ultimo conflitto mondiale, quando molti funzionari e molti militari degli Stati belligeranti furono costretti ad “obbedire, tacendo, ad atti normativi e/o d'imperio lesivi di diritti fondamentali degli esseri umani” (si pensi, in particolare, alle torture ed allo sterminio degli ebrei e dei rom).
5. Dalle considerazioni sopra esposte emerge che il “diritto di libertà di coscienza” ricalca, in sostanza, il paradigma della legittima difesa prevista dall'art. 52 C.P., con l'unica peculiarità che si tratta di una forma di autotutela contro atti normativi primari (leggi) o secondari (regolamenti, circolari etc.), di cui si deduce e si denuncia l'illegittimità costituzionale e/o convenzionale, cioè la lesività di DIRITTI UMANI.
6. Anche dall’art. 51 del codice penale si ricavano fattispecie di “disobbedienza legittima”, ma la loro portata è molto più limitata. Disponendo infatti tale norma che “l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità esclude la punibilità”, essa autorizza (anzi, impone) la disobbedienza dei soli “ordini illegittimi” che comportano l’esecuzione di fatti-reato, ma non autorizza la disobbedienza di ordini illegittimi che determinano soltanto la lesione di diritti inviolabili e, in ogni caso, non autorizza la disobbedienza di “leggi” che impongano la perpetrazione di fatti-reato o la lesione di diritti inviolabili, come ad esempio una legge che imponga ai giudici di torturare gli imputati o ai militari di rastrellare ebrei e rom e di infilarli nelle camere a gas.
7. Il ricorrente sostiene che ogni qualvolta ricorra un'ipotesi di “diritto di libertà di coscienza” -ovverosia la necessità di disubbidire ad atti imperativi per preservare diritti inviolabili propri o altrui- non vi può essere mai la necessità di procedere ad alcun cervellotico giudizio di “bilanciamento con interessi costituzionali contrapposti”, perché non vi può mai essere un “contestuale” interesse di rango costituzionale che “giustifichi” l’annichilimento del diritto inviolabile. Chi si rifiuta per libertà di coscienza, infatti, non entra in conflitto con altri valori costituzionali, ma denuncia, al contrario, che l’attività che gli viene imposta contrasta con canoni costituzionali (o convenzionali) che la rendono illecita e, dunque, lesiva di diritti inviolabili, cioè denuncia che il Legislatore ordinario o la Pubblica Amministrazione hanno travalicato i limiti imposti loro dalla Costituzione e/o dalla Convenzione e, pertanto, pretende il ripristino della LEGALITA’. Semmai si può porre il problema dell’adozione di precauzioni volte ad evitare la lesione di diritti inviolabili altrui, cioè di evitare l’ “abuso” dell’esercizio del diritto (evenienza che nel caso di specie il dr. Tosti ha accuratamente evitato, preannunciando con congruo anticipo il suo rifiuto al fine di garantire la prosecuzione del servizio a favore degli utenti).
8. Dalla particolare natura del diritto di libertà di coscienza -che implica il “diritto alla non costrizione”- scaturisce il corollario che esso inerisca a tutti i diritti inviolabili o, come affermano la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale, “ne sia una particolare declinazione”.
Ad esempio, il diritto di libertà di religione non implica soltanto il diritto di credere o non credere e di manifestare la propria religione, ma anche quello di non essere costretti a compiere atti di culto o a partecipare ad atti con significato religioso: prova ne è che è stata ritenuta lecita la violazione dell’art. 366 del codice penale, cioè il “rifiuto” di un teste di adempiere un obbligo sanzionato anche penalmente, perché necessitato dall’esigenza di tutelare la propria “libertà di coscienza in relazione all’esperienza religiosa” (C. Cost., sentenze n. 117/1979 e n. 334/1996).
Alla stessa stregua, nessuno potrebbe essere costretto ad iscriversi a sindacati (libertà di coscienza legata al diritto di libertà di associazione) o a partiti politici (libertà di coscienza legata al diritto di libertà di associazione politica) o a sposarsi (libertà di coscienza legata al diritto di libertà di matrimonio) o a suicidarsi (libertà di coscienza legata al diritto alla vita) o a torturare (libertà di coscienza legata al divieto di infliggere torture) e via dicendo. Analogamente, quindi, chiunque potrebbe rifiutarsi di obbedire a leggi che impongano -magari dietro comminatoria di sanzioni penali- di pregare, di recitare rosari, di esporre crocifissi in casa propria o sulla propria persona, di battezzarsi o che vietino di usufruire delle trasfusioni di sangue.
9. Queste considerazioni risultano condivise dalla giurisprudenza della Corte Eur. dei Dir. dell’Uomo, la quale ha costantemente affermato che rientra nel contenuto di tutti i diritti inviolabili anche l’aspetto “negativo”, cioè quello di non essere costretti a subire atti o imposizioni che ne determinino la lesione. Si può pertanto affermare che non esista una fonte normativa “autonoma” del “diritto di rifiutarsi” di compiere o subire atti lesivi dei propri diritti ma che, più propriamente, si tratti di una facoltà che rientra nel contenuto di ogni singolo diritto inviolabile.
Così, in effetti, si è pronunciata la Corte europea con l’arresto del 13 agosto 1981, Young e altro c. Regno Unito Gran Bretagna e altro: “la responsabilità di uno Stato parte della convenzione europea dei diritti dell'uomo può sorgere anche in seguito a comportamenti individuali lesivi di un diritto tutelato da detta convenzione, nella misura in cui tali comportamenti siano resi leciti dal diritto nazionale. Benché l'art. 11 par. 1 della convenzione non garantisca in modo esplicito ANCHE il diritto negativo di non essere obbligato ad aderire ad un sindacato, l'imposizione di un obbligo siffatto ad un lavoratore, pena il suo licenziamento, contrasta con la sostanza stessa della libertà sindacale, tutelata da detto articolo. Il rispetto delle opinioni personali, contemplato in via generale dagli art. 9 e 10 della convenzione per quel che concerne tanto la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, quanto la libertà di espressione, costituisce allo stesso tempo uno degli elementi della libertà di associazione di cui all'art. 11 par. 1. Ricade pertanto sotto il divieto che si deduce da quest'ultimo articolo l'esercizio di pressioni dirette a costringere un lavoratore ad aderire ad un sindacato che persegue obiettivi contrastanti con le sue convinzioni”.
Da questa pronuncia si ricava una regola juris diametralmente opposta al postulato clerico/fascista del CSM, e cioè che “nessuno può essere sanzionato per essersi rifiutato di compiere o di subire atti contrari ad un diritto inviolabile (nel caso esaminato dalla Corte il ricorrente era stato sanzionato col licenziamento per essersi rifiutato di iscriversi ad un sindacato).
Dunque, la condanna inflitta al Tosti viola questa regula juris, perché il dr. Tosti è stato grottescamente rimosso dalla magistratura “per essersi rifiutato di subire la lesione dei suoi diritti inviolabili di libertà religiosa, di eguaglianza e di rispetto del principio supremo di laicità”, senza che il CSM abbia mai mosso rilievi in merito ad ipotetici (quanto insussistenti) addebiti di “abuso del diritto”.
In senso analogo si è pronunciata la CEDU con la sentenza 25 maggio 1993, Kokkinakis c. Grecia, statuendo che, “qualora la legge di uno Stato (nella specie, la Repubblica ellenica), pur dopo avere sancito il postulato costituzionale dell'assoluta, inviolabile libertà di coscienza nelle questioni religiose, di professione e di pratica di qualsiasi culto “noto”, conferisca ad una determinata confessione (nella specie, la Chiesa orientale cristiano-ortodossa) una posizione “dominante” e quindi di indiscriminata tutela e di evidentissima netta poziorità, è tuttavia contrario al pluralismo (anche ideologico e religioso) caratterizzante indefettibilmente ogni ordinamento democratico moderno ed al fondamentale diritto di propaganda religiosa, il perseguimento, con norme sanzionatorie penali, civili ed amministrative, non solo del proselitismo diretto a sottrarre fedeli alla Chiesa “dominante” con il mero insegnamento spirituale, con la personale testimonianza, con l'esempio e con la predicazione volta a mostrare gli errori e le illogicità della confessione “dominante” e d'ogni altra religione, ma anche del proselitismo che, allo stesso scopo, ricorra a mezzi ingannevoli, insinuanti e sleali, o che approfitti dello scarso o scarsissimo livello culturale altrui, o che sia sorretto, per attirare consensi, dalla dazione o dalla promessa di beni o di altri vantaggi materiali, o che si avvalga di espressioni di marcato ed assai acceso carattere polemico (nel caso di specie, era stata repressa la propaganda svolta da un appartenente alla Congregazione dei Testimoni di Geova)”.
Anche da questa pronuncia si ricava la regola juris secondo cui è lesiva di un diritto inviolabile l’imposizione -sotto comminatoria di sanzioni- del “divieto” di compiere atti che rientrano nel contenuto “positivo” di un diritto inviolabile (nella specie, quello di propagandare la propria fede religiosa).
Ebbene, dal momento che il contenuto di qualsiasi diritto inviolabile è anche “negativo”, è giocoforza dedurne che è altrettanto lesivo di un diritto inviolabile il “divieto” -sotto comminatoria di sanzioni (nella specie: rimozione dalla magistratura) di compiere atti che rientrano nel contenuto “negativo” di un diritto inviolabile: nella specie di rifiutarsi di subire la lesione dei diritti di libertà e di eguaglianza religiosa e della prerogativa di rispetto del principio di laicità).
10. E sulla circostanza che l’imposizione dei crocifissi leda i diritti di libertà religiosa e di eguaglianza e, inoltre, il principio supremo di laicità, non possono più esservi soverchi dubbi.
E’ la stessa Sezione disciplinare del precedente CSM, infatti, che condivide queste conclusioni nell’ordinanza di sospensione cautelare. E non è da meno la Cassazione penale che, nell’assolvere il Tosti, ha osservato che “detta circolare, tenuto conto anche dell'epoca a cui risale, non sembra essere in linea con il principio costituzionale di laicità dello Stato e con la garanzia, pure costituzionalmente presidiata, della libertà di coscienza e di religione.... intesa non solo in senso positivo, come tutela della fede professata dal credente, ma anche in senso negativo, come tutela del credente di fede diversa e del non credente che rifiuta di avere una fede”.
Ma non è tutto.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha infatti affermato nella sentenza 3.11.2009 (caso Lautsi Soile c./ Italia) che la presenza del crocifisso nelle aule viola il diritto di libertà religiosa ed il principio di laicità, cioè di neutralità dello Stato: “la libertà negativa non è limitata all’assenza di servizi religiosi o di insegnamenti religiosi. Essa si estende alle pratiche e ai simboli che esprimono, in particolare o in generale, una credenza, una religione o l'ateismo. Questo diritto negativo merita una protezione particolare se è lo Stato che esprime una credenza e se la persona è messa in una situazione di cui non può liberarsi o di cui si può liberare soltanto con degli sforzi e con un sacrificio sproporzionati..... Lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale ........ La Corte non vede come l’esposizione nelle aule.... pubbliche di un simbolo che è ragionevole associare al cattolicesimo .... potrebbe servire al pluralismo.... che è essenziale alla preservazione d’una "società democratica" come la concepisce la Convenzione, e alla preservazione del pluralismo che è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale nel diritto nazionale (vedi paragrafo 24).... La Corte ritiene che l’esposizione obbligatoria di un simbolo confessionale nell’esercizio del settore pubblico..... in particolare nelle aule, viola il diritto..... di credere o non di credere. La Corte considera che questa disposizione violi questi diritti poiché le loro limitazioni sono incompatibili con il dovere che spetta allo Stato di rispettare la neutralità nell’esercizio del settore pubblico”.
Questa massima della CEDU, peraltro, conferma appieno la più volte citata sentenza della IV Sezione penale della Cassazione n. 4273/2000.
Ma l’imposizione dei crocifissi lede anche il diritto di eguaglianza religiosa, perché al dr. Tosti è stato vietato, pur non sussistendo alcun impedimento (di legge o di spazio sulle pareti) di esporre i suoi simboli nelle aule del Tribunale camerte, cioè di usufruire degli stessi diritti e delle stesse opportunità accordate dal Ministro di Giustizia ai cattolici.
L' OBIEZIONE DI COSCIENZA
I. E’ bene puntualizzare, a questo punto, che il diritto di libertà di coscienza non deve essere confuso con l’“obiezione di coscienza” che, pur consistendo, come il diritto di libertà di coscienza, in un “rifiuto di un’attività doverosa”, se ne differenzia per la peculiarità delle “motivazioni” che la ispirano.
L’obiettore di coscienza, infatti, è colui che si limita ad addurre, a sostegno del suo rifiuto, la pretesa di far prevalere i propri convincimenti morali, religiosi, filosofici o ideologici, sugli obblighi giuridici che gli vengono imposti dalle norme, senza però prospettarne o denunciarne alcun vizio di incostituzionalità.
Ad esempio, un medico si rifiuta di praticare le trasfusioni di sangue o l'aborto terapeutico, perché li ritiene contrari ai precetti della sua religione. Un giudice tutelare si rifiuta di autorizzare una minorenne ad abortire, perché ritiene che l'aborto sia contrario ai precetti della sua fede religiosa. Un testimone di Geova e un protestante evangelico si rifiutano di “giurare”, perché le loro religioni glielo vietano. Un soldato si rifiuta di partecipare alla guerra, perché aborre uccidere altri uomini. Una donna musulmana si rifiuta di togliersi il velo per farsi identificare dall’autorità giudiziaria, perché la sua religione glielo vieta. Un veterinario si rifiuta di abbattere mucche infettate da un malattia contagiosa, perché le considera animali sacri.
In tutti questi casi appare evidente che l’obiettore, attraverso la pretesa di sottrarsi all’osservanza di norme approvate dal Legislatore, finisce per “contestare” le scelte discrezionali operate dal Legislatore stesso, al quale imputa di aver legiferato in modo contrastante con le sue opinioni e/o coi suoi imperativi interiori. E’ come se dicesse: “tu, Legislatore, non potevi legiferare in questo modo, perché la scelta che hai operato contrasta con i miei convincimenti, di cui dovevi tenere conto perché gli artt. 19 e 21 della Costituzione tutelano la mia libertà di religione e di opinione”.
Questo ragionamento e questa “pretesa”, però, sono viziati da un palese e macroscopico errore giuridico.
Per un elementare e basilare principio Costituzionale, infatti, la potestà di legiferare non compete ai “cittadini” ma al Legislatore, il quale la esercita con assoluta discrezionalità e col solo limite dell’osservanza dei precetti costituzionali (e convenzionali).
Nessun cittadino, dunque, può pretendere che il Legislatore emani norme che siano rispettose delle sue peculiari credenze religiose, filosofiche, ideologiche e magari di quelle degli altri cittadini: non solo perché sarebbe impossibile conciliarle tutte quante nei provvedimenti legislativi, ma anche perché le leggi sono in realtà il frutto della “mediazione” parlamentare di tutte le ideologie che si confrontano in sede politica e, quindi, essendo approvate dalla maggioranza, sono obbligatorie per tutti.
II. In altri termini, i diritti di libertà di religione e di pensiero implicano sì il rispetto della facoltà astratta di credere o non credere in quel che si vuole e di maturare qualsiasi opinione o convincimento morale e/o filosofico, ma non implicano anche il diritto di imporre al Legislatore le proprie credenze attraverso la disobbedienza delle norme cogenti.
D’altro canto, se neppure alla Corte Costituzionale è consentito interferire nelle scelte discrezionali del legislatore, è assurdo ipotizzare che una simile facoltà possa competere ai cittadini!!!!
Pertanto, i genitori possono senz’altro rivendicare l’osservanza del loro astratto diritto di credere alla singolare superstizione religiosa secondo cui un tal Jahvè avrebbe proibito le trasfusioni di sangue, ma non potrebbero mai sottrarsi all’obbligo -che scaturisce dalla loro potestà genitoriale- di consentire che esse vengano effettuate al figlio minore per scongiurarne la morte.
III. Non è di secondaria importanza il rilievo che, se si ammettesse la liceità della “libertà di coscienza legata all’obiezione”, si perverrebbe al paradosso che gli obiettori otterrebbero il “privilegio” di essere “esonerati” dagli obblighi di legge, cagionando in tal modo un’incostituzionale sperequazione a discapito di tutti coloro che, invece, osservano doverosamente i precetti.
E' per questi motivi, pertanto, che la Corte Costituzionale ha costantemente escluso che l’ “obiezione di coscienza” possa avere una qualche rilevanza giuridica, cioè possa rendere “legittimo” il rifiuto di adempiere un obbligo giuridico: salvo che, ovviamente, una specifica legge non autorizzi in modo espresso l'obiezione di coscienza.
Ma questa è tutta un’altra storia che presuppone, peraltro, che il legislatore, nella sua assoluta discrezionalità, operi un “bilanciamento della libertà di coscienza degli obiettori con i contrapposti doveri o beni di rilievo costituzionale”: in caso contrario, infatti, si correrebbe il rischio che nessuno adempia le attività doverose o che, comunque, si creino disservizi ai danni delle strutture pubbliche o degli utenti (cfr. C.Cost. 467/91, 422/93, 149/95).
IV. Questo è quanto accaduto, ad esempio, per effetto della legge n. 772 del 1972, con la quale il Legislatore ha consentito una deroga al dovere di prestare il servizio militare, sancito dall'art. 52 della Costituzione a carico di tutti i cittadini, esonerando coloro che sono contrari all'uso delle armi per motivi ideologici ma accettano, tuttavia, di espletare servizi civili o militari alternativi.
E' quanto accaduto, altresì, per l'interruzione volontaria della gravidanza, laddove si è accordato ai sanitari il diritto di rifiutare quella prestazione medica per obiezione di coscienza.
V. Sulla base di quanto sin qui esposto appaiono evidenti le differenze tra i due istituti.
Pur manifestandosi entrambi col “rifiuto di adempiere attività doverose”, il diritto di libertà di coscienza è un diritto fondamentale che trae riconoscimento diretto dalla Costituzione e dalla Convenzione sui diritti dell’Uomo, il cui contenuto implica la facoltà di rifiutarsi di adempiere atti doverosi perché illegittimi, cioè lesivi di diritti inviolabili.
L’ “obiezione di coscienza”, invece, non è contemplata da nessuna norma come diritto fondamentale e concretizza un rifiuto di attività doverose motivato da un conflitto interiore con contrastanti imperativi ideologici o religiosi.
Ciò che distingue le due figure è dunque la differente natura del “motivo” del rifiuto: nel diritto di libertà di coscienza chi oppone un rifiuto prospetta e denuncia l’illegittimità della norma per contrasto con la Costituzione o con la Convenzione; nell’obiezione di coscienza, invece, ci si limita a denunciare un contrasto con convincimenti ideologici personali.
A differenza del diritto di libertà di coscienza l’obiezione di coscienza non scrimina, potendo assurgere a dignità di diritto solo se riconosciuta come tale dal Legislatore dello Stato nazionale. E la conferma scaturisce dall'art. 10 della Carta di Nizza che, dopo aver ribadito al primo comma il riconoscimento del “diritto fondamentale alla libertà di coscienza, di pensiero e di religione” -peraltro nella stessa identica accezione prevista dall'art. 9 della Convenzione sui diritti dell'uomo- ha aggiunto al secondo comma la nuova figura del “diritto all'obiezione di coscienza”, al quale ha però accordato tutela solo se e in quanto “riconosciuto secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio”.
Al di fuori dei casi previsti dal Legislatore, dunque, non vi è spazio per l’”obiezione di coscienza”, non essendo consentito -anche se per motivazioni apprezzabili- sottrarsi all'adempimento di obblighi di legge che siano esenti da vizi di incostituzionalità.
VI. Dalle suesposte considerazioni discende che la “libertà di coscienza”, che ispira il “diritto di libertà di coscienza”, ha natura diversa dalla “libertà di coscienza” che anima l’ “obiezione di coscienza”: la prima assurge a dignità di diritto inviolabile, come tale non comprimibile né sopprimibile dal Legislatore; la seconda ha natura di “interesse legittimo”, come tale assoggettabile a restrizioni o, al limite, sopprimibile.
Ad esempio, nulla potrebbe impedire che il Legislatore abroghi le disposizioni che attualmente riconoscono l’obiezione di coscienza in materia di servizio di leva o di interruzione della gravidanza. Il che è confortato dal TAR del Lazio, Sez. I, che con sent. n. 6 del 7.1.1987 ha affermato che “il preteso diritto del singolo alla libertà di coscienza in tema di servizi militare è in realtà un mero interesse legittimo connesso al corretto uso del potere dell’autorità militare di vagliare le condizioni e i requisiti dettati dalla legge per l’ammissione all’obiezione di coscienza, potere legato all’interesse generale dell’adempimento di un dovere pubblico imposto alla generalità, a tutela di beni e valori collettivi, dall’art. 52 della Costituzione e, perciò, destinato a prevalere, nei limiti della legittimità del procedimento di realizzazione, sulle aspettative individuali”.
Diversamente, però, il Legislatore non potrebbe ripristinare formule di giuramento che contengano riferimenti a Dio: questi riferimenti, infatti, lederebbero la “libertà di coscienza legata alla libertà religiosa” e, dunque, autorizzerebbero chiunque a rifiutarsi legittimamente di giurare, senza cioè correre il rischio di incappare in una sanzione penale o di altra natura.
La bontà di queste considerazioni trova conforto nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sopra citata (in particolare 13 agosto 1981, Young e altro c. Regno Unito Gran Bretagna e altro) nonché nelle seguenti massime:
1°) “Il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa non può escludere né limitare l'obbligo giuridico, imposto ai genitori, di impedire eventi penalmente rilevanti (nel caso concreto: morte) pregiudizievoli per i figli minori. Nel contrasto ideologico tra l'interesse del minore al trattamento emotrasfusionale, cui risultavano subordinate le possibilità di sopravvivenza del medesimo, e il diverso atteggiamento dei genitori, ispirato a motivi di carattere religioso, non ha significato il richiamo all'art. 19 cost. per farne discendere una incapacità degli stessi genitori ad adempiere i doveri dalla legge previsti, posto che non è affatto in discussione il potere degli anzidetti soggetti a professare una fede religiosa bensì il diritto soggettivo del minore, e dunque incapace di autodeterminarsi, ad essere sottoposto ad una data terapia conseguente all'obbligo di mantenimento e di assistenza a carico di chiunque abbia la cura di quell'incapace e, in chiave privilegiata, a carico dei genitori quale concreta esplicazione della potestà loro conferita. Ne deriva che si è al di fuori dell'esercizio della libertà religiosa allorquando si pongano, come sua espressione, contegni elusivi dei divieti e delle imposizioni di cui alle leggi penali. (Fattispecie in tema di omicidio, essendosi rapportata la morte del minorenne, affetto da morbo di Cooley, ex art. 40 comma 2 c.p. al contegno omissivo dei genitori che si opponevano alle terapie emotrasfusionali per motivi di fede religiosi” (Cassazione penale, sez. I, 13 dicembre 1983).
2°) “La libertà religiosa...non può essere intesa in guisa da contrastare e soverchiare l'ordinamento giuridico dello Stato, tutte le volte in cui questo imponga ai cittadini obblighi che, senza violare la libertà religiosa, si assumano vietati dalla fede dei destinatari della norma: tanto più, poi, quando, come nel caso in esame, l'obbligo ha la sua fonte in un precetto costituzionale, quale quello contenuto nel secondo comma dell'art. 54 della Costituzione, il quale stabilisce che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi previsti dalla legge” (Corte Costituzionale sent. n. 85/1963).
CASISTICA COMPARATA
Il ricorrente ritiene utile prospettare una casistica comparata delle due differenti figure giuridiche, in modo da renderne ancor più palesi e tangibili le differenze di contenuto e di portata.
PRIMO CASO - Se un medico si rifiuta di fare una trasfusione di sangue, perché la sua religione glielo vieta, ricorre un’ipotesi di obiezione di coscienza, dal momento che non deduce alcun vizio di incostituzionalità della normativa che gli impone di dispensare quel rimedio terapeutico ai cittadini. Tuttavia, se lo stesso medico si rifiuta di effettuare le trasfusioni di sangue perché lo Stato, magari dietro comminatoria di sanzioni penali o di altro genere, gli impone di trasfondere sangue infettato dal virus dell’ AIDS, ricorre un’ipotesi di legittimo esercizio del diritto di libertà di coscienza, dal momento che il suo rifiuto è motivato dalla necessità di preservare il diritto inviolabile alla salute dei pazienti.
SECONDO CASO - Se un soldato si rifiuta di partecipare ad operazioni belliche, perché la sua “coscienza” gli impone di non uccidere altri esseri umani, ricorre un’ipotesi di obiezione di coscienza, che non lo scrimina dalle sanzioni collegate alla sua disobbedienza. Però, se lo stesso soldato, sempre in tempo di guerra, si rifiuta di obbedire a leggi o regolamenti che gli impongono, sotto comminatoria di sanzioni, di rinchiudere nei lager gli ebrei e i rom, di torturarli e/o di sterminarli, il suo rifiuto è legittimo, perché motivato dalla libertà di coscienza legata al rispetto dei diritti inviolabili alla libertà, alla non tortura ed alla vita altrui.
TERZO CASO - Se un giudice tutelare si rifiuta di autorizzare una minorenne ad abortire, perché la religione cattolica ripudia l’aborto, ricorre un caso di obiezione di coscienza, che non lo scrimina da responsabilità penale e disciplinare. Se lo stesso giudice, però, si rifiuta di autorizzare la minorenne ad abortire, perché la normativa impone che l’aborto debba essere eseguito con la sterilizzazione e l’infibulazione mutilante, ricorre un’ipotesi di libertà di coscienza legata al ripudio della violazione dei diritti inviolabili all’integrità fisica e sessuale della minorenne.
QUARTO CASO - Se uno scrutatore si rifiuta di accettare l’incarico perché l’Amministrazione autorizza gli elettori ad esibire sulla propria persona simboli religiosi, ricorre un’ipotesi di obiezione di coscienza. Tuttavia, se lo stesso scrutatore si rifiuta perché l’Amministrazione gli impone di fare lo scrutatore sotto l’incombenza di crocifissi o con crocifissi appesi al collo -magari radioattivi- o marchiati a fuoco sulla fronte, ricorre un’ipotesi di libertà di coscienza.
QUINTO CASO - Se un seguace di Geova si rifiuta di pronunciare la formula di giuramento perché la sua religione gli vieta di “giurare”, ricorre un caso di obiezione di coscienza. Se lo stesso testimone si rifiuta di pronunciare la formula di giuramento, perché essa contiene riferimenti a Dio, ricorre un caso di diritto di libertà di coscienza.
LA FONDATEZZA DELLE PRETESE DEL RICORRENTE
Riepilogando, da quanto sopra esposto emerge, con assoluta certezza:
1°) che l’imposizione dei crocifissi nelle aule giudiziarie italiane ed il contestuale divieto di esporre altri simboli determina la lesione del principio supremo di laicità, nonché la lesione del diritto inviolabile di libertà religiosa e di eguaglianza e non discriminazione del dr. Luigi Tosti;
2°) che, dunque, il rifiuto di tenere le udienze fu giustificato e legittimo, perché necessitato dall’esigenza di salvaguardare tali diritti e prerogative dalla lesione attuale indotta dall’imposizione dei crocifissi nelle aule.
Giova ribadire che la Sezione disciplinare del precedente CSM ha ritenuto sostanzialmente fondato il primo punto, ma non il secondo. Ha infatti ritenuto che i diritti inviolabili del dr. Tosti divenissero recessivi di fronte alle superiori esigenze della giustizia. Questa motivazione non è stata (significativamente) “ricopiata” dal “nuovo” CSM, perché la Sezione disciplinare si è accorta degli errori di diritto che la inficiavano.
Pur trattandosi di questioni che non risultano prospettate in sentenza, il ricorrente ritiene opportuno confutare, ancora una volta, gli errori giuridici che sono stati commessi nell’ordinanza di sospensione cautelare.
1°) PRIMO ERRORE: al dr. Tosti sono stati applicati i principi di diritto enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 196/1987 per un caso di “rifiuto per obiezione di coscienza” (un giudice tutelare che pretendeva di potersi rifiutare di autorizzare una minorenne ad abortire perché contrario all’aborto), mentre la fattispecie del dr. Tosti integra un caso di “rifiuto per diritto di libertà di coscienza”, sicché debbono semmai applicarsi gli opposti principi di diritto sanciti dalla Corte Costituzionale nelle sentenze n. 117/1979 e n. 334/1996.
L’errore di diritto commesso dalla precedente Sezione disciplinare è evidentissimo: mentre il giudice tutelare non ha addotto a sostegno della pretesa di rifiutarsi di autorizzare una minorenne ad abortire alcun vizio di legittimità costituzionale dell’attività che gli veniva imposta -ma ha addotto soltanto contrastanti convincimenti ideologici- il dr. Tosti ha addotto invece vizi di legittimità costituzionale dell’attività che gli veniva imposta (la tenuta delle udienze sotto l’imposizione di simboli religiosi) e, dunque, la lesione di diritti e di prerogative inviolabili. Non possono dunque applicarsi al Tosti i principi sanciti dalla Corte Costituzionale nella sentenza 196/1987 ma, semmai, quelli della sentenza n. 117/1979, che ha sancito la legittimità del rifiuto di un teste di prestare il giuramento perché le modalità imposte (riferimenti a dio nella formula) ledevano il suo diritto (negativo) di libertà religiosa (cd. libertà di coscienza legata alla sfera religiosa).
La differenza concettuale e giuridica tra il “diritto di libertà di coscienza” e l’ “obiezione di coscienza” emerge in modo chiaro dal raffronto della sentenza n. 117/1979 (relativa ad un caso di diritto di libertà di coscienza) con la sentenza n. 85/1963 della stessa Corte Costituzionale, relativa invece ad un caso di “obiezione di coscienza”, cioè al caso di due testimoni che si rifiutarono di prestare il giuramento in quanto la “religione pentecostale”, da essi professata, vietava di prestare il giuramento sotto qualsiasi forma, conformemente all’insegnamento di San Matteo, capitolo V, 34-37, e che furono pertanto processati per il reato di cui all’art. 366 C.P.
Ebbene, in quest’ultimo caso la Corte Costituzionale, trattandosi di un evidentissimo caso di “obiezione di coscienza”, ritenne ingiustificato il rifiuto dei testi e respinse dunque l’eccezione di incostituzionalità con una motivazione che ricalca pedissequamente quella formulata per il giudice tutelare nella sentenza n. 196/1987: affermò cioè che “la libertà religiosa...non può essere intesa in guisa da contrastare e soverchiare l'ordinamento giuridico dello Stato, tutte le volte in cui questo imponga ai cittadini obblighi che, senza violare la libertà religiosa, si assumano vietati dalla fede dei destinatari della norma: tanto più, poi, quando, come nel caso in esame, l'obbligo ha la sua fonte in un precetto costituzionale, quale quello contenuto nel secondo comma dell'art. 54 della Costituzione, il quale stabilisce che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi previsti dalla legge”.
Con l’altra sentenza, invece, (la n. 117/1979), la Corte Costituzionale ritenne che l’omologo rifiuto di giurare era giustificato dall’esigenza di sottrarre il teste alla lesione del diritto di libertà religiosa provocata dalla particolare formula del giuramento (riferimenti alla divinità), senza peraltro attribuire la benché minima rilevanza giuridica alla circostanza che anche i testimoni -come i giudici- sono cittadini che esercitano “funzioni pubbliche” e che, inoltre, debbono “prestare giuramento per obbligo di legge”, ex art. 54 Costituzione.
E’ dunque inconfutabile che il principio di diritto che è stato applicato al dr. Tosti nell’ordinanza di sospensione cautelare è erroneo, perché tratto da una sentenza della Corte Costituzionale che riguardava un “caso” di “obiezione di coscienza”. E’ altrettanto inconfutabile che dal raffronto delle due pronunce della Corte Costituzionale sopra menzionate (n. 85/1963 e n. 117/1979) si evince il principio che l' “obbligo di adempiere le funzioni pubbliche con disciplina ed onore”, sancito dall’art. 54, comma 2°, a carico dei “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche”, non impedisce il legittimo esercizio del “diritto di libertà di coscienza” -cioè la facoltà di rifiutarsi di adempierle- ogniqualvolta ne derivi la lesione di diritti primari propri o altrui”.
Dunque, il principio di diritto affermato dal CSM nell’ordinanza di sospensione, secondo cui ai magistrati compete sì il diritto di libertà di coscienza, ma esso diviene recessivo, cioè si annichilisce, di fronte all’obbligo dell’art. 54 della Costituzione di “adempiere le funzioni pubbliche con disciplina ed onore”, non può essere condiviso perché contrario alla giurisprudenza della Corte Costituzionale: anche i testimoni, infatti, rientrano tra i soggetti cui sono affidate pubbliche funzioni che, ex art. 54 della Costituzione, sono tenuti a prestare il giuramento nei casi previsti dalla legge.
Ma sussistono anche due altri motivi giuridici per ritenere erronea l’affermazione che il diritto di libertà religiosa diviene “recessivo” di fronte alle superiori esigenze di giustizia.
Il primo è di ordine logico-giuridico: affermare infatti che ai magistrati compete il diritto di rifiutarsi di compiere attività doverose per libertà di coscienza, ma che questo diritto non può essere esercitato perché l’art. 54, comma 2° della Costituzione, lo vieta, è un vero e proprio ossimoro, dal momento che la conclusione nega la premessa da cui si è partiti.
Il secondo è che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo stabilisce, agli articoli 15, 17 e 18, che non possono essere imposte ai diritti fondamentali dell’uomo deroghe o restrizioni maggiori di quelle previste dalla Convenzione: nel caso di specie, dal tenore degli artt. 9, 13, 15 e 17 della Convenzione si ricava che non può essere imposto alcun limite o restrizione al “diritto di libertà di coscienza” di chicchessia. Dunque è contra ius ipotizzare che l’art. 54 della Costituzione -che si riferisce indistintamente a tutti i funzionari pubblici- imponga alla categoria dei magistrati una restrizione del diritto di libertà di coscienza che, peraltro, si risolve in una vera e propria deroga ablativa.
Si ribadisce che nel caso di specie non vi è stato alcun abuso o lesione di diritti di terzi o di altri valori costituzionali, perché il dr. Tosti ha preannunciato il proposito di doversi rifiutare con largo anticipo, proprio per garantire la prosecuzione delle udienze. L’unico “interesse” leso è quello del “datore di lavoro”, ma si tratta di un “pregiudizio” che è imputabile al comportamento dello stesso “datore di lavoro” e di cui dovrebbe risponderne in sede di responsabilità contabile, al pari del “pregiudizio” che subirebbe l’Amministrazione nel caso in cui una segretaria si rifiutasse di espletare le sue mansioni per le continue violenze carnali subite dal Ministro di Giustizia.
In ogni caso si evidenzia che la Corte Costituzionale, nel valutare se le formule di giuramento ledevano o meno i diritti di libertà religiosa dei testi, non ha mai affermato che il loro diritto di libertà di coscienza diveniva “recessivo” di fronte alle “superiori esigenze di giustizia”, ma hanno pienamente legittimato il loro “rifiuto di testimoniare” ancorché lo stesso abbia impedito alle parti e ai giudici di istruire cause penali e civili.
2° ERRORE: Erronea applicazione al caso Tosti dei principi di diritto affermati dalla sentenza n. 149/1995 della Corte Costituzionale che, in realtà, si riferisce ai casi di “obiezione di coscienza”.
Il CSM nell’ordinanza di sospensione cautelare ha affermato che è applicabile alla fattispecie del dr. Luigi Tosti il principio, estrapolato dalla sentenza della C. Cost. n. 149/1995, secondo cui “in tema di libertà di coscienza il legislatore può intervenire per “bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne la possibilità di realizzazione in modo da non arrecare pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi di interesse generale”.
Anche qui il CSM è incappato in errore materiale, perché la Corte Costituzionale ha postulato questo principio riferendosi all’ “obiezione di coscienza”, e non al diritto di libertà di coscienza.
Per la precisione, con la sent. 149/1995 la Corte Costituzionale ha affermato che non è costituzionalmente censurabile la scelta del Legislatore di accordare a determinati soggetti il “privilegio” di sottrarsi, per “obiezione di coscienza”, all’obbligo di adempiere attività doverose: e questo perché il Legislatore può operare un bilanciamento della “libertà di coscienza” degli obiettori (cioè delle motivazioni ideologiche che li inducono a rifiutarsi) con i contrapposti doveri o beni di rango costituzionale, in modo da far prevalere la prima senza arrecare pregiudizio al buon funzionamento dell’amministrazione.
Dunque, la “necessità di bilanciare la libertà di coscienza con contrastanti doveri o beni costituzionali” -cui allude la Corte Costituzionale- si riferisce esclusivamente al Legislatore e riguarda esclusivamente l’ipotesi in cui esso intenda accordare esenzioni privilegiate a determinate categorie di cittadini, cioè all’ipotesi dell’ “obiezione di coscienza”, e non alle fattispecie di “diritto di libertà di coscienza”, anche perché chi si rifiuta per diritto di libertà di coscienza reclama, in realtà, il rispetto della Costituzione.
3° ERRORE: Erronea affermazione del principio secondo cui il diritto di libertà di coscienza, previsto dall’art. 9 della Convenzione e dall’art. 2 della Costituzione, può essere esercitato solo se una norma di legge lo contempla attraverso la clausola del “giustificato motivo”.
Per giustificare la mancata applicazione al dr. Tosti dei principi affermati dalla Corte di Cassazione nella sent. n. 439 del 1.3.2000, il CSM ha affermato che “quel” caso era peculiare, perché l’art. 108 del D.P.R. 30.3.1957 n. 361 prevedeva, expressis verbis, la clausola del “giustificato motivo”.
Si tratta di una considerazione infondata. Il diritto di libertà di coscienza è infatti un diritto riconosciuto e garantito sia dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo che dalla Costituzione italiana: esso non abbisogna dunque di “clausole” o di norme particolari per essere esercitato, e la prova inconfutabile è fornita proprio dal caso del teste che si rifiutò di giurare a causa dei riferimenti alla divinità contenuti nella formula del giuramento: infatti questo teste venne assolto dal reato di cui all’art. 366 del codice penale, nonostante che tale norma non prevedesse (e non preveda) alcuna clausola di “giustificato motivo” di “rifiuto del giuramento” (“chiunque....chiamato a deporre come testimone dinanzi all’Autorità giudiziaria....rifiuta di prestare il giuramento richiesto...”).
In ogni caso, poi, non corrisponde affatto al vero che la Cassazione penale abbia affermato che la “libertà di coscienza” dello scrutatore Montagnana meritasse tutela solo perché l’art. 108 contemplava la clausola del “giustificato motivo”. In realtà, la Corte di Cassazione ha affermato l’esatto contrario (punto 9 della motivazione), e cioè che “la libertà di coscienza.... va tutelata nella massima estensione compatibile con altri beni costituzionalmente rilevanti e di analogo carattere fondante, come si ricava dalle declaratorie di illegittimità costituzionale delle formule del giuramento...: ma, nel caso, non si pongono problemi a livello costituzionale, giacché il bilanciamento degli interessi è già assicurato nella previsione della clausola penale del giustificato motivo”.
Dal che, argomentando a contrario, si traggono queste due considerazioni:
A) la prima è che la Cassazione ha ritenuto che l'esposizione del solo crocifisso lede i diritti inviolabili di libertà di coscienza dello scrutatore;
B) la seconda è che, se l'art. 108 del DPR n. 361/1957 non avesse contemplato la clausola del “giustificato motivo”, la Corte sarebbe stata costretta a valutare la necessità di sollevare un eccezione di incostituzionalità della norma (o di disapplicarla), in quanto lesiva dei diritti inviolabili dello scrutatore.
4° ERRORE: Erronea affermazione del principio, desunto dalla sentenza Montagnana (n. 4273/200), secondo cui l’esimente dell’esercizio del diritto di libertà di coscienza si applica soltanto ai pubblici ufficiali assunti con rapporto di impiego “OBBLIGATORIO”, e non ai rapporti di impiego volontari come quello del Tosti.
Questa “petizione di principio” è oltremodo infondata e porta a conseguenze grottesche. I diritti inviolabili dell’uomo sono infatti IRRINUNCIABILI, INDISPONIBILI, IMPRESCRITTIBILI e NON ASSOGGETTABILI A DECADENZA, perché così dispongono gli articoli 1 della Convenzione, 2 della Costituzione, 2934 e 2968 del codice civile. Non si può dunque affermare che gli impiegati che accettano “volontariamente” di assumere un impiego pubblico “perdono”, AUTOMATICAMENTE, il diritto di far valere la libertà di coscienza legata alla lesione della libertà religiosa, alla lesione del diritto alla vita, alla lesione del diritto alla salute, alla lesione del diritto alla libertà di associazione etc.
Una siffatta interpretazione restrittiva violerebbe gli articoli 3, 18 e 117 della Costituzione, in relazione agli articoli 9 e 14 della Convenzione, dal momento che la tutela del diritto di libertà di coscienza è riconosciuta in modo pieno e incondizionato, e non limitatamente alle “persone legate da un rapporto di pubblico impiego obbligatorio”! La restrizione sarebbe anche incostituzionale perché creerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento nella fase di accesso agli impieghi pubblici, limitando il libero accesso a coloro che non vogliono subire la lesione di diritti inviolabili. Questa interpretazione è stata peraltro espressamente ripudiata dalla CEDU nella sent. 3.11.2009 (Lautsi Soile c. Italia), laddove si stigmatizza l’ipotesi che una persona possa essere messa dallo Stato “in una situazione di cui non possa liberarsi o di cui passa liberarsi soltanto con degli sforzi e con un sacrificio sproporzionati”: pretendere, dunque, che il dr. Tosti dovesse “doverosamente” dimettersi dalla magistratura per non subire la lesione di diritti inviolabili da parte del Ministro/datore di lavoro, è quanto di più strampalato e di assurdo si possa concepire.
In ogni caso è assolutamente falso che dalla sentenza della Cassazione si ricavi questa grottesca conclusione.
Dirimente, infine, è la circostanza che la Cassazione penale con la sentenza n. 7281/2000 abbia assolto un ufficiale di polizia che si è rifiutato di ricevere una denuncia penale contro di lui indirizzata per salvaguardare il proprio diritto di difesa, senza attribuire alcun valore alla circostanza che, indubbiamente, si trattava di un funzionario legato alla P.A. da un rapporto di impiego “volontario”.
5° ERRORE: Erronea qualificazione del rifiuto come “indebito” perché attuato senza attendere l’esito delle azioni giudiziarie intraprese.
Si richiama quanto già ampiamente sopra esposto.
6° ERRORE: la pretesa del Tosti di esporre la menorà è infondata perché per attuare la laicità per “addizione” occorrerebbe una legge.
Questa statuizione è erronea per due motivi. Innanzitutto perché il dr. Tosti ha chiesto di poter esporre la menorà per salvaguardare il proprio diritto di eguaglianza religiosa, piuttosto che per salvaguardare il principio supremo di laicità con l’“addizione” di un altro simbolo.
In secondo luogo perché la motivazione addotta dal CSM si fonda sul presupposto -sicuramente giusto sotto il profilo giuridico, ma totalmente falso in punto di fatto- che i crocifissi vengano esposti nella aule giudiziarie in virtù di una legge. In realtà è pacifico che i crocifissi vengono esposti sulla base di una “circolare” fascista del 1926 -e non di una legge- sicché nulla vieta che il Ministro autorizzi l’esposizione delle menorà e degli simboli con altra circolare. Delle due l’una: o per l’esposizione della menorà è sufficiente una semplice circolare come per il crocifisso, oppure per QUALSIASI simbolo occorre una legge: i Ministri di Giustizia cattolici non possono sperare di fare i furbi, anche perché la circolare del Ministro fascista non vieta l’esposizione di altri simboli e, anzi, il principio costituzionale di eguaglianza e l’art. 2 del D. lgs. n. 216/2003 impongono che il dr. Tosti goda degli stessi diritti religiosi accordati alla “Superiore Razza Cattolica”, sicché l’autorizzazione ad esporre la menorà non solo era POSSIBILE, ma era anche un ATTO DOVUTO che, tra l’altro, non avrebbe sicuramente pregiudicato la “stabilità” del Palazzo di Giustizia.
RASSEGNA DI GIURISPRUDENZA SULLE TESI DEL RICORRENTE
A chiusura del presente motivo è opportuno ribadire che le tesi giuridiche sostenute dal ricorrente non sono frutto di farneticazione, ma risultano confortate da un serie impressionante di pronunce della Corte Costituzionale, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, della Corte di Cassazione civile, di quella penale e di altri Corti internazionali, le quali univocamente contraddicono il “postulato” clerico/fascista dell’ “obbedir tacendo”, congetturato dal CSM.
Tutte queste pronunce sono state accuratamente obliterate dalla Sezione disciplinare del CSM, nonostante siano state segnalate dal Tosti nei suoi scritti difensivi: il che, oltre a non esser propriamente ammirevole, è oltremodo disdicevole ed inquietante.
Si richiamano ancora una volta le seguenti pronunce, con l’invito a considerarle:
1) La Cassazione penale, sez. IV, con sent. 1 marzo 2000 n. 4273 ha statuito, in un caso identico a quello del Tosti, che “la presenza di un simbolo o immagine religiosa in ogni seggio elettorale (indipendentemente da quello di destinazione) costituisce giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di scrutatore, in quanto determina un conflitto interiore tra il dovere civile di svolgere un ufficio pubblico e il diritto a rivendicare il rispetto del principio di laicità dello Stato e di libertà di coscienza garantito dalla Costituzione a ciascun individuo”.
Il dr. Tosti si è sempre appellato a questa regola juris della Cassazione che, sino a prova contraria, gli deve essere applicata dai Giudici, salvo che non vengano dettagliatamente esposti i motivi per cui si dissenta o la si ritenga inapplicabile. La sezione disciplinare presieduta dall’ Avv. Nicola Mancino si è ben guardata dallo spendere una sillaba di motivazione per giustificare la disapplicazione di tale massima.
2) La Cassazione penale, con la sentenza n. 10/1999 ha statuito che “il giusto motivo, che consente di rifiutare l’ufficio di scrutatore nelle competizioni elettorali, deve essere manifestazione di diritti o facoltà, il cui esercizio determini un inevitabile conflitto tra la posizione individuale, legittima e costituzionalmente garantita in modo prioritario, e l’adempimento dell’incarico, al cui contenuto sia collegato con vincolo di causalità immediata”. Da tale massima si trae la regola juris secondo cui il “rifiuto del Tosti di tenere l’udienza sotto l’incombenza dei crocifissi deve ritenersi del tutto legittimo, perché necessitato dall’esigenza di sottrarre le sue prerogative costituzionali ed i suoi diritti primari alla inevitabile lesione, collegata con vincolo di causalità immediata, che sarebbe conseguita all’adempimento dell’incarico”.
3) La VI Sez. penale della Cassazione, in un caso sostanzialmente identico a quello del Tosti, ha statuito (sentenza 20.6.2000 - 6.4.2000 n. 7281, Lo Presti ed altri, conforme a Cass. pen., Sez. VI, 11.2.1999) che “in tema di rifiuto di atti di ufficio di cui al primo comma dell'art. 328 C.P. il carattere indebito del rifiuto (nella specie: rifiuto di ricevere una denuncia penale, atto che rientra a pieno titolo anche nelle “mansioni” dei magistrati addetti all’ufficio del “pubblico ministero”: n.d.r.) non è ravvisabile quando il compimento dell'atto determini la lesione di diritti costituzionalmente garantiti del soggetto agente” sicché, “nel bilanciamento fra l’interesse al buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) ed il diritto soggettivo alla difesa tutelato dall’art. 24 della Costituzione, la prevalenza non può che essere attribuita a quest’ultimo. L’esigibilità del compimento dell’atto di ufficio non può, infatti, sacrificare il diritto alla difesa, anche come tutela avanzata nel senso di non assoggettamento ad atti che possano comportare l’incriminazione del pubblico ufficiale”. Da tale regola juris, valida anche per il Tosti, ma significativamente obliterata dalla sezione disciplinare, si ricava la regula juris che “il carattere indebito del rifiuto del dr. Tosti di tenere le udienze (che è un “atto di ufficio”) non è ravvisabile perché la tenuta delle udienze sotto l’incombenza dei crocifissi e col contestuale divieto di esporre i propri simboli determina la lesione della prerogativa del rispetto del principio supremo di laicità e la lesione dei diritti primari di libertà religiosa di eguaglianza e non discriminazione del soggetto agente”.
4) La Corte Costituzionale con sent. n. 122/1970 ha statuito la regula juris secondo cui “le libertà fondamentali affermate, garantite e tutelate dalla Costituzione della Repubblica sono riconosciute come diritti del SINGOLO, che il singolo deve poter far valere erga omnes. Essendo compresa tra tali diritti anche la libertà di manifestazione del pensiero proclamata dall'art. 21, deve senza dubbio imporsi al rispetto di tutti, delle autorità come dei consociati. Nessuno può quindi recarvi attentato, senza violare un bene assistito da rigorosa tutela costituzionale”. Questa regula juris impone a tutte le Autorità -e quindi anche ai “Ministri di Giustizia”- l’obbligo di “NON ARRECARE ATTENTATO ai diritti inviolabili” di chicchesia. Dunque, il singolare postulato del CSM, secondo cui “non è dato ai pubblici funzionari in genere, ma ai magistrati in particolare, di imporre condizioni o ultimatum all’amministrazione di appartenenza subordinando, in termini più consoni a richieste ricattatorie ed estorsive, la prestazione doverosa del proprio servizio al soddisfacimento di pretese di carattere generale, fossero anche mosse da motivazioni di carattere ideale”, è annichilito da questa pronuncia della Corte Costituzionale che afferma, per converso, che “non è dato alle pubbliche amministrazioni -e in particolare ai Ministri di Giustizia- di recare attentato ai diritti e alle libertà fondamentali affermati, tutelati e garantiti dalla Costituzione e dalla Convenzione sui diritti dell’Uomo ai propri dipendenti -e in particolare ai magistrati- trattandosi di diritti assoluti del singolo, che il singolo deve poter far valere erga omnes e, quindi, anche nei confronti dell’amministrazione di appartenenza”.
5) Le Sezioni Unite della Cassazione civile, con la citata sent. del 18.11.1997 n. 11.432, hanno sancito che “le situazioni enunciate come diritto assoluto alla libertà di coscienza e di religione, diritto assoluto all'eguaglianza ed alla non discriminazione, diritto di vedere rispettato come attori cittadini il principio fondamentale della laicità dello Stato... delineano la violazione di diritti primari, derivanti dallo stesso disposto costituzionale, rispetto ai quali nessun potere di sacrificio può individuarsi da parte della pubblica amministrazione. Non esiste alcun organo dello Stato (eccezion fatta per il Parlamento con le modalità e la procedura di modifica costituzionale) che possa incidere in maniera pregiudizievole sui diritti assoluti in cui si esprimono le libertà fondamentali costituzionalmente garantite. Se neppure al legislatore ordinario è consentito derogare ai principi costituzionali, a maggior ragione detta deroga non è consentita, neppure in via provvisoria, alla pubblica amministrazione”. Come sopra visto, questa regula juris smentisce e annichilisce il postulato clerico/fascista dell’ “obbedir tacendo”: da essa si ricava la massima secondo cui “è dato ai pubblici funzionari in genere, e in particolar modo ai magistrati, di imporre condizioni od ultimatum all’amministrazione di appartenenza, subordinando la tenuta delle udienze al soddisfacimento della pretesa di rispetto di diritti umani e di prerogative costituzionali”.
6) I principi affermati dalle SS.UU. civili nella or ora citata sent. 11432/1997 risultano recepiti ed affermati “anche” dalla sentenza della Sez. disc. del CSM del 15.9.2004, Sansa, ed “anche” dall’ordinanza di sospensione del dr. Tosti della “precedente” Sez. disciplinare (quella non presieduta dall’Avv. Nicola Mancino, per intendersi). Risultano addirittura “ricopiati” nella sentenza di condanna del Tosti, laddove si è solennemente affermato che “la circolare del ministro Rocco appare in contrasto con il principio costituzionale di laicità dello Stato e con la garanzia della libertà di coscienza e di religione, essendo pacifico (v. in tal senso cass. sez. unite 18 novembre 1997, n. 11432 e sez. disciplinare 15 settembre 2004, Sansa) che nessun provvedimento amministrativo può limitare diritti fondamentali di libertà, al di fuori degli spazi eventualmente consentiti da una legge ordinaria conforme a costituzione”.
Sconcerta, dunque, che la Sezione disciplinare disapplichi le sentenze delle SS.UU. civili, dopo averle trascritte e condivise.
7) La Corte Costituzionale, con la citata sent. n. 117/1979, ha sancito che coloro che sono chiamati ad adempiere, per motivi di giustizia, l’obbligo di prestare il giuramento, previsto in via generale dall’art. 54 della Costituzione, possono LEGITTIMAMENTE rifiutarsi, per diritto di libertà di coscienza, di prestare il giuramento se la formula leda, a causa dei riferimenti a Dio, il diritto di libertà religiosa: e questo anche nell’ipotesi in cui il rifiuto concretizzi un illecito penale (nella specie, il reato p. e p. dall’art. 366 del codice penale che recita). Così sentenzia la Corte: “Sono illegittimi per violazione dell'art. 19 cost., gli art. 251, comma 2, c.p.c., nonché - ai sensi dell'art. 27 l. 11 marzo 1953 n. 87 - gli art. 142, comma 1, 316, comma 2, 329, comma 1 e 449, comma 2 c.p.p., nella parte in cui riferiscono anche ai non credenti l'obbligo del giudice di ammonire i testimoni sull'importanza religiosa del giuramento e l'obbligo dei testimoni stessi di prestarlo nei confronti della divinità”. La corte ha cura di puntualizzare che non “sarebbe sufficiente che il testimone non credente ..... espunga con apposita dichiarazione il riferimento alla Divinità, dopo che la formula è stata letta per intero e prima della prestazione del giuramento”, perché “l'ipotesi prospettata........pregiudicherebbe........... quel "diritto a non rivelare le proprie convinzioni", cui ebbe a fare riferimento questa Corte nella sent. n. 12 del 1972”.
Dal questa decisiva sentenza si trae la regola juris, perfettamente calzante per il caso del dr. Tosti, secondo cui è lecito che un funzionario rifiuti di compiere atti doverosi, motivati da esigenze di giustizia e addirittura sanzionati penalmente, nell’ipotesi in cui le modalità di adempimento ledano diritti inviolabili (nella specie, quello di libertà religiosa). Tale principio, dunque, andava e va applicato “anche” al dr. Tosti.
8) La Corte Cost., con la sentenza 8.10.1996, n. 334, ha sancito la legittimità del rifiuto (sempre per libertà di coscienza legata alla sfera religiosa) di una parte processuale di prestare il giuramento decisorio perché la formula del giuramento ledeva, a causa dei riferimenti a Dio, il diritto di libertà religiosa ed il principio supremo di laicità. Così si è espressa la Consulta: “Sono costituzionalmente illegittimi, per violazione degli art. 2, 3 e 19 cost., l'art. 238 comma 2 c.p.c., limitatamente alle parole "davanti a Dio e agli uomini" e l'art. 238 comma 1, seconda proposizione, c.p.c., limitatamente alle parole "religiosa e", in quanto -posto che gli art. 2, 3 e 19 cost. garantiscono come diritto la libertà di coscienza in relazione all'esperienza religiosa; che tale diritto, sotto il profilo giuridico-costituzionale, rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall'art. 2; che esso spetta ugualmente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei o agnostici, e comporta la conseguenza, valida nei confronti degli uni e degli altri, che in nessun caso il compimento di atti appartenenti, nella loro essenza, alla sfera della religione possa essere l'oggetto di prescrizioni derivanti dall'ordinamento giuridico dello Stato; che qualunque atto di significato religioso (anche il più doveroso dal punto di vista di una religione e delle sue istituzioni) rappresenta sempre, per lo Stato, esercizio della libertà dei propri cittadini, che, come tale, non può essere oggetto di una sua prescrizione obbligante, indipendentemente dall'irrilevante circostanza che il suo contenuto sia conforme, estraneo o contrastante rispetto alla coscienza religiosa individuale; che alla configurazione costituzionale del diritto individuale di libertà di coscienza nell'ambito della religione e alla distinzione dell'"ordine" delle questioni civili da quello dell'esperienza religiosa corrisponde, rispetto all'ordinamento giuridico dello Stato e delle sue istituzioni, il divieto di ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l'efficacia dei propri precetti; e che il giuramento è certamente atto avente significato religioso - il giuramento "decisorio", così come disciplinato dall'art. 238 c.p.c., viola sia la libertà di coscienza in materia di religione (laddove esso, pur non essendo propriamente imposto dalla legge, è comunque oggetto di una prescrizione legale alla quale la parte si trova sottoposta con conseguenze negative), sia la distinzione, imposta dal fondamentale principio costituzionale di laicità, o non confessionalità dello Stato, tra l'"ordine" delle questioni civili e l'"ordine" delle questioni religiose (laddove dalle norme impugnate deriva un'inammissibile commistione tra i due ordini, rappresentata dal fatto che un'obbligazione di natura religiosa e il vincolo che ne deriva nel relativo ambito sono imposti per un fine probatorio proprio dell'ordinamento processuale dello Stato; con la conseguenza che, siccome la libertà di coscienza di chi sia chiamato a prestare il giuramento previsto dall'art. 238 comma 2 c.p.c. comporta che la determinazione del contenuto di valore che essa implica sia lasciata alla coscienza, la dichiarazione di incostituzionalità del riferimento alla responsabilità che si assume davanti a Dio deve estendersi anche al riferimento alla responsabilità davanti agli uomini, e con l'ulteriore conseguenza (ex art. 27 l. n. 87 del 1953) che la dichiarazione di incostituzionalità deve estendersi al comma 1 del medesimo articolo - nella parte in cui prevede che il giurante sia ammonito dal giudice circa l'importanza religiosa del giuramento - avuto riguardo alla inscindibilità di tale previsione da quella contenuta nel comma 2”.
Da queste massime si trae la regola juris secondo cui è lecito che un dipendente pubblico si rifiuti di compiere atti doverosi -ancorché imposti per esigenze di giustizia e sanzionati penalmente- nell’ipotesi in cui le modalità di adempimento ledano diritti inviolabili dell’agente. Principi, questi, che si debbono applicare anche al dr. Tosti.
9) La Corte europea dei dir. dell’ uomo, con l’arresto del 13 agosto 1981, Young e altro c. Regno Unito Gran Bretagna e altro, ha statuito la regola juris, riferita al diritto di libertà di associazione di cui all’art. 11 della Convenzione ma applicabile a qualsiasi altro diritto inviolabile, secondo cui “la responsabilità di uno Stato parte della convenzione europea dei diritti dell'uomo può sorgere anche in seguito a comportamenti individuali lesivi di un diritto tutelato da detta convenzione, nella misura in cui tali comportamenti siano resi leciti dal diritto nazionale. Benché l'art. 11 par. 1 della convenzione non garantisca in modo esplicito ANCHE il diritto negativo di non essere obbligato ad aderire ad un sindacato, l'imposizione di un obbligo siffatto ad un lavoratore, pena il suo licenziamento, contrasta con la sostanza stessa della libertà sindacale, tutelata da detto articolo. Il rispetto delle opinioni personali, contemplato in via generale dagli art. 9 e 10 della convenzione per quel che concerne tanto la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, quanto la libertà di espressione, costituisce allo stesso tempo uno degli elementi della libertà di associazione di cui all'art. 11 par. 1. Ricade pertanto sotto il divieto che si deduce da quest'ultimo articolo l'esercizio di pressioni dirette a costringere un lavoratore ad aderire ad un sindacato che persegue obiettivi contrastanti con le sue convinzioni”.
Da questa pronuncia si trae la regola juris secondo cui “nessuno può essere sanzionato per il rifiuto di compiere o subire atti lesivi di un diritto inviolabile” (nella specie il ricorrente era stato sanzionato col licenziamento per essersi rifiutato di iscriversi ad un sindacato). Questa regola doveva essere applicata anche al dr. Tosti che, dunque, aveva il diritto di non essere sanzionato con la rimozione dalla magistratura “per essersi rifiutato di subire la lesione dei suoi diritti inviolabili di libertà religiosa, di eguaglianza e di rispetto del principio supremo di laicità”.
10) La CEDH, con la già citata sentenza 25 maggio 1993, Kokkinakis c. Grecia, ha statuito la regola juris secondo cui, “qualora la legge di uno Stato (nella specie, la Repubblica ellenica), pur dopo avere sancito il postulato costituzionale dell'assoluta, inviolabile libertà di coscienza nelle questioni religiose, di professione e di pratica di qualsiasi culto “noto”, conferisca ad una determinata confessione (nella specie, la Chiesa orientale cristiano-ortodossa) una posizione “dominante” e quindi di indiscriminata tutela e di evidentissima netta poziorità, è tuttavia contrario al pluralismo (anche ideologico e religioso) caratterizzante indefettibilmente ogni ordinamento democratico moderno ed al fondamentale diritto di propaganda religiosa, il perseguimento, con norme sanzionatorie penali, civili ed amministrative, non solo del proselitismo diretto a sottrarre fedeli alla Chiesa “dominante” con il mero insegnamento spirituale, con la personale testimonianza, con l'esempio e con la predicazione volta a mostrare gli errori e le illogicità della confessione “dominante” e d'ogni altra religione, ma anche del proselitismo che, allo stesso scopo, ricorra a mezzi ingannevoli, insinuanti e sleali, o che approfitti dello scarso o scarsissimo livello culturale altrui, o che sia sorretto, per attirare consensi, dalla dazione o dalla promessa di beni o di altri vantaggi materiali, o che si avvalga di espressioni di marcato ed assai acceso carattere polemico (nel caso di specie, era stata repressa la propaganda svolta da un appartenente alla Congregazione dei Testimoni di Geova)”.
Anche da questa massima si ricava la regola juris secondo cui è lesiva di un diritto inviolabile l’imposizione -sotto comminatoria di sanzioni- del “divieto” di compiere atti che rientrano nel contenuto “positivo” del diritto (nella specie, quello di propagandare la propria fede religiosa). Dal momento, però, che il contenuto di qualsiasi diritto inviolabile è anche “negativo”, deve ritenersi altrettanto lesivo di un diritto inviolabile il comportamento “speculare”, cioè quello di imporre -sotto la comminatoria di sanzioni- l’“obbligo” di compiere o subire atti che determinano la lesione di un diritto inviolabile, ancorché sotto il profilo negativo. Il che è per l’appunto quanto accaduto al dr. Tosti, che è stato sanzionato con la “rimozione” dalla magistratura per essersi rifiutato di subire remissivamente la lesione dei suoi diritti di libertà e di eguaglianza religiosa e della prerogativa di rispetto del principio di laicità.
11) La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sentenza 3.11.2009 (caso Lautsi Soile c./ Italia) si è pronunciata su un caso sostanzialmente identico a quello del Tosti, statuendo che “la libertà negativa.... si estende... ai simboli che esprimono.... una religione o l'ateismo. Questo diritto negativo merita una protezione particolare se è lo Stato che esprime una credenza e se la persona è messa in una situazione di cui non può liberarsi o di cui si può liberare soltanto con degli sforzi e con un sacrificio sproporzionati.... L’esposizione di uno o più simboli religiosi non può giustificarsi... con la necessità di un compromesso necessario con le componenti di ispirazione cristiana. Il rispetto delle convinzioni ... deve tenere conto del rispetto delle convinzioni degli altri... Lo Stato è tenuto alla neutralità confessionale... La Corte non vede come l’esposizione nelle aule ... di un simbolo che è ragionevole associare al cattolicesimo..... potrebbe servire al pluralismo.... che è essenziale alla preservazione d’una "società democratica" come la concepisce la Convenzione, e alla preservazione del pluralismo che è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale nel diritto nazionale .... La Corte ritiene che l’esposizione obbligatoria di un simbolo confessionale nell’esercizio del settore pubblico.... in particolare nelle aule, viola....il diritto...... di credere o di non credere. La Corte considera che questa disposizione violi questi diritti poiché le loro limitazioni sono incompatibili con il dovere che spetta allo Stato di rispettare la neutralità nell’esercizio del settore pubblico”.
Da tale pertinente pronuncia si ricava: A) che l’imposizione dei crocifissi nelle aule di giustizia lede il diritto inviolabile di libertà religiosa del Tosti; B) che l’imposizione dei crocifissi nelle aule di giustizia pregiudica la prerogativa costituzionale del Tosti di rispetto del principio di laicità dello Stato.
C’è da chiedersi, dunque, perché la Sezione disciplinare presieduta dall’Avv. Mancino abbia intenzionalmente obliterato di applicare questi principi al “dott. Tosti”, visto e considerato che i giudici della Sezione disciplinare hanno l’OBBLIGO -loro imposto dall’art. 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e dall’art. 117 della Costituzione- di esaminare e decidere le questioni attinenti alla lesione di diritti individuali inviolabili, ed hanno altresì l’OBBLIGO -loro imposto dagli art. 4 e 5 della legge 20.3.1865 n. 2248- di “disapplicare gli atti amministrativi”, allorquando “la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa”.
12) La CEDH, con sent. 3.6.2010 (caso DIMITRAS ed altri c. GRECIA), ha statuito che “la libertà di pensiero, di coscienza e di religione rappresenta uno dei fondamenti di una "società democratica" così come concepita dalla Convenzione. Questa libertà figura, nella sua dimensione religiosa, tra gli elementi essenziali dell’identità dei credenti e della loro concezione della vita, ma è anche un bene prezioso per gli atei, gli agnostici, gli scettici o gli indifferenti. Ne va la sopravvivenza del pluralismo -conquistato a caro prezzo nel corso dei secoli- che non può essere dissociato da una siffatta società. Questa libertà comporta, tra l'altro, quella di aderire o no ad una religione e quella di praticarla o non praticarla (v., in particolare, Kokkinakis c. Grecia, sentenza del 25 maggio 1993, serie A n. 260-A p. 17, § 31, e Buscarini e altri c. San Marino [GC], n. 24645/94, § 34, CEDU 1999-I). Se la libertà di religione rileva in primo luogo sotto l’aspetto interiore, essa implica anche quella di manifestare la propria religione individualmente e in privato, oppure in modo collettivo, in pubblico e all'interno della cerchia di coloro di cui si condivide la fede. Inoltre, la Corte ha già avuto l’occasione di consacrare dei diritti negativi nell’ambito dell'articolo 9 della Convenzione, in particolare la libertà di non aderire ad una religione e quella di non praticarla (v., in questo senso , Kokkinakis c. Grecia, e Buscarini e altri c. San Marino, supra). Inoltre, la libertà di manifestare i propri convincimenti religiosi comporta anche un aspetto negativo, ossia il diritto dell’individuo di non essere costretto a manifestare la propria religione o le proprie convinzioni religiose e di non essere obbligato ad agire in un modo tale che si possa trarre la conclusione che esso ha -o non ha- tali convincimenti. Ad avviso della Corte, le autorità statali non hanno il diritto di intervenire nel dominio della libertà di coscienza dell'individuo e ricercare le sue convinzioni religiose, oppure di obbligarlo a manifestare le sue convinzioni circa la divinità. Ciò è ancor più vero nel caso in cui una persona è obbligata ad agire in questo modo al fine di svolgere certe funzioni, in particolare durante un giuramento (v., in tal senso, v. Alexandridis Grecia, n. 19516/06, § 38, CEDU 2008”.
Questi principi sono altrettanto validi per il dr. Tosti, dal momento che anche il dr. Tosti è stato costretto a manifestare i propri convincimenti religiosi a causa dell’imposizione dei crocifissi, cioè a chiederne reiteratamente la rimozione sino ad essere poi costretto a rifiutarsi di tenere le udienze sotto la loro imposizione.
13) Analogamente, la CEDU, Grande camera, con sent. 21 febbraio 2008, ric. 19516/06, Alexandridis c. Grecia, così si è espressa: “la Corte ritiene che la libertà di manifestare le proprie convinzioni religiose comporta ugualmente anche un aspetto negativo, vale a dire salvaguardare il diritto del singolo a non essere costretto a manifestare la sua religione o credenze religiose e non essere costretto ad agire in modo che si possa trarre la conclusione che egli ha - o non ha - tali convinzioni. Agli occhi della Corte, le autorità non hanno alcun diritto di intervenire nel dominio della libertà di coscienza dei singoli individui e di cercare il loro credo religioso, o per chiedere loro di manifestare il loro credo religioso concernenti il loro concetto di divinità”.
14) Infine, la CEDH, con sentenza 23 settembre 2010, ricorso n. 1620/03, Affaire Schüth c. Allemagne, ha sancito che “nel rapporto di lavoro con un ente ecclesiastico (nella specie, una parrocchia cattolica), il dipendente, firmando il suo contratto di lavoro, accetta un dovere di lealtà verso la Chiesa e una certa limitazione del proprio diritto al rispetto della vita privata (sancito dall'art. 8 CEDU). Tale limitazione, tuttavia, risulta consentita ai sensi della CEDU se liberamente accettata. Nel caso di specie, la Corte ritiene che il dovere di lealtà non si spinga fino al punto di obbligare il ricorrente (un organista in una parrocchia di Essen) ad un impegno a vivere in astinenza in caso di separazione o di divorzio; inoltre, a differenza del caso Obst c. Germania (dove il dipendente licenziato aveva compiti di rappresentanza e diffusione del credo della Chiesa Mormone), il ricorrente non appare tenuto, in forza delle mansioni esercitate, a un dovere di fedeltà particolarmente stringente. Risulta perciò violato l'art. 8 della CEDU. Nelle sue conclusioni, la Corte ha tenuto conto anche della difficoltà del ricorrente a trovare un nuovo impiego dopo il licenziamento da parte della parrocchia cattolica, visto il carattere specifico del suo lavoro.”
Da questa pertinentissima massima si trae la necessaria conclusione che, non essendo il dr. Tosti un soggetto che ha stipulato un contratto di lavoro con un Ente ecclesiastico e non avendo costui “rinunciato” né ai propri diritti di libertà e di eguaglianza religiosa né alla prerogativa del rispetto del principio supremo di laicità, lo Stato italiano non poteva “licenziarlo” -come ha fatto il CSM- “perché si è rifiutato di soggiacere alla violazione di tali diritti e di tali prerogative”.

Quanto sopra premesso, si sintetizza il motivo nel seguente
QUESITO DI DIRITTO
Dica l’Ecc.ma Corte se – in una fattispecie in cui un magistrato, dopo aver vanamente richiesto la rimozione dei crocifissi dalle aule giudiziarie, si rifiuta di tenere le udienze perché la loro esposizione generalizzata ed il contestuale divieto di esporre i propri simboli ledono la sua prerogativa di rispetto del principio supremo di laicità e dei suoi diritti primari di libertà religiosa e di eguaglianza- incorra nella violazione degli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione (cioè del principio supremo di laicità dello Stato), degli articoli art. 19 della Costituzione e dell’art. 9 della L. 848/1955 (cioè del diritto di libertà religiosa), degli articoli 3 della Costituzione, dell’art. 14 della L. 4.8.1955 n. 848, dell’art. 2 del D. Lgs. 9 luglio 2003 n. 216, dell’art. 43 del D. L.vo n. 286/1998, degli articoli 1, 4, 5, 6, 7 ed 8 della Legge 28.8.1997 n. 302, dell’art. 2, parte I^, della L. 8.3.1989 n. 101 (cioè del diritto di eguaglianza e non discriminazione), degli articoli 2 della Costituzione, degli articoli 1, 9, 13 e 17 della Convenzione sui diritti dell'uomo (L. n. 848/1955), degli artt. 52 e 54 C.P., 2044, 2045 e 1460 cod. civ. (cioè del diritto di libertà di coscienza e/o del diritto di difesa o stato di necessità) e dell’art. 629 del codice penale, la sentenza della sezione disciplinare del CSM che condanni il magistrato sull’assunto che a nessun funzionario, e tantomeno ad un magistrato, è concesso di “ricattare” l’amministrazione di appartenenza con ultimatum con i quali si subordina la prestazione del proprio servizio all’accoglimento della pretesa di cessazione di comportamenti lesivi di diritti primari, mentre le suddette disposizioni di legge debbono essere correttamente interpretate nel senso che la presenza del crocifisso cattolico in ogni aula di udienza, indipendentemente da quella destinata al magistrato, ed il contestuale divieto di esporre altri simboli religiosi costituiscono giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di magistrato, in quanto per un verso determinano un conflitto interiore tra il dovere civile di svolgere un ufficio pubblico e il diritto a rivendicare il rispetto del principio di laicità dello Stato e di libertà di coscienza garantito dalla Costituzione a ciascun individuo e, per altro verso, determinano la lesione del diritto di libertà religiosa e, altresì, di quello di non discriminazione del dipendente che, a causa del divieto di esporre i propri simboli, viene ad essere trattato meno favorevolmente di quanto lo siano i dipendenti di fede cattolica, sicché non ricorrono gli estremi del delitto di estorsione di cui all’art. 629 C.P., perché la pretesa di non subire la lesione di diritti inviolabili non integra la minaccia di un danno ingiusto e non è volta a procurare all’agente un ingiusto profitto, ma concretizza il legittimo esercizio del diritto di difesa che l’art. 24 della Costituzione garantisce a qualsiasi persona non solo nella fase del giudizio, ma anche nella fase extraprocessuale e/o prodromica.

SESTO MOTIVO
Violazione e falsa applicazione degli articoli 97 e 113 (cioè del principio di legalità) e degli artt. 2727 e 1362 c.c.- Mancanza di motivazione (art. 360 n. 3 e 5 C.P.C.).
La Sezione disciplinare col suo 4° postulato afferma che il dott. Tosti poteva pretendere la rimozione del crocifisso dalla sola aula dove era chiamato a tenere le udienze e che, per contro, la pretesa di rimuoverlo da TUTTE le aule del Tribunale o da tutte le altre aule d’Italia è sfornita di qualsiasi fondamento giuridico e di conseguente tutela giurisdizionale, cioè si tratta di una mera “questione di principio”.
Così si esprime infatti il CSM a pag. 22: “La pretesa di subordinare l’adempimento del proprio dovere alla eliminazione in tutte le aule d’Italia del simbolo religioso ha la stessa coerenza logica e la stessa consistenza giuridica della pretesa delle sua eliminazione dalle aule scolastiche o del rifiuto apposto da un professore di scuola di tenere lezione perché il crocifisso è, viceversa, affisso alla parete dell’aula di giustizia ove un qualunque magistrato tiene udienza”. Analogamente si esprime a pag. 15, dove addirittura ipotizza che il Tosti fosse “consapevole” dell’infondatezza della sue pretese: “il dr. Tosti non aveva trovato nel circuito del controllo degli atti amministrativi una tutela soddisfacente e corrispondente alle sue aspettative, ma ha mostrato di essere consapevole del fatto che la rimozione del crocifisso in aule diverse da quelle dove egli stesso esercitava la giurisdizione esulava in ogni caso dai suoi diretti poteri dispositivi.”
(1) Questa motivazione del CSM postula l’affermazione del principio giuridico secondo cui non è consentito ad un soggetto, i cui interessi legittimi o diritti siano lesi da un atto normativo “generale” (nella specie di natura amministrativa), chiedere al giudice l’emanazione di sentenze di annullamento e/o di accertamento e/o di condanna di portata altrettanto generale, bensì soltanto sentenze disapplicative ad personam.
Il ricorrente ritiene che questa petizione di principio violi il disposto dell’art. 113 della Costituzione, che accorda a chiunque il diritto di ricorrere all’autorità giudiziaria contro gli atti amministrativi che siano lesivi di interessi legittimi e/o di diritti e, dunque, anche contro gli atti amministrati “generali”.
In quest’ultima ipotesi, infatti, la tutela giurisdizionale non può subire limitazioni tali da far permanere sia l’illegittimità dell’atto che la sua lesività, attuale o potenziale che sia. Il ricorrente sostiene, per contro, che qualsiasi vizio che infici atti “generali”, cioè durevoli nel tempo ed efficaci nei confronti di una pluralità indeterminata di destinatari, infici l’atto nella sua unità, con la conseguenza che la tutela giurisdizionale non può essere limitata a grottesche pronunce ad personam.
Ad esempio, se una circolare fascista imponesse l’ostensione nelle aule giudiziarie di una scritta razzista e ingiuriosa nei confronti degli ebrei, del tipo “Gli ebrei sono sporchi ruffiani, usurai, peste dell’umanità, deicidi e pezzi di merda”, un giudice ebreo potrebbe legittimamente rifiutarsi di tenere le udienze avanzando la “pretesa” di rimuovere quelle scritte da TUTTE le aule di TUTTI i tribunali, e non soltanto dall’aula dove di volta in volta tiene le udienze (o viene relegato). Alla stessa stregua, se una circolare del Ministro dei trasporti vietasse ai “negri” di salire sugli aerei e un “negro” adisse l’autorità giudiziaria, questa dovrebbe annullare l’intera circolare, e non disapplicarla per il particolare aereo per il quale è stato negato l’accesso, costringendo dunque il “negro” a riproporre ennesime azioni giudiziarie ogni qual volta deve salire su un aereo.
Alla stessa stregua, dunque, si deve affermare che il dr. Tosti aveva ed ha il diritto di ottenere la rimozione dei crocifissi da TUTTE le aule giudiziarie della Repubblica (Pontificia) Italiana, e non soltanto dalla “singola” aula nella quale lo si voleva “confinare” a svolgere le sue funzioni.
La circolare del Ministro Rocco, infatti, è un provvedimento amministrativo generale e qualsiasi vizio che la inficia non può -come si legge in un qualsiasi manuale di diritto amministrativo- non inficiare l’atto nella sua unità.
Il CSM è ovviamente libero di manifestare il suo “sconcerto giuridico”, paragonando le “pretese” del Tosti a quelle dell’insegnante che si rifiuti di tenere lezione perché nelle aule di giustizia sono esposti i crocifissi (paragone del tutto bislacco e inconferente, perché giammai il dr. Tosti si sognerebbe di rifiutarsi di tenere le udienze perché nelle scuole sono esposti i crocifissi, non avendone un interesse qualificato): tuttavia, questo “sconcerto” del CSM è oltremodo fuori luogo nel caso di specie, perché le tesi del dr. Tosti -che si bollano incautamente come stravaganti- risultano affermate esplicitamente dalla IV Sezione penale della Corte di Cassazione italiana nella sent. n. 4273/2000, laddove si è affermato che per l’effettivo rispetto del principio di laicità occorre che i crocifissi siano rimossi da TUTTE le aule, e non da una sola aula.
Le “stravaganti” tesi del Tosti sono state poi condivise anche dalla VI Sez. della Cassazione penale nella sent. 28.482/2009, laddove si è affermato che “la contestazione della legittimità del crocifisso nelle aule di giustizia.....implica.....un problema di carattere generale che può essere fatto valere sollecitando la P:A. a rivedere la propria scelta...e, in caso, negativo, adendo il giudice amministrativo”. Anche per la VI Sez. della Corte di Cassazione penale, dunque, il problema dei crocifissi è “generale” e deve essere risolto rimuovendo tutti i crocifissi, e non rimuovendo un “singolo” crocifisso dalla “singola” aula su ricorso del “singolo” cittadino, salvo poi ricollocarlo immediatamente nello stesso luogo, non appena “quel” singolo cittadino se ne è andato.
Le stravaganti tesi del Tosti, infine, sono anche condivise dalla Sezione disciplinare del precedente CSM, nell’ordinanza di sospensione del 31.1.2006, e, infine, dalla III^ Sezione della Cassazione penale nella citata ordinanza n. 41.571/2005.
(2) Il CSM afferma anche che il dr. Tosti era “consapevole del fatto che la rimozione del crocifisso in aule diverse da quelle dove egli stesso esercitava la giurisdizione esulava in ogni caso dai suoi diretti poteri dispositivi”. Questa “consapevolezza” discenderebbe dalla circostanza che egli “non aveva trovato nel circuito del controllo degli atti amministrativi (cioè in sede di ricorso al TAR delle Marche) una tutela soddisfacente e corrispondente alle sue aspettative”.
Questo procedimento “logico-induttivo” del CSM integra una fattispecie di “presunzione semplice” (art. 2727-2729 c.c.), dal momento che il CSM ha dedotto il fatto ignoto (cioè la consapevolezza del Tosti di non poter chiedere la rimozione dei crocifissi da tutte le aule italiane) da un fatto “noto”, e cioè dal fatto che il TAR delle Marche aveva “disatteso” la richiesta del Tosti con sentenza del 22.3.2006.
Questo procedimento induttivo appare in primo luogo inficiato da un macroscopico vizio nell’applicazione della norma civilistica (2727). Per costante giurisprudenza, infatti, perché possa ritenersi correttamente desunta una presunzione semplice, occorre che i fatti sui quali essa si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza del fatto noto, già accertato in giudizio, alla stregua dei canoni di ragionevole probabilità (Cass. civ. 14.9.1999 n. 9782). La “ragionevole probabilità” manca del tutto nel caso di specie, perché la pretesa del dr. Tosti di rimozione dei crocifissi è stata esternata, in termini di ultimatum, con la lettera depositata il 3.5.2005, mentre la sentenza del TAR è successiva di quasi un anno, quando il dr. Tosti era già stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio da tre mesi. Contrasta dunque con le leggi del tempo e della fisica dedurre il “fatto ignoto” (cioè che in data 1° maggio del 2005 il Tosti era “consapevole” di non poter pretendere la rimozione dei crocifissi da tutte le aule giudiziarie italiane) dal fatto, “noto”, che costui aveva appreso da un evento futuro -e cioè leggendo la sentenza del TAR che sarebbe stata pubblicata il 22.3.2006- che questa sua pretesa “travalicava” le attribuzioni del Giudice amministrativo!!!!
Il ricorrente opina che sia un dato di comune esperienza -conoscibile dunque anche dai giudici della Sezione disciplinare del CSM- che sia impossibile leggere ciò che sarà scritto dopo un anno, salvo che, ovviamente, i giudici della Sez. disciplinare abbiano voluto sostenere che il dr. Tosti sia fornito di doti divine di preveggenza: ma di questa ipotesi di terzo grado non v’è traccia nella motivazione della sentenza. Si deve dunque affermare che il procedimento “logico” seguito dal CSM difetti di logica.
Ma non è tutto. Il CSM, infatti, non poteva far ricorso alla prova per presunzioni per “interpretare la volontà” in senso diametralmente opposto a quella espressa dal Tosti nei suoi atti unilaterali ma, semmai, aveva l’obbligo, impostogli dall’art. 1362 c.c., di interpretare in primis la “volontà” del Tosti attraverso la disamina delle parole da lui concretamente usate.
E dal momento che la pretesa del dr. Tosti di rimuovere i crocifissi da TUTTE le aule risulta esternata in numerose lettere e in atti giudiziari, il CSM aveva l’obbligo di vagliare queste lettere e questi atti per indagare quale fosse la reale volontà del Tosti, e non di fare ricorso alla grottesca prova per presunzioni per desumere una “riserva mentale” del Tosti. La pretesa del Tosti, infatti, integra indubbiamente un “atto unilaterale recettizio” (cioè una dichiarazione unilaterale di volontà), che va necessariamente interpretata secondo i canoni ermeneutici sanciti dagli articoli dettati dagli articoli 1362 e seguenti del codice civile. Per costante giurisprudenza e per espressa disposizione di legge (art. 1324 c.c.), infatti, le regole sull’interpretazione del contratto si estendono a tutti gli altri negozi ed anche agli atti unilaterali. Tali regole, poi, costituiscono vere e proprie norme giuridiche che l’interprete (nella specie il CSM) deve seguire.
Applicando questi canoni ermeneutici al caso di specie, il CSM avrebbe dovuto in primo luogo dedurre la reale volontà del dr. Tosti dal “senso letterale delle parole usate” nelle sue lettere, così come imposto dal primo comma dell’art. 1362 c.c., e non facendo ricorso alla prova per “presunzioni” (cfr. Cass.civ., sez. lav., 4121/1994)
In particolare, il CSM avrebbe dovuto esaminare la lettera del 7.8.2005 (documento n. 23 del sottofascicolo “A” dell’incolpato) nella quale il dr. Tosti afferma: “Ribadisco per l'ennesima volta, poi, che la Cassazione penale ha anche affermato che l'obbligo del rispetto del principio di laicità da parte dello Stato implica che i crocifissi vengano rimossi da tutte le aule giudiziarie, e non soltanto dall'aula dove si vorrebbe confinare lo scrivente: la proposta che mi viene elargita è dunque da respingere anche per questo motivo.” Da tale documento avrebbe dovuto trarre la prova inconfutabile che il dr. Tosti non aveva la strampalata “riserva mentale” congetturata dal CSM ma, al contrario, che egli era perfettamente “consapevole” che i crocifissi dovevano essere rimossi da TUTTE le aule, come espressamente sentenziato dalla Corte di Cassazione penale in “quella” sentenza.
Ma c’è di più. L’art. 2729 c.c., infatti, vieta il ricorso alla prova per presunzioni nei casi in cui sia esclusa la prova per testi: e gli art. 1414, 1417 e 2722 c.c. vietano la prova per testi per dimostrare la simulazione (o la riserva mentale) di un atto unilaterale recettizio.
Ma non è ancora tutto. L’illegittimità del procedimento induttivo scaturisce dalla circostanza che dalla mera pronuncia di una sentenza -peraltro soltanto dichiarativa di difetto di giurisdizione- non si può inferire il convincimento che la parte che non ha visto accogliere la sua pretesa “sia consapevole della bontà della decisione presa dai giudici”. Per un banale principio di diritto, infatti, la parte processuale (nella specie il dr. Tosti) ha il diritto, accordatogli dalla legge, di proporre impugnazione prima del passaggio in giudicato della sentenza. E questo è quanto avvenuto nel caso di specie, perché il dr. Tosti ha proposto appello al Consiglio di Stato contro la singolarissima e pilatesca sentenza del TAR delle Marche. Dunque è grottesco che il CSM abbia dedotto che il dr. Tosti ha condiviso la pronuncia di un giudice che, invece, egli ha gravato d’appello. E la circostanza che manchi, agli atti, il ricorso in appello non sposta i termini della questione, perché era semmai il CSM che doveva supportare la sua strampalata deduzione dalla prova dell’acquiescenza del Tosti. La Cass. Civ. nella sent. n. 5546/1994 ha affermato che “la remissione del debito non può essere desunta apoditticamente dalla sola mancanza di una domanda risarcitoria da parte del danneggiato nei confronti di un condebitore solidale, dal momento che l'art. 1292 c.c. facoltizza il creditore ad agire anche contro uno solo dei condebitori, per costringerlo a pagare l'intero”. Alla stessa stregua, pertanto, il CSM non può desumere le “riserve mentali” del dr. Tosti dalla mancata prova che egli abbia proposto appello avverso la singolare sentenza del TAR delle Marche, anche perché il dr. Tosti giammai poteva pensare di dover produrre un documento per confutare una “prova per presunzioni” che sarebbe stata congetturata, d’ufficio, dal CSM, peraltro su un punto non controverso!!!
In ogni caso il dr. Tosti produce copia dell’atto di appello e trascrive qui di seguito i brani salienti che annichiliscono le grottesche “congetture” del CSM:
“Il TAR delle Marche ha in primo luogo affermato che il dott. Tosti non può pretendere che l'Amministrazione giudiziaria sia condannata a rimuovere tutti i crocefissi da tutte le aule giudiziarie italiane, perché si tratta di una "domanda che prescinde dal rapporto di pubblico impiego del ricorrente....in quanto il dott. Tosti invoca...la verifica del TAR sull'azione amministrativa, in nome di un astratto sindacato di legalità, svincolato cioè dalla tutela di un interesse proprio del ricorrente....".
Questa motivazione è palesemente erronea. Innanzitutto il TAR ha travisato completamente il senso e la portata della domanda del ricorrente: il dott. Tosti, infatti, non si è mai sognato di farsi "paladino" degli "interessi" dei "cittadini atei o credenti in altre religioni" -come erroneamente si afferma- ma ha al contrario agito esclusivamente per la tutela dei propri diritti soggettivi assoluti di rango costituzionale, necessariamente collegati all'espletamento della propria attività lavorativa istituzionale.
In particolare il ricorrente:
a) ha lamentato la lesione del proprio diritto soggettivo assoluto alla libertà religiosa, che implica non soltanto quello (positivo) di partecipare agli atti di culto e fare propaganda di fede, ma anche quelli (negativi) di non essere costretti ad identificarsi in simboli religiosi, di tenersi lontani dalle attività e dai simboli religiosi e di non essere costretti a manifestare la propria ideologia religiosa ( il ricorrente ha puntualizzato che "egli in casa sua non teneva crocifissi e detestava qualsiasi forma di idolatria: tuttavia, per espletare il suo dovere di magistrato era costretto a recarsi nel posto di lavoro ove venivano illecitamente esposti i simboli di una religione nella quale non si identificava affatto e che, anzi, contestava per tutti i gravissimi crimini che erano stati perpetrati, in suo nome, dalla Chiesa Cattolica e dai cristiani in millenni di storia; egli era obbligato, in occasione dell'espletamento delle sue mansioni lavorative e dell'esercizio delle sue funzioni pubbliche, ad identificarsi in modo plateale nel simbolo del Dio dei cattolici che era posto al di sopra della sua testa quale "solenne ammonimento di verità e di giustizia");
b) ha lamentato la lesione del diritto soggettivo all'eguaglianza (cioè alla "non discriminazione"), dal momento che "egli era oggetto di atti di discriminazione religiosa da parte dello Stato che, negandogli il pari diritto di esporre i suoi simboli, gli negava la pari opportunità di esercitare le pubbliche funzioni anche "in nome di altre ideologie o confessioni religiose", nonché la pari opportunità di esporre al pubblico culto i suoi simboli e, infine, la pari opportunità di propagandarli pubblicamente nei tribunali";
c) ha lamentato la lesione del diritto soggettivo alla libertà di pensiero che implica, in negativo, il diritto di non essere costretti a manifestare il proprio pensiero, dal momento che "egli era anche costretto a chiedere pubblicamente la rimozione del crocifisso per espletare, in condizioni di neutralità, le sue mansioni lavorative, così subendo anche la lesione del suo diritto alla riservatezza del proprio credo religioso"
d) ha lamentato la lesione del diritto soggettivo alla libertà di coscienza (diritto inviolabile ex art. 9 L. 4.8.1955 n. 4 e 2 Costituzione), dal momento che il "magistrato" dott. Tosti non intendeva violare il principio supremo di laicità e non intendeva rinunciare alle proprie prerogative costituzionali di "imparzialità" e di "indipendenza" (in sostanza, nell'esercizio delle sue funzioni giurisdizionali il dott. Tosti voleva e vuole essere ed apparire imparziale, neutrale e indipendente e, quindi, non intende identificarsi in un simbolo "partigiano" qual'è il crocifisso).
Alla luce di questa prospettazione, è dunque chiaro che la pretesa del ricorrente di ottenere una pronuncia estesa a tutte le aule giudiziarie non scaturisce -come erroneamente afferma il TAR- da un supposto "sindacato astratto sulla legalità dell'azione amministrativa" da parte del "cittadino" Tosti, bensì dalla prospettazione della lesione di diritti soggettivi assoluti da parte di un "dipendente pubblico" nell'ambito (e a causa) del rapporto di pubblico impiego. In sostanza il dott. Tosti ha lamentato e lamenta che il suo "datore di lavoro" -cioè il Ministero di Giustizia- gli impone la presenza dei crocifissi cattolici e gli vieta l'esposizione degli altri simboli, così ledendo platealmente tutti i diritti soggettivi inviolabili sopra indicati.
Alla luce di questa premessa appare ben chiaro che la pretesa del ricorrente di ottenere la condanna del Ministero di Giustizia (e non dello "Stato italiano"!) alla rimozione dei crocifissi da tutte le aule di giustizia non poggia sul desiderio del cittadino Tosti di far "affermare il diritto oggettivo", bensì sulle seguenti due considerazioni.
Innanzitutto va ribadito che la pretesa del ricorrente postula che il Giudice accerti, preliminarmente ed incidentalmente, l'intervenuta abrogazione della "circolare" del Ministro Rocco. Orbene, trattandosi di atto amministrativo generale, è inevitabile che tale sua caducazione (ex art.15 disp. prel. c.c.) debba inficiare l'atto nella sua unità (come avviene, ad esempio, per le leggi e i regolamenti), e non limitatamente al.....tribunale di Camerino! Prova ne è che -guarda caso!- la stessa Amministrazione non espone più l'"immagine del Re" nelle aule di tutti Tribunali italiani, dal momento che la circolare Rocco è stata ritenuta abrogata, ex art. 15 disp. prel. c.c., perché incompatibile con la forma repubblicana assunta dallo Stato italiano. D'altra parte è la stessa Cassazione penale che ha evidenziato nella sentenza n. 439/2000 la necessità di rimuovere tutti i crocifissi da tutti gli uffici pubblici –e non soltanto da quello dove opera il singolo pubblico ufficiale- sicché è grottesco ipotizzare che il "principio supremo di laicità" della funzione giurisdizionale possa essere applicato solo....nel Tribunale di Camerino!! Il dott. Tosti Luigi, in realtà, è inserito nell' "Amministrazione della Giustizia Italiana" ed è impensabile che il suo diritto alla libertà di coscienza possa trovare una tutela esaustiva attraverso la "laicizzazione temporanea" del Tribunale di Camerino: anzi, una tutela così “limitata” suona ancor più discriminatoria e lesiva del suo diritto all'eguaglianza!
In secondo luogo va rimarcato che il dott. Luigi Tosti aveva ed ha un interesse concreto ed attuale ad ottenere una pronuncia che sia estesa a tutto il territorio nazionale, dal momento che egli, nella sua qualità di "magistrato ordinario", oltre ad essere coassegnato ad altri Uffici viciniori (Tribunale di Macerata), può essere applicato (a svariati titoli) presso qualsiasi altro tribunale o corte italiana -anche fuori del distretto di corte di appello- e, inoltre, egli può legittimamente trasferirsi presso qualsiasi altra sede del territorio nazionale, sicché è paradossale ipotizzare che la "tutela giudiziaria" invocata col presente ricorso debba essere contenuta negli augusti limiti territoriali del Tribunale camerte, con conseguente obbligo del dott. Tosti di promuovere e reiterare identici ricorsi contro il Ministro di Giustizia ogni qualvolta si rechi presso uffici diversi dal tribunale di Camerino o cambi sede! Sarebbe come se un ebreo o un "negro" impugnassero le disposizioni che li obbligano a vivere nei ghetti o che vietano loro di salire sui treni e i giudici, dopo aver accertato che quelle disposizioni sono illegittime, limitassero l'accoglimento delle loro domande........ al solo Comune di residenza o al solo treno utilizzato!!!
Alla luce di queste considerazioni si palesano dunque del tutto erronee le ulteriori affermazioni del TAR, secondo cui "sembrerebbe" che il dott. Luigi Tosti abbia "individuato non soltanto nel Ministero di Giustizia, ma anche nello Stato italiano", i destinatari della propria pretesa e che, per altro verso, egli chieda una "pronuncia con effetti generalizzati ed erga omnes". In realtà il dott. Tosti -come risulta dagli atti processuali- ha indirizzato il suo ricorso e le sue richieste solo e soltanto nei confronti del Ministro di Giustizia (e non dello "Stato" o di altri Amministrazioni!) e solo e soltanto con riferimento alla circolare del Ministro Rocco, per la quale ha chiesto l'accertamento incidentale di intervenuta abrogazione ex art. 15 disp. prel. cod. civ. (giammai il Tosti ha dedotto vizi "originari" di tale circolare): se il "petitum" è stato esteso a tutte le aule giudiziarie -lo si ribadisce- ciò dipende soltanto dal fatto che l'intervenuta abrogazione della "circolare" Rocco non può non avere effetti "generalizzati" e che, per altro verso, la lesione dei diritti soggettivi assoluti del dipendente pubblico Tosti Luigi non può essere circoscritta nell'ambito del Tribunale di Camerino, ma deve essere necessariamente estesa a tutti i potenziali "ambienti di lavoro" (sarebbe squisitamente assurdo se un giudice, dopo aver accertato che un imprenditore diffonde sostanze nocive negli stabilimenti dislocati su tutto il territorio nazionale, limitasse la pronuncia inibitoria al solo reparto dove lavora il dipendente che ha promosso l'azione giudiziaria).”
Pertanto, si formulano, in sunto, i seguenti
QUESITI DI DIRITTO
1°) Dica l’Ecc.ma Corte se –in una fattispecie in cui un magistrato si è rifiutato di tenere le udienze perché l’Amministrazione di appartenenza si rifiutava di rimuovere da tutte le aule di giustizia i crocifissi, imposti dalla circolare del Ministro di Giustizia del 29.5.1926 n. 2134/1867- incorra nella violazione degli articoli 97 e 113 della Costituzione la sentenza della sezione disciplinare del CSM la quale affermi che la pretesa del magistrato di ottenere la rimozione dei crocifissi da tutte le aule giudiziarie -anziché dalla sola aula nella quale veniva chiamato ad esercitare le sue funzioni- è infondata e priva di tutela giurisdizionale, mentre dalle suddette disposizioni di legge si ricava che la tutela giurisdizionale nei confronti di un atto amministrativo generale, come la suddetta circolare, destinato a spiegare i suoi effetti nel tempo e nei confronti di una pluralità indeterminata di destinatari, non può essere limitata e contenuta al singolo ricorrente ma implica, in caso di acclarata illegittimità dell’atto, la sua caducazione integrale.
2°) Dica l’Ecc.ma Corte se -in una fattispecie in cui un magistrato ha espresso in atti unilaterali recettizi la volontà di non tenere le udienze sino a che non verranno rimossi i crocifissi da tutte le aule- incorra nella violazione dell’articolo 2727 del codice civile la sentenza della Sezione disciplinare del CSM che desuma, dalla circostanza che le pretese del magistrato sono state disattese dal TAR con la sentenza di primo grado, che lo stesso fosse “consapevole”, l’anno precedente, dell’infondatezza delle sue pretese giudiziarie, mentre l’art. 2727 c.c. deve essere interpretato nel senso che, affinché possa ritenersi correttamente desunta una presunzione semplice, occorre che i fatti sui quali essa si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza del fatto noto, già accertato in giudizio, alla stregua dei canoni di ragionevole probabilità, sicché la consapevolezza del contenuto di un documento non può essere presunta prima che il documento venga a materiale esistenza.
3°) Dica l’Ecc.ma Corte se -in una fattispecie in cui un magistrato ha espresso in atti unilaterali recettizi la volontà di non tenere le udienze sino a che non verranno rimossi i crocifissi da tutte le aule- incorra nella violazione dell’articolo 1362 del codice civile la sentenza della Sezione disciplinare del CSM che desuma con presunzione semplice, ex art. 2727 c.c., che lo stesso fosse “consapevole” dell’infondatezza delle sue pretese giudiziarie, mentre gli articoli 1324 e 1362 del c.c. debbono essere correttamente interpretati nel senso che negli atti unilaterali il primo e principale strumento dell’operazione interpretativa è costituito dalle parole usate dal dichiarante e che, per converso, il ricorso alla prova per presunzioni semplici è vietata dagli art. 1414, 1417, 2729 e 2722 se ha per oggetto volontà contrarie alle dichiarazioni unilaterali espresse per iscritto.

SETTIMO MOTIVO
Violazione e falsa applicazione degli articoli 97 e 101 della Costituzione e dagli articoli 4 e 5 della legge sul contenzioso amministrativo del 20.3.1865 n. 2248 All. E (cioè del principio di legalità)
-Violazione e falsa applicazione degli articoli 3 della Costituzione, dell’art. 14 della L. 4.8.1955 n. 848, dell’art. 2 del D. Lgs. 9 luglio 2003 n. 216, dell’art. 3 della L. 654/1975, dell’art. 43 del D. L.vo n. 286/1998, degli articoli 1, 4, 5, 6, 7 ed 8 della Legge 28.8.1997 n. 302, dell’art. 2, parte I^, della L. 8.3.1989 n. 101 (cioè del diritto di eguaglianza e non discriminazione) -Violazione e falsa applicazione degli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione (cioè del principio supremo di laicità dello Stato)
- Violazione e falsa applicazione degli articoli art. 19 della Costituzione e dell’art. 9 della L. 848/1955 (cioè del diritto di libertà religiosa)
- Violazione e falsa applicazione degli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione e degli articoli 1, 9, 13 e 17 della Convenzione sui diritti dell'uomo (L. n. 848/1955), degli artt. 52 e 54 C.P., 2044 e 2045 cod. civ. (cioè del diritto di libertà di coscienza e/o del diritto di difesa o stato di necessità)
-Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (Art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c.).

*********
Col secondo postulato il CSM ha ritenuto che la “soluzione” del Presidente del Tribunale di relegare il Tosti nella sua “stanza” e, successivamente, in un’allestenda aula senza crocifisso, costituiva un “rimedio” VALIDO e IDONEO a preservare il suo diritto primario di libertà di religione, sicché ha ritenuto che il rifiuto di questa soluzione sia stato indebito e ingiustificato.
Così si esprime il CSM a pagg. 21-22 della sentenza:
“La sezione disciplinare ritiene che......occorra valutare se la pretesa da parte dell’incolpato della rimozione generalizzata del crocifisso possa legittimare una così ripetuta e prolungata assenza dal servizio. Tale volontaria sottrazione appare del tutto illegittima, essendo sempre possibile al dott. Tosti di tenere l’udienza in una stanza priva di simboli religiosi ed essendogli stata formalmente suggerita tale soluzione. Essa diventa addirittura pretestuosa dopo che, con la messa a disposizione -non solo del dott. Tosti, ma anche di tutti gli altri magistrati che avessero preferito utilizzarla- di un’aula senza crocifisso del tutto omologa alle altre, era possibile celebrare l’udienza in condizioni di pari dignità con ogni altro componente del tribunale. La missiva del Presidente del Tribunale in tal senso del 19 luglio 2005 è inequivoca: “nella nuova aula d’udienza NON sarà apposto il crocifisso....Ti comunico, inoltre, che la suddetta aula d’udienza sarà a disposizione di tutti i magistrati di questo ufficio, e quindi non si potrà assolutamente dire che essa rappresenti una forma di discriminazione o di “ghettizzazione” nei tuoi confronti. Ti invito, quindi, a riprendere immediatamente il normale corso delle udienze di tua spettanza”.
...... La possibilità del dr. Tosti di tenere tranquillamente udienza, in condizioni di piena legittimazione anche sociale, in un’aula priva di simboli religiosi, rompe qualsiasi nesso tra l’esercizio in concreto delle funzioni e la violazione del suo fondamentale diritto di libertà religiosa (o di libertà dalla religione) asseritamente derivante dalla presenza, altrove, di un crocifisso. La pretesa di subordinare l’adempimento del proprio dovere alla eliminazione in tutte le aule d’Italia del simbolo religioso ha la stessa coerenza logica e la stessa consistenza giuridica della pretesa delle sua eliminazione dalle aule scolastiche o del rifiuto apposto da un professore di scuola di tenere lezione perché il crocifisso è, viceversa, affisso alla parete dell’aula di giustizia ove un qualunque magistrato tiene udienza....”.
LA TESI DEL RICORRENTE TOSTI LUIGI
Nelle sue memorie difensive il dr. Tosti ha sostenuto che il rimedio dell’aula senza crocifisso non è conforme a legge perché:
1) viola il principio di legalità e proviene da soggetti privi di legittimazione;
2) viola il principio supremo di laicità;
3) viola il diritto negativo di libertà religiosa;
4) viola il diritto all’eguaglianza e non discriminazione;
5) viola la legge penale (art. 3 della legge n. 654/1975);
6) era ed è inidoneo allo scopo che si voleva perseguire, cioè quello di consentirgli di tenere “tutte” le udienze in ambienti privi di crocifissi.
Il dr. Tosti ha sostenuto, pertanto, di essersi legittimamente rifiutato di tenere le udienze nella propria stanza o nell’aula senza crocifisso, perché costrettovi dalla necessità di salvaguardare il rispetto del principio di laicità e dei propri diritti di libertà e di eguaglianza religiosa, nonché per sottrarsi ad un regime di criminale apartheid. Il CSM non ha speso mezza sillaba di motivazione per confutare le tesi del Tosti ed ha formulato, per contro, l’apodittico “postulato” che l’aula ghetto era idonea a preservare il diritto di libertà religiosa del Tosti, obliterando dunque di pronunciarsi sulla idoneità di questo “rimedio” a salvaguardare il principio di laicità e il diritto di eguaglianza e non discriminazione.
Questa pronuncia viola numerose norme di legge e presenta vizi motivazionali.
Queste le motivazioni analitiche.
1°) L’allestimento dell’aula-ghetto viola il principio di legalità (articoli 97 e 101 della Costituzione, articoli 4 e 5 della legge sul contenzioso amministrativo del 20.3.1865 n. 2248 All. E).
La “proposta” dell’Amministrazione di allestire un’aula senza crocifissi per il Tosti viola il principio di legalità sancito dagli artt. 3, 97 e 113 della Costituzione, a mente del quale TUTTI -ivi incluso il Presidente del Tribunale di Camerino- debbono osservare la legge con rigore e senza eccezioni o deroghe elusive.
Giova premettere:
1°) che il dr. Tosti è stato sottoposto ad un’ispezione ministeriale per aver “osato” staccare un crocifisso in “sacrilega violazione” della circolare del Ministro fascista -ritenuta tuttora vigente- che impone l’ostensione dei crocifissi in TUTTE le aule giudiziarie;
2°) che la richiesta del dr. Tosti di rimuovere i crocifissi è stata respinta dal Presidente del Tribunale dr. Aldo Alocchi, perché costui ha ritenuto che la circolare fascista fosse tutt’ora “vigente”;
3°) che tale “perdurante vigenza” è stata ufficialmente sostenuta dall’Avvocatura di Stato nel giudizio dinanzi al TAR;
4°) che la III^ Sezione della Cassazione penale ha espressamente statuito, con ordinanza n. 41.571 pubblicata il 18.11.2005, che “è da escludere che un giudice, di qualsivoglia ordine e grado, possa prendere una decisione in contrasto con la circolare ministeriale Rocco”, cioè che possa rimuovere un crocifisso da un’aula giudiziaria;
5°) che gli articoli 4 e 5 della legge sul contenzione amministrativo (L. 20.3.1865 n. 2248 All. E) attribuiscono sì il potere di disapplicazione degli atti amministrativi ai giudici, ma solo nel corso di un giudizio e solo per ovviare ad una illegittimità dell’atto, e non per disporre deroghe elusive, cioè per violare la legge;
6°) che è la stessa sezione disciplinare del CSM ad affermare, nell’ordinanza di sospensione cautelare del Tosti, affoliata a pag. 61-76 del fascicolo d’ufficio, che “...non ne deriverebbe che l’amministrazione della giustizia sarebbe per ciò stesso legittimata a disapplicarla, perché il potere di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi spetta solo al giudice e non all’amministrazione che ha emesso l’atto.”
Sulla base di queste circostanze di fatto e di diritto, pertanto, non si giustifica che il Presidente del Tribunale di Camerino, dopo aver affermato che la circolare del Ministro fascista era ancora vigente, abbia invitato il dr. Tosti a tenere le udienze nella sua “stanza” (anziché nelle aule “conformi” alla circolare, cioè “crocifissate”) e che, poi, gli abbia allestito un’aula, senza crocifisso, per l’ “ossequio dovuto al Sig. Presidente della Corte di Appello di Ancona, il quale nel suo provvedimento datato 27.5.2005....sottoponeva a questo Presidente un rimedio del tipo di quello sopra adottato” (così si legge nella nota del 19.7.2005, doc. n. 19 del sottofascicolo “A” del dr. Tosti).
Se un vigile è aduso far le multe a chi viaggia in moto senza casco -perché così LA LEGGE gli impone- questo vigile non può, “per l’ossequio dovuto al Sig. Prefetto, che gli ha chiesto di non multare il figlio sorpreso alla guida senza casco”, fare uno “strappo alla regola” per codesto figlio di papà: non solo perché si tratterebbe di un reato, ma anche perché l’Italia è una Repubblica dove vige il principio supremo della “legalità”, e non una Repubblica delle banane dove le leggi si applicano o meno a seconda della “spessore” dei soggetti interessati.
Alla stessa stregua, dunque, il Presidente del Tribunale di Camerino aveva l’obbligo di applicare la circolare che lui stesso affermava essere “vigente” perché, se avesse opinato diversamente, avrebbe dovuto semmai rimuovere i crocifissi da TUTTE le aule del Tribunale, comportandosi come si è comportato, ad esempio, il Presidente del Tribunale di Ragusa che ha rimosso i crocifissi da TUTTE le aule di quel Tribunale perché ha ritenuto che la circolare fascista fosse abrogata perché incompatibile col principio di laicità e con i diritti di libertà religiosa e di eguaglianza dei cittadini italiani (cfr. lettera dr. Michele Duchi del sett. 2005, doc. n. 6 del sottofascicolo “B” del dr. Tosti).
Erra, dunque, il CSM quando valuta l’ “aula senza crocifisso del tutto omologa alle altre” e, quindi, considera come “rimedio” “LEGITTIMO” un rimedio che è invece ILLEGALE, perché deliberato in violazione del principio di legalità e degli articoli 4 e 5 della legge 20.3.1865 n. 2248.
Al contrario, il CSM avrebbe dovuto considerare che in uno Stato di diritto realmente rispettoso del principio supremo di “legalità” (art. 3, 97 e 113 Cost.) non si può ammettere che a qualcuno -magari perché ricoprente un’Alta carica- sia concessa la facoltà di “violare” ad libitum la legge o di sottrarsi ai suoi cogenti precetti. Il principio di “legalità” è infatti il PILASTRO sul quale si fonda lo Stato democratico ed esso implica che la “LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI”, com’è peraltro enfaticamente scritto nelle aule giudiziarie.
Pertanto, delle due l’una: o il crocifisso è da ritenere “legittimo” -ma allora il CSM avrebbe dovuto ritenere che era ILLEGALE che il Presidente dr. Alocchi allestisse un’aula senza crocifisso per il Tosti- oppure il crocifisso è da ritenere illegittimo, ma anche in questo caso il CSM avrebbe dovuto trarne la conseguenza che era ILLEGALE rimuoverlo da una SOLA AULA, piuttosto che da TUTTE, anche perché la problematica sollevata dal dr. Tosti era ed è GENERALE.
Pertanto il CSM avrebbe dovuto considerare che l’allestimento di un’aula senza crocifisso non era un valido “rimedio”, ma un éscamotage per eludere, furbescamente e in modo ILLEGALE e inappropriato, le problematiche di carattere generale che erano state sollevate dal Tosti.
E, in effetti, se si avalla la tesi che l’Amministrazione poteva legittimamente allestire un’aula, senza crocifisso, da destinare sia al Tosti che a tutti gli altri magistrati, si afferma anche -necessariamente- che era perfettamente possibile allestire legittimamente TUTTE le altre aule senza crocifisso, cioè aderire alla richiesta del dr. Tosti. Se si afferma che il figlio del Prefetto può circolare “legittimamente” senza casco, si deve necessariamente affermare che anche tutti gli “altri figli” -qualsiasi sia la “professione” della madre che li ha partoriti- abbiano il diritto di circolare senza casco, senza essere multati.
La circostanza che sia stata allestita una sola aula, senza crocifisso, dimostra però che il “rimedio” propinato al Tosti era soltanto un escamotage per eludere il problema e per perpetuare ai cattolici il privilegio dell’ostensione del crocifisso. Della serie: sappiamo perfettamente che la presenza del crocifissi è illegittima, ma vogliamo mantenerla perché il Papa così comanda: allora, dal momento che è soltanto il dr. Tosti che protesta, allestiamo un’aula-ghetto, senza crocifisso, dove confinare lo “sporco” ebreo. Così perpetuiamo ai cattolici il privilegio dell’esposizione dei crocifissi, in attesa che costui se ne vada in pensione!
Concludendo, il dr. Tosti non aveva alcun obbligo di accettare la proposta della rimozione del crocifisso da una sola aula perché essa era ILLEGALE e perché proveniva da soggetti assolutamente privi di legittimazione a disapplicarla.

2°) L’aula-ghetto era inidonea a salvaguardare la prerogativa di rispetto del principio supremo di laicità (articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione).
La IV Sez. Penale della Cassazione ha statuito nella sentenza n. 4273/2000 che “la libertà di coscienza.... non è divisibile a tutto tondo in modo da ritenerla esercitabile solo se riguardi il seggio di destinazione dell'agente come scrutatore e non la totalità dei seggi e cioè l'intera amministrazione (sarebbe come se la "obiezione di coscienza" al servizio militare per opposizione all'uso delle armi ex art. 1 l. 8.7.1998, n. 230 non fosse esercitabile da parte del cittadino destinato a compiti meramente amministrativi). Ogni violazione del principio di laicità nel modo indicato in qualsivoglia seggio elettorale costituito non può non essere avvertita da una coscienza informata a quel principio come violazione di quel bene nella sua interezza, indipendentemente dal luogo in cui si verifichi, cosicché non è possibile attribuire rilevanza al fatto che casualmente la violazione non si verifichi nel seggio di destinazione”)
Sulla base di tale massima, significativamente ignorata dai giudici della Sezione disciplinare, l’eliminazione del crocifisso da una sola aula non valeva e non vale a salvaguardare il rispetto del principio supremo di laicità che, come sancito dalla stessa Sezione disciplinare, dalla Cassazione e dalla Corte europea, è un principio (ed un problema) GENERALE che riguarda lo Stato nella sua unità, e non i singoli cittadini. D’altro canto, se una circolare fascista imponesse l’esposizione nelle aule di giustizia della scritta “Gli ebrei sono perfidi usurai, deicidi, peste dell’umanità, ruffiani e pezzi di merda” e un giudice ebreo si rifiutasse di tenere le udienze, sarebbe forse pensabile “risolvere” il problema rimuovendo la scritta da una “sola” aula e ingiungendo al giudice di tenervi le udienze? Evidentemente no, perché le lesioni dei diritti alla reputazione e all’eguaglianza e non discriminazione persisterebbero nella loro interezza.
Le stesse considerazioni valgono per l’aula-ghetto, perché questo “rimedio” furbesco non poteva minimamente salvaguardare il rispetto del principio supremo di laicità, il rispetto del diritto di eguaglianza e non discriminazione e, come ci si accinge a dimostrare, neppure quello di libertà religiosa.
3°) L’aula-ghetto era inidonea a salvaguardare il diritto di libertà religiosa (art. 19 della Costituzione ed art. 9 della L. 848/1955).
Contrariamente a quanto sostenuto dal CSM, il rimedio dell’aula “senza crocifisso” non risolveva affatto il rispetto del diritto di libertà religiosa del Tosti, né “rompeva qualsiasi nesso tra l’esercizio in concreto delle funzioni e la violazione del suo fondamentale diritto di libertà religiosa (o di libertà dalla religione) asseritamente derivante dalla presenza, altrove, di un crocifisso”.
Il diritto di libertà religiosa, infatti, implica anche quello di non essere costretti a manifestare la propria religione o le proprie convinzioni religiose e di non essere obbligati ad agire in un modo tale che si possa trarre la conclusione che si ha -o non si ha- tali convincimenti. Questo principio è stato costantemente affermato dalla Corte Costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
In particolare, la Corte Cost. con sent. n. 117/1979, nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 251 c.p.c. e degli art. 142, 316, 329 e 449 c.p.p., “nella parte in cui riferiscono anche ai non credenti l'obbligo del giudice di ammonire i testimoni sull'importanza religiosa del giuramento e l'obbligo dei testimoni stessi di prestarlo nei confronti della divinità”, ha puntualizzato che “non sarebbe sufficiente che il testimone non credente ..... espunga con apposita dichiarazione il riferimento alla Divinità, dopo che la formula è stata letta per intero e prima della prestazione del giuramento”, perché “l'ipotesi prospettata ...pregiudicherebbe..... quel "diritto a non rivelare le proprie convinzioni", cui ebbe a fare riferimento questa Corte nella sent. n. 12 del 1972”.
Analogamente, la Grande camera della CEDU, 21 febbraio 2008, ric. 19516/06, Alexandridis c. Grecia, ha affermato che “la libertà di manifestare le proprie convinzioni religiose comporta ugualmente anche un aspetto negativo, vale a dire salvaguardare il diritto del singolo a non essere costretto a manifestare la sua religione o credenze religiose e non essere costretto ad agire in modo che si possa trarre la conclusione che egli ha - o non ha - tali convinzioni. Agli occhi della Corte, le autorità non hanno alcun diritto di intervenire nel dominio della libertà di coscienza dei singoli individui e di cercare il loro credo religioso, o per chiedere loro di manifestare il loro credo religioso concernenti il loro concetto di divinità”.
Negli stessi identici termini si è pronunciata la CEDU con la sentenza 3.6.2010, DIMITRAS ET AUTRES c. GRÈCE:
“la libertà di pensiero, di coscienza e di religione rappresenta uno dei fondamenti di una "società democratica" così come concepita dalla Convenzione. Questa libertà figura, nella sua dimensione religiosa, tra gli elementi essenziali dell’identità dei credenti e della loro concezione della vita, ma è anche un bene prezioso per gli atei, gli agnostici, gli scettici o gli indifferenti. Ne va la sopravvivenza del pluralismo -conquistato a caro prezzo nel corso dei secoli- che non può essere dissociato da una siffatta società. Questa libertà comporta, tra l'altro, quella di aderire o no ad una religione e quella di praticarla o non praticarla (v., in particolare, Kokkinakis c. Grecia, sentenza del 25 maggio 1993, serie A n. 260-A p. 17, § 31, e Buscarini e altri c. San Marino [GC], n. 24645/94, § 34, CEDU 1999-I).
Se la libertà di religione rileva in primo luogo sotto l’aspetto interiore, essa implica anche quella di manifestare la propria religione individualmente e in privato, oppure in modo collettivo, in pubblico e all'interno della cerchia di coloro di cui si condivide la fede. Inoltre, la Corte ha già avuto l’occasione di consacrare dei diritti negativi nell’ambito dell'articolo 9 della Convenzione, in particolare la libertà di non aderire ad una religione e quella di non praticarla (v., in questo senso , Kokkinakis c. Grecia, e Buscarini e altri c. San Marino, supra
Inoltre, la libertà di manifestare i propri convincimenti religiosi comporta anche un aspetto negativo, ossia il diritto dell’individuo di non essere costretto a manifestare la propria religione o le proprie convinzioni religiose e di non essere obbligato ad agire in un modo tale che si possa trarre la conclusione che esso ha -o non ha- tali convincimenti. Ad avviso della Corte, le autorità statali non hanno il diritto di intervenire nel dominio della libertà di coscienza dell'individuo e ricercare le sue convinzioni religiose, oppure di obbligarlo a manifestare le sue convinzioni circa la divinità. Ciò è ancor più vero nel caso in cui una persona è obbligata ad agire in questo modo al fine di svolgere certe funzioni, in particolare durante un giuramento (v., in tal senso, v. Alexandridis Grecia, n. 19516/06, § 38, CEDU 2008”.
Il ricorrente ritiene che TUTTI questi principi debbano applicarsi al proprio caso, perché relegare un giudice in un’aula “speciale” (peraltro di un piccolo tribunale) per “soddisfare” surrettiziamente il suo sacrosanto diritto di essere tenuto lontano da quei simboli -ovverosia perché i suoi peculiari convincimenti religiosi sono divergenti da quelli “imposti” dallo Stato (“laico”!!)- significa, concretamente, costringerlo a manifestare, CORAM POPULO, di non credere a quegli idoli, obbligarlo cioè a manifestare i suoi convincimenti religiosi al fine di sottrarlo ad una imposizione di carattere religioso, né più né meno di quanto accade a chi è obbligato a giurare sul vangelo. Ma significa anche costringere il dipendente “dissidente” a manifestare i propri convincimenti religiosi in modo permanente e pubblico.
Infatti, confinare un dipendente nella sua “stanza” o in un’aula “speciale” a lui “dedicata” -che si distingue da TUTTE le altre aule di TUTTI i tribunali italiani per la manifesta assenza del crocifisso- significa rendere di pubblico dominio i convincimenti religiosi di chi tiene le udienze in quell’aula speciale, “bollandolo” pubblicamente come “giudice anticrocifisso”. Ed è quello che di fatto è accaduto al dr. Tosti, perché questo sgradevole appellativo gli è stato indelebilmente cucito sulla pelle dalla stampa nazionale e dalle televisioni.
E questa ghettizzazione non è minimamente elisa o attenuata dal “volpino” accorgimento di destinare l’uso di quell’aula anche agli “zimbelli”, cioè ai colleghi del dr. Tosti, i quali venivano invitati a tenervi le udienze per “dimostrare” al Mondo intero che il dr. Luigi Tosti -per carità!!- non veniva “discriminato”!!! Questo escamotage ingiurioso, in effetti, brutalizzava ancor di più il “diritto” del giudice dissidente a non rivelare agli altri i propri convincimenti religiosi, rendendoli di pubblico dominio.
Se il Tosti avesse accettato la bislacca e criminale proposta di essere confinato nella sua stanza o nell’aula “speciale”, questo lo avrebbe posto costantemente al centro dell’attenzione dei colleghi, del personale amministrativo, degli avvocati, delle parti, del pubblico e, in definitiva, di tutti coloro che frequentavano il tribunale, minandone il prestigio ed esponendolo alla derisione e al disprezzo dei cattolici integralisti, come peraltro comprovato dalle lettere anonime prodotte nel sottofascicolo “E” dell’incolpato e sopra trascritte (sotto IL FATTO).
4°) L’aula-ghetto era inidonea a salvaguardare il rispetto del diritto di eguaglianza e non discriminazione (articoli 3 della Costituzione, dell’art. 14 della L. 4.8.1955 n. 848, dell’art. 2 del D. Lgs. 9 luglio 2003 n. 216, dell’art. 43 del D. L.vo n. 286/1998, degli articoli 1, 4, 5, 6, 7 ed 8 della Legge 28.8.1997 n. 302, dell’art. 2, parte I^, della L. 8.3.1989 n. 101).
Giova ribadire che il dr. Tosti ha manifestato la sua totale e piena disponibilità a tenere le udienze nell’aula-ghetto, purché venisse autorizzato ad esporre la sua menorà a fianco dei crocifissi. Questa controproposta -che avrebbe consentito al dr. Tosti di seguitare a tenere le udienze- è stata CRIMINALMENTE disattesa, sicché del tutto legittimamente il Tosti ha rifiutato di essere confinato nella sua stanza o nell’aula-ghetto, perché questo “rimedio” non scongiurava affatto la lesione diretta e permanente del suo diritto inviolabile di eguaglianza religiosa, garantitogli dall’art. 3 della Cost., dall’art. 14 della Convenzione e da numerose altre norme tra le quali spiccano, in primis, gli articoli 2 dei D. Lgs. n. 215 e n. 216 del 9 luglio 2003. In particolare l’art. 2 del D. Lgs. n. 216/2003 vieta qualsiasi forma di “discriminazione” da parte del datore di lavoro pubblico o privato, e cioè qualsiasi forma di “discriminazione diretta” (“quando, per religione...... una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga”) o “indiretta” (“quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione ...... in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”).
Pertanto, il CSM avrebbe dovuto considerare che il rifiuto del dr. Tosti di accettare la proposta dell’aula senza crocifisso è stato del tutto legittimo, dal momento che nessuno può essere costretto a subire remissivamente atti di discriminazione religiosa.
Ma avrebbe anche dovuto considerare che la responsabilità del rifiuto è da ascrivere totalmente all’Amministrazione, perché l’autorizzazione ad esporre la menorà era, alla luce della normativa sopra richiamata, non soltanto possibile, ma anche DOVUTA e DOVEROSA, perché il datore di lavoro non può discriminare, direttamente o indirettamente, i dipendenti nell’ambiente di lavoro (art. 2 d.lgs. n. 216/03).
Il CSM non ha tenuto conto degli obblighi gravanti sull’Amministrazione ed ha invece avallato il comportamento discriminatorio dell’Amministrazione, facendo grottescamente ricadere le conseguenze dell’astensione dalle udienze sulla vittima della discriminazione, obliterando anche le connotazioni di disprezzo ideologico che la connotano.
E, in effetti, al dr. Tosti è come se l’Amministrazione Giudiziaria “razzista” italiana gli avesse detto: “Tu non hai il diritto di entrare con la tua menorà ebraica nelle pubbliche aule di udienza perché appartieni ad una religione “inferiore” e il tuo simbolo offende la sensibilità della “Superiore Razza Cattolica”: pertanto, o accetti di entrare nelle aule senza il tuo infimo e indegno simbolo, oppure vai a lavorare in un’aula, senza crocifisso, dove però non potrai esporre la tua infima e indegna menorà, perché essa offende la sensibilità dei “Superiori” Cattolici”.
Legittimamente, dunque, il dr. Tosti ha rifiutato la proposta di tenere le udienze in aula senza simboli, perché si trattava di una discriminazione che ledeva la sua dignità ed il suo diritto inviolabile di eguaglianza religiosa. Ma c’è di più.
5°) Il confino del dr. Tosti nella sua stanza o nell’aula senza crocifisso integra gli estremi del reato di cui all’art. 3 della L. n. 654/1975.
L’art. 3, lett. a), della legge 13.10.1975 n. 654, così come modificato dall’art. 1 del D.L. n. 122 del 1993 e dall’art. 13 della L. 24.2.2006 n. 85, punisce con la reclusione sino ad un anno e sei mesi o con la multa sino a 6.000 euro “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione razziali, etnici, nazionali o religiosi”.
La Corte di Cassazione penale, con sentenza 13.234/2008, ha così definito la “discriminazione” di rilevanza penale: “....rilevato che il divieto di discriminazione di cui alla legge n 654 del 1975, è stato introdotto nel nostro Paese in esecuzione della Convenzione di New York del 7 marzo 1966, il termine discriminazione" deve essere inteso nel significato indicato dall'articolo 1 di tale Convenzione, in base alla quale discriminare significa porre in essere un comportamento che direttamente o indirettamente comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza, la religione ecc. allo scopo di "distruggere o compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica". La nozione é stata ripresa e ribadita nell'articolo 43 comma 1 del decreto legislativo n 286 del 1998 e successivamente meglio puntualizzata nella direttiva n 43 del 2000, introdotta nel nostro ordinamento con il decreto legislativo del 9 luglio del 2003 n 215. In base a tale direttiva si ha discriminazione diretta quando, a causa della propria razza o origine etnica o religione, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra persona in una situazione analoga. Si ha invece discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza ed origine etnica o religione in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone (articolo 2 decreto legislativo citato). L'anzidetto decreto, applicabile sia al settore pubblico che a quello privato, considera come discriminazioni anche le molestie o i comportamenti indesiderati (art. 2 comma 3). Il razzismo é una forma particolare di discriminazione perché indica la razza come fattore determinante per lo sviluppo della società e, di conseguenza, presuppone l'esistenza di razze superiori ed inferiori: le prime destinate al comando, le seconde alla sottomissione (cfr Cass. 29 ottobre 1993 RE 196583). II razzismo si attua o con la persecuzione o con la discriminazione.”
Il ricorrente sostiene che il comportamento di “ghettizzazione” della P.A. integra una manifestazione di “discriminazione religiosa” non dissimile dalle “discriminazioni razziali” che sono state praticate dai regimi fascista, nazista e sudafricano, allorché agli ebrei e ai negri, in quanto esseri “inferiori”, venne proibito di “accedere” agli impieghi ed alle cariche pubbliche, di “accedere” ai locali pubblici frequentati dai bianchi, di salire sui mezzi di trasporto riservati alla Superiore Razza Ariana, di abitare nei quartieri abitati dai bianchi e via dicendo.
E, in effetti, al dr. Tosti non solo è stato negato di far entrare i suoi simboli nelle aule di giustizia -e questo perché “offendevano la sensibilità della Superiore Razza Cattolica”- ma si è tentato di ghettizzarlo creando un delirante regime di “apartheid” all’interno della stessa Pubblica Amministrazione, senza neppure vergognarsi dell’indecente proposta dell’aula-ghetto, che i giudici della Sezione disciplinare del CSM hanno candidamente dipinto come del tutto omologa alle altre ed idonea a far celebrare l’udienza in condizioni di parità con gli altri componenti del tribunale, tranquillamente e in condizioni di legittimazione anche sociale.
Questo comportamento è assimilabile a quello di chi impedisse ai “neri” di entrare in un bar o in un esercizio pubblico o in un tribunale o in un ufficio pubblico o di salire su di un treno, adducendo che il colore della loro pelle “disturba” la “sensibilità” dei “Superiori” “Bianchi”: si tratterebbe di un criminale atto di “discriminazione razziale”.
Ma è assimilabile anche al comportamento di chi consentisse ai soli cattolici di entrare nei bar o negli esercizi pubblici o nei tribunali esibendo il crocifisso e vietasse, per contro, ai musulmani, ai buddisti o agli atei di accedervi con i propri simboli, adducendo che questi ultimi “disturbano” la “sensibilità” dei “Cattolici”: si tratterebbe anche qui di un criminale atto di discriminazione religiosa, perseguibile sempre ex art. 3 L. n. 654/1975.
Alla stessa stregua, dunque, deve essere considerato il comportamento criminale dell’Amministrazione Giudiziaria nei confronti del dipendente Luigi Tosti, al quale è stato IMPOSTO il crocifisso cattolico ed è stata invece NEGATO -SOLTANTO per motivi di disprezzo ideologico religioso- il sacrosanto diritto di esporre i propri simboli, che sono altrettanto degni e meritevoli di rispetto, usufruendo così dello stesso trattamento e degli stessi diritti che lo Stato italiano accorda alla (Superiore) “Razza” Cattolica.
Impedendo al dr. Tosti di affiancare al crocifisso i suoi simboli è come se l’Amministrazione Giudiziaria “razzista” italiana gli avesse detto: “Tu non hai il diritto di entrare con la tua menorà ebraica nelle pubbliche aule di udienza perché appartieni ad una religione “inferiore” e il tuo simbolo offende la sensibilità della “Superiore Razza Cattolica”: pertanto, o accetti di entrare nelle aule senza il tuo infimo e indegno simbolo, oppure vai a lavorare in un’aula, senza crocifisso, dove però non potrai esporre la tua infima e indegna menorà, perché essa offende la sensibilità dei “Superiori” Cattolici”.
Ma c’è di più. Tentando di confinarlo nella sua stanza e, poi, in un’aula ghetto senza crocifisso, la Pubblica Amministrazione ha creato un regime di apartheid per chi, come il Tosti, non è cattolico. Pur essendo egli un dipendente come gli altri, al dr. Tosti è stato precluso l’utilizzo e la frequentazione del 95 % delle aule del Tribunale di Camerino “perché non appartenente alla superiore razza cattolica”. L’obbligo di tenersi alla larga dalle aule destinate agli adepti della Superiore Razza Cattolica e la possibilità di utilizzare solo l’aula speciale -senza nemmeno avere il diritto di esporvi i propri simboli, perché non graditi dalla Superiore Razza Cattolica- evoca le criminali segregazioni razziali praticate in Sud Africa.
Estremamente significativa è la circostanza che la Convenzione Internazionale sull’eliminazione e la repressione del crimine di “APARTHEID” (International Convention on the Suppression and Punishment of the Crime of Apartheid) adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 3068 (XXVIII) del 30 novembre 1973, ed entrato in vigore il 18 luglio 1976, disponga (art. 1) che l’apartheid è un crimine contro l'umanità e definisce (art. 2) come "crimine di apartheid" “gli atti disumani commessi in vista di istituire e di mantenere la dominazione di un gruppo razziale di esseri umani su un qualsiasi altro gruppo razziale di essere umani e di opprimere sistematicamente quest'ultimo”, quali, ad esempio, “Prendere misure, legislative o d'altro genere, destinate ad impedire ad uno o più gruppi razziali di partecipare alla vita..... culturale del paese.... privare i membri di uno o più gruppi razziali delle libertà e dei diritti fondamentali dell'uomo..., in specie.... del diritto alla libertà di opinione e di espressione.. prendere misure, ivi comprese misure legislative miranti a dividere la popolazione secondo criteri razziali, creando riserve e ghetti separati per i membri di uno o più gruppi razziali.... Perseguitare organizzazioni e persone, privandole delle libertà e dei diritti fondamentali, perché si oppongono all'apartheid.
Non si vuol qui sostenere che si sia perfezionato in tutti i suoi elementi costitutivi il crimine di apartheid, ma non si può non denunciare la gravità del tentativo di creare, all’interno dell’amministrazione di uno Stato che si proclama democratico e rispettoso dei diritti umani, “divisioni”, “ghetti” e “riserve” che sono indegne di uno Stato moderno che pretende di inserirsi tra i Paesi civili. Ciò che colpisce in questa vicenda è la TOTALE CARENZA di VERGOGNA di chi ha avuto l’impudenza di proporre siffatti criminali e oltraggiose proposte e, ancor più, di chi le ha suggellate e consacrate in sentenze emesse in nome del Popolo Italiano.
Sul fatto che il dr. Tosti sia stato vittima di ATTI di DISCRIMINAZIONE RELIGIOSA, che assumono anche connotazioni penali perché motivati da disprezzo e avversione ideologica dei suoi convincimenti, sussiste piena prova documentale. Basta infatti considerare che il Ministro della Giustizia Clemente Mastella, nonostante la bellezza di ben 13 solleciti, non ha MAI risposto, perché non in grado di rispondere, all’interpellanza parlamentare n. 130 del 19.9.2006, con la quale l’O.le Maurizio Turco gli ha chiesto “per quali validi motivi - che non fossero quelli di discriminazione razziale, odio e disprezzo degli ebrei e della religione ebraica, il suo Ministero avesse negato al dott. Tosti Luigi di esporre a fianco del crocifisso la menorah, usufruendo così degli stessi diritti religiosi e della stessa dignità che l'Amministrazione fascista italiana accordò e che quella repubblicana seguita ad accordare ai cattolici”, e per “quali motivi l'esposizione di un solo simbolo religioso - attuato dalla dittatura fascista quando la religione cattolica era considerata «religione di Stato» - e la contestuale negazione dell'esposizione di tutti gli altri simboli possano ritenersi compatibili con i diritti alla libertà religiosa e alla non discriminazione religiosa che la predetta Convenzione accorda a qualsiasi singola persona” (cfr. doc. n. 9 sottofascicolo B dell’incolpato Tosti).
La piena prova processuale del “disprezzo ideologico” che ha alimentato gli atti di discriminazione religiosa ai danni del Tosti deve in ogni caso essere ineluttabilmente desunta anche dal fatto che la Sezione Disciplinare ha negato al dr. Tosti il diritto di interrogare “in ordine alle motivazioni del divieto di esporre la menorà ebraica nelle aule giudiziarie a fianco al crocifisso” (così nella richiesta di prova) i Ministri di Giustizia Castelli Roberto e Mastella Clemente e i dott.ri Aldo Alocchi ed Emanuele Petraccone, ritenendo che “i fatti fossero già stati accertati in sede penale”, sicché delle due l’una: o si ritiene che le motivazioni di disprezzo ideologico risultano già provate dagli atti penali -come afferma il CSM nell’ordinanza di rigetto dell’esame testimoniale- oppure l’ordinanza istruttoria del 18.1.2010 deve essere dichiarata nulla perché lesiva del diritto di difesa del dr. Tosti, con conseguente insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo (art. 360 n. 5 C.P.C.), che è quello che al dr. Tosti fu vietato di esporre la menorà a fianco del crocifisso per motivi di disprezzo religioso, e non per carenza di spazi o per pericoli di crollo del Tribunale di Camerino. Trattasi di fatto decisivo perché, se i testi avessero confermato la circostanza, il CSM avrebbe dovuto ritenere che il rifiuto del Tosti fu giustificato anche dalla necessità di sottrarsi ad atti di criminale discriminazione religiosa ex art. 52 C.P. (o comunque ex art. 1460 c.c.).
6°) Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (Art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c.).
Il dr. Tosti ha sempre contestato che il rimedio dell’aula senza crocifisso fosse idoneo a garantirgli la possibilità di tenere tutte le udienze. Nella lettera del 7.8.2005 (doc. n. 23 sottofascicolo “A” dell’incolpato) ha così scritto: “Da ultimo mi preme evidenziare gli aspetti tecnici -che reputo a dir poco grotteschi e ridicoli- che scaturirebbero dalla soluzione prospettata. La pratica di allestire aule-ghetto, infatti, creerebbe problematiche irrisolvibili, sia in relazione ai diversi credo o fedi religiose dei dipendenti della Pubblica amministrazione che in relazione alla contestualità delle funzioni esercitate dagli stessi.
Ad esempio mi chiedo: quale sarebbe l'aula da destinare ai giudizi "collegiali"? Forse quella dei giudici cattolici, addobbata col crocifisso, o quella dei giudici ebrei o islamici, rigorosamente prive di simboli? E come dovrebbero essere tutelati, poi, i pari diritti dei pubblici ministeri e di tutto l'altro personale ausiliario non cattolico?”.
A pag. 76-80 del ricorso per cassazione, prodotto come memoria difensiva, il dr. Tosti ha eccepito “l'assoluta impraticabilità della sconcia “soluzione” dell'aula-ghetto, sia perché le funzioni di GIP da lui ricoperte dovevano necessariamente svolgersi nell'aula “ufficiale”, attrezzata per la registrazione, sia perché esercitava abitualmente anche funzioni collegiali....Né era da sottovalutare l'ulteriore circostanza che veniva sovente applicato in altre sedi, in ipotesi anche al di fuori del distretto della Corte di Appello, sicché il regime di apartheid che mi si vorrebbe imporre -sino al mio pensionamento!!- è quanto di più assurdo, di ridicolo, di offensivo, di criminale e di lesivo della dignità umana si possa concepire: in ogni nuova sede, infatti, dovrebbe essere istituita in tutta fretta un'aula-ghetto per ospitare l'ebreo....”appestato”!!”.
Nella memoria di discussione del ricorso per cassazione, prodotta come memoria difensiva, il dr. Tosti puntualizzava ancora che “La proposta dell’aula-ghetto era inutile, sia perché le funzioni di GIP del dr. Tosti dovevano essere espletate in un’aula attrezzata per la registrazione, nella quale permaneva la presenza del crocifisso, sia perché il dr. Tosti espletava abitualmente anche funzioni collegiali. Egli, inoltre, veniva applicato in altre sedi, in ipotesi anche al di fuori del distretto della Corte di Appello, sicché il regime di apartheid era ingiurioso e lesivo dei suoi diritti di eguaglianza e di libertà religiosa: in ogni nuova sede, infatti, sarebbe stato costretto ad esternare i propri convincimenti religiosi per l’allestimento di altre “aula-ghetto”.
La sezione disciplinare ha obliterato tutte queste eccezioni ed ha ritenuto che il rimedio dell’aula senza crocifisso fosse idoneo a garantire al Tosti la possibilità di tenere tutte le udienze: non ha però spiegato per quale motivo le aule in questioni fossero idonee a garantirgli di potervi espletare le funzioni di GIP, quelle di GUP supplente, di giudice monocratico penale o di componente del collegio penale supplente, di componente del collegio civile ordinario e delle cause di lavoro ed agrarie, nonché per le udienze che avrebbe dovuto tenere nelle sue frequenti assegnazioni ed applicazioni presso il Tribunale di Macerata e presso altri uffici del distretto o extradistretto né, infine, come avrebbe potuto garantirglielo nell’ipotesi di suo trasferimento ad altra sede.
Questo vuoto motivazionale sull’ “idoneità” dell’aula senza crocifisso non può essere addossato sul Tosti, visto e considerato che l’onere della prova incombe sull’accusa e, da parte sua, il dr. Tosti ha sempre eccepito l’inidoneità dell’aula ghetto per le puntuali motivazioni sopra esposte.
In ogni caso, le circostanze addotte dal Tosti non abbisognano di mezzi di prova particolari perché sono fatti notori di natura tecnica, di cui il CSM doveva tenere conto: avendoli intenzionalmente obliterati ricorre vizio di insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell'art. 360 cod. proc. civ., n. 5. E’ infatti notorio che le udienze penali (GIP, GUP, dibattimento monocratico e collegiale) debbano essere svolte in aule attrezzate per la registrazione, così come è notorio che le udienze collegiali civili non si svolgono nelle “stanze” del singolo magistrato ma nelle aule deputate allo svolgimento delle udienze collegiali. E’ altresì inconfutabile che il dr. Tosti non avrebbe potuto usufruire della sua “stanza” o dell’aula-ghetto durante la sua coassegnazione presso il Tribunale di Macerata e nelle sue applicazioni in altre sedi del distretto della Corte di Appello o, infine, nelle diverse sedi in cui si fosse trasferito, sicché egli sarebbe stato costretto, non solo ad esternare ogni volta i propri convincimenti religiosi a causa dell’imposizioni dei crocifissi, ma anche a subire le ingiurie di altrettanti allestimenti di “aule-ghetto” riservate all’ “appestato”.
Se il CSM avesse tenuto conto di tutte queste circostanze, non avrebbe potuto esprimere il convincimento che l’aula senza crocifisso fosse idonea a garantirgli la possibilità di tenere TUTTE le udienze di cui era o doveva o poteva essere gravato. Sussiste pertanto vizio di insufficiente motivazione, avente carattere decisivo, sia perché la sentenza si fonda sull’assunto dell’idoneità assoluta di quelle aule (e quindi del “rimedio”), sia perché il dr. Tosti ha riportato condanna per TUTTE le udienze che gli sono state contestate, mentre avrebbe dovuto semmai riportarla per le sole udienze che poteva tenere nell’aula senza crocifisso: udienze che non sono mai state individuate, anche perché la Sezione disciplinare ha impedito al dr. Tosti di sentire i testimoni e di deporre in sede di esame: a fronte di esplicita richiesta di ammissione del proprio esame, formulata dapprima con la richiesta di prova e ribadita in sede dibattimentale, la Sezione disciplinare ha omesso di pronunciarsi sull’istanza istruttoria senza nulla motivare, neppure in sentenza.
Pertanto, quanto sopra premesso, si formula i seguenti

QUESITI DI DIRITTO
1°) Dica l’Ecc.ma Corte se – in una fattispecie in cui il Presidente di un Tribunale, dopo aver affermato la perdurante vigenza della circolare fascista che impone l’ostensione dei crocifissi nelle aule giudiziarie, disponga la rimozione del crocifisso da una sola aula per soddisfare la pretesa di un magistrato di rimozione di tutti i crocifissi- incorra nella violazione degli articoli 4 e 5 della legge 20.3.1865 n. 2248 e degli articoli 3, 97 e 113 della Costituzione, la sentenza della sezione disciplinare del CSM la quale affermi che tale rimedio era valido e conforme a legge, mentre le suddette disposizioni di legge debbono essere correttamente interpretate nel senso che la disapplicazione degli atti amministrativi generali può essere disposta in via necessariamente generale solo dal giudice nel corso di un giudizio e solo se lo stesso accerti che l’atto amministrativo lede un diritto, e non da giudici al di fuori di un giudizio e allo scopo di derogare e violare, per un caso singolo, la cogenza di atti amministrativi generali ritenuti conformi a legge, sicché deve ritenersi legittimo e giustificato il rifiuto di un magistrato di accettare la proposta di essere confinato in un’aula allestita senza crocifisso, in deliberata violazione di una circolare ritenuta tuttora vigente.
2°) Dica l’Ecc.ma Corte se – in una fattispecie in cui il Presidente di un Tribunale, allo scopo di soddisfare le pretese di un magistrato che si è rifiutato di tenere le udienze perché l’esposizione generalizzata dei crocifissi lede la sua prerogativa di rispetto del principio supremo di laicità ed i suoi diritti inviolabili di libertà e di eguaglianza religiosa, allestisca un’aula senza crocifisso e gli imponga di tenervi le udienze, vietandogli di esporre i suoi simboli sia in quella che nelle altre aule- incorra nella violazione degli art. 3 della Costituzione, dell’art. 14 della L. 4.8.1955 n. 848, dell’art. 2 del D. Lgs. 9 luglio 2003 n. 216, dell’art. 3 della L. 654/1975, dell’art. 43 del D. L.vo n. 286/1998, degli articoli 1, 4, 5, 6, 7 ed 8 della Legge 28.8.1997 n. 302, dell’art. 2, parte I^, della L. 8.3.1989 n. 101, e degli articoli 2 della Costituzione e negli articoli 1, 9, 13 e 17 della Convenzione sui diritti dell'uomo (L. n. 848/1955), degli artt. 52 e 54 C.P., 2044 e 2045 cod. civ., la sentenza della sezione disciplinare del CSM che condanni il magistrato sull’assunto che il rimedio era idoneo a garantirgli la prestazione del servizio in condizioni di piena legittimazione anche sociale, escludendo qualsiasi nesso tra la persistenza del rifiuto e la circostanza che nelle altre aule del tribunale e nelle aule degli altri tribunali italiani fosse esposto il crocifisso, mentre le suddette disposizioni di legge debbono essere correttamente interpretate nel senso che la presenza del crocifisso cattolico in ogni aula di udienza, indipendentemente da quella destinata al magistrato, ed il contestuale divieto di esporre altri simboli costituiscono giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di magistrato, in quanto per un verso determinano un conflitto interiore tra il dovere civile di svolgere un ufficio pubblico e il diritto a rivendicare il rispetto del principio di laicità dello Stato e di libertà di coscienza garantito dalla Costituzione a ciascun individuo, per altro verso determinano una discriminazione diretta del dipendente, che viene trattato meno favorevolmente di quanto lo siano i dipendenti di fede cattolica, subendo dunque la lesione del diritto inviolabile di eguaglianza e non discriminazione religiosa e, infine, determinano, a cagione del confino del magistrato in un’aula speciale, diversa dalle altre addobbate con crocifissi, la lesione del diritto di libertà religiosa, che non implica soltanto il diritto di manifestare i propri convincimenti religiosi ma anche quello, negativo, di non essere costretti a manifestarli in modo diretto o indiretto e di non essere obbligati ad agire in un modo tale che si possa trarre la conclusione che si ha -o non si ha- tali convincimenti, sicché la relegazione del dipendente in un’aula speciale, motivata dall’adesione dello stesso ad una fede religiosa diversa da quella ostentata e propagandata dallo Stato, comporta un’inevitabile pubblicizzazione dei convincimenti religiosi del dipendente, che si profila incompatibile con l’obbligo delle autorità statali di astenersi dall’intervenire nel dominio della libertà di coscienza dell'individuo e di non costringerlo a manifestare le personali convinzioni circa la divinità, in particolar modo nel caso -ricorrente nella fattispecie- in cui una persona è obbligata ad agire in questo modo al fine di svolgere funzioni pubbliche che rientrano nel rapporto di pubblico impiego.

OTTAVO MOTIVO
Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della L. 24.11.1981 n. 689 e dell’art. 5 Cod. pen. - Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su fatti controversi e decisivi (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.).
Nel rifiutarsi di tenere le udienze a causa dell’imposizione dei crocifissi il dr. Tosti si è pienamente adeguato alla regola juris sancita dalla Corte di Cassazione penale nella sentenza 1.3.2000 n. 4273. Il ricorrente ritiene che chi si conforma ai principi sanciti dalla Cassazione è come se si conformasse alla LEGGE nella interpretazione autentica datane dal Supremo Giudice di legittimità e che, pertanto, la condanna che gli è stata inflitta per comportamenti che sono pienamente conformi a quelli giudicati dalla Cassazione confligge non soltanto con le leggi violate, ma anche col principio di affidamento e di certezza del diritto (art. 5 C.P., sent. C. Cost. n. 364/1988), salvo che il giudice non giustifichi “perché” ha ritenuto di dissentire dall’invocata pronuncia della Cassazione o “perché” la fattispecie già decisa diverga da quella oggetto del suo esame.
Nel caso di specie la Sezione disciplinare del CSM ha omesso di spendere una sola sillaba per spiegare “perché mai” i principi sanciti dalla Cassazione nella sentenza Montagnana non si applichino al “caso” del dr. Tosti. La lacuna è ovviamente grave, anche perché i giudici della precedente Sezione disciplinare si erano invece doverosamente pronunciati sul punto, affermando che la “vicenda processuale del Tosti si connota, rispetto al caso oggetto della sentenza della Cassazione del 1° marzo 2000, Montagnana, sia per il fatto che l’adempimento dei doveri funzionali deriva da un rapporto d’impiego volontariamente instaurato e altrettanto volontariamente mantenuto in vigore, sia per la circostanza che la stessa legge, a differenza di quanto si verifica nella specie, prevedeva anche la possibilità di non assumere l’ufficio di scrutatore in presenza di un “giustificato motivo”, consentendo in tal modo il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti.”
Orbene, come sopra visto queste motivazioni della Sezione disc. si profilano del tutto infondate e, anzi, foriere di conseguenze grottesche e incostituzionali, sicché la “nuova” Sezione disciplinare del CSM doveva fornire adeguata risposta per confutare tutte le puntuali obiezioni che il dr. Tosti ha esposto nelle sue “memorie difensive”.
Il CSM ha preferito “sorvolare” perché, evidentemente, non era in grado di superare le obiezioni dell’incolpato. Il ricorrente ritiene che questo modus operandi forse non sia del tutto corretto, perché “rimuovere” da un pubblico impiego una persona che, invece, dovrebbe essere assolta e “reintegrata” nel servizio in base a principi sanciti dalla Corte di Cassazione, non è propriamente la stessa cosa.
Ora, i giudici della “nuova” Sezione disciplinare non erano sicuramente obbligati a ricalcare le “due” motivazioni che, ad avviso dei precedenti giudici, rendevano inapplicabili i principi sanciti dalla Corte di Cassazione: al limite avrebbero potuto ad esempio condividere la motivazione che il Presidente del Tribunale di Camerino ha esternato al dr. Tosti (leggasi lettera 18.10.2005 del dr. Tosti, doc. n. 29 del sottofascicolo “A” dell’incolpato), e cioè che “quella sentenza era poco attendibile perché scritta da una donna”, ma dovevano però dirlo chiaramente, perché il ricorrente avanzerebbe oggi ragionevoli dubbi sul fatto che le sentenze della Cassazione siano “attendibili” soltanto se scritte da magistrati di sesso maschile (nel qual caso sarebbe opportuno allertare i cittadini, scrivendo le sentenze delle donne con inchiostro rosa) e, poi, farebbe anche notare che l’estensore di quella tanto “ostica” sentenza non fu la relatrice dr. Luisa Bianchi, ma il dr. Nicola Colaianni.
E allora? Quali sono, di grazia, i motivi per i quali i principi della sentenza Montagnana non si applicano al caso del dr. Tosti? Si tratta forse di principi caduti in prescrizione? Oppure si vuole seguitare a sostenere che il rapporto di impiego del dr. Tosti è un rapporto “volontario” -a differenza di quello “obbligatorio” del Montagnana- e che, dunque, se non gli aggradava subire lo scempio dei suoi diritti e delle sue prerogative, aveva la “possibilità” di.... dimettersi dalla magistratura? Se si ha ancora il coraggio di sostenere questa “tesi”, la si scriva, perché il dr. Tosti la sottoporrà poi al vaglio dei Giudici della CEDH.
Oppure si vuol ancora sostenere -come sostenuto anche dai giudici della Corte di Appello dell’Aquila- che il diritto di libertà di coscienza può essere esercitato solo se c’è una legge che contempla la “clausola” del “giustificato motivo”. Se è così, lo si scriva, perché almeno il dr. Tosti avrà la possibilità di ribadire quello che ha scritto sopra, e cioè che questa non molto dotta motivazione è annichilita dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 117/1979 che, guarda caso, ha giustificato il “rifiuto” di un teste di giurare, ancorché non vi fosse alcuna “clausola” di legge che prevedesse il “giustificato motivo di rifiuto”, e che, inoltre, l’art. 17 della Convenzione sui diritti dell’uomo non consente minimamente alcuna restrizione dei diritti inviolabili superiore a quella ammessa dalla Convenzione, per cui sarebbe francamente grottesco sostenere che un magistrato non possa rifiutarsi di farsi (ad esempio) sodomizzare con la pera metallica in uso ai Tribunali della Santa Inquisizione perché......non esiste una “clausola” di “giustificato motivo di rifiuto”!!! Suvvia....
Parte ricorrente ritiene, pertanto, che fosse doveroso applicare i principi che la Corte di Cassazione penale ha sancito nella tanto “odiata” sentenza Montagnana, anche perché l’attuale art. 360 bis del c.p.c. dispone l’inammissibilità dei ricorsi per cassazione quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per discostarsene, lasciando dunque supporre, con argomentazione a contrario, che anche i giudici, quando decidono in difformità delle sentenze della Cassazione, abbiano l’obbligo di fornire una più che adeguata motivazione.
Ebbene, nel caso di specie la nuova sezione, nonostante sia stata sollecitata con le memorie difensive del Tosti, ha omesso di spendere una sola parola per spiegare perché mai i principi giuridici della sentenza Montagnana non siano stati applicati al Tosti nonostante la sostanziale identità delle due fattispecie. Sussiste dunque anche omessa motivazione (360 n. 5 c.p.c.) sul fatto che il comportamento di rifiuto del dr. Tosti fosse legittimo perché conforme a sentenza della Corte di Cassazione e, in ogni caso, scusabile perché conforme alla legge così come interpretata dalla Cassazione. E, in effetti, le motivazioni della sentenza Montagnana si adattano perfettamente al “caso” del dr. Tosti, sicché delle due l’una: o il dr. Tosti va assolto perché i principi sanciti dalla Cassazione si debbono applicare anche a lui, oppure si deve spiegare “perché” i casi differiscano e “perché”, poi, non ricorra un’ipotesi di errore scusabile (art. 5 C.P. e 3 L. 689/1981).
Il vizio motivazionale discende anche dalla circostanza che il CSM, dopo aver premesso a pag. 14 che la questione generale relativa alla legittimità dei crocifissi doveva essere richiamata ai fini della valutazione dell’elemento psicologico, ha poi riportato (e condiviso) i brani dell’ordinanza di sospensione che avallavano appieno le tesi dell’incolpato: dunque, di tale elemento favorevole il CSM avrebbe poi dovuto tener conto in sede di decisione finale.
Invece no: questo non è affatto avvenuto e, anzi, nel valutare la responsabilità disciplinare dell’incolpato la Sez. disciplinare ha completamente obliterato questa circostanza “favorevole” (e cioè che le pretese del Tosti erano giuridicamente fondate), sicché sussiste una palese contraddittorietà della motivazione (art. 360 n. 5). Trattasi di circostanza di fatto decisiva perché, una volta che aveva accertato che le pretese di rimozione del crocifisso erano fondate e che il comportamento del Tosti era pienamente conforme al comportamento di rifiuto dello scrutatore di seggio scrutinato dalla Cass. penale nella sent. n. 4273/2000, la Sezione disciplinare avrebbe dovuto assolvere l’incolpato, oppure avrebbe dovuto fornire congrua ed adeguata motivazione del “perché” i principi affermati dalla Cassazione venivano disattesi o, in ogni caso, del “perché” si dovesse escludere che l’incolpato avesse agito in piena buona fede, facendo cioè affidamento sulla pronuncia della Cassazione.
E sul fatto che i principi giuridici affermati dalla Cassazione nella sentenza Montagnana si attaglino alla perfezione al “caso” Tosti non possono esservi soverchi dubbi. Adattando infatti i brani salienti di questa pronuncia al “caso” del dr. Tosti, si ricava questa significativa e risolutiva motivazione:
“Il contenuto dell'ufficio di giudice consiste solo indirettamente nei compiti o nelle prestazioni ad esso connessi, ma direttamente ed immediatamente nella funzione di pubblico ufficiale che con la nomina egli viene ad assumere. Una volta designato, infatti, il giudice svolge una pubblica funzione, un'attività, cioè, che è diretta manifestazione di pubbliche potestà o - in senso enfatico - dell'autorità dello Stato per la presenza dei poteri tipici della potestà giurisdizionale, come indicati dal secondo comma dell'art. 357 cod. proc. pen. novellato dalle leggi n. 86 del 1990 e n. 181 del 1992 (cfr. Cass. sez. un. 24-09-1998, n. 10086, ced 211190). Il contenuto dell'ufficio di giudice è, quindi, quello di formare e manifestare la volontà dell’ amministrazione della Giustizia (Cass. sez. un. 27-03-1992, n. 7958, ced. 191173): e, quindi, innanzitutto la “inserzione nell'ufficio” (Cass. 5-5-1992, n. 5332, ced 189972).
È in relazione a questo immediato contenuto dell'ufficio di giudice che va quindi valutata l'esistenza del rapporto di causalità immediata con il motivo del rifiuto: ed essa, se pur dubbia o non appariscente in relazione ai singoli compiti assegnati al giudice, riemerge allora con immediatezza. Infatti, il dott. Tosti ha rifiutato di “svolgere la funzione di giudice”, piuttosto che i compiti ad essa connessi, e cioè l'inserzione come pubblico ufficiale in una amministrazione della Giustizia che, non provvedendo “affinché venga rimosso qualsiasi simbolo o immagine religiosa da tutte le aule di giustizia”, non garantisce, contro il suo convincimento, “il rispetto della irrinunciabile libertà di coscienza garantita dalla Costituzione a ciascun cittadino” e del “supremo principio costituzionale della laicità dello Stato”.
4. - L'immediatezza, e non la strumentalità, del rapporto tra il rifiuto motivato ed il contenuto dell'ufficio di giudice scaturisce dalla portata dell'invocato principio di laicità dello Stato, che con quel contenuto ha in comune la nota dell'imparzialità del giudice (art. 111 Cost.), in funzione della quale vanno organizzate le aule di giustizia, in cui il giudice è inserito, in particolare per garantire sotto i molteplici aspetti formali previsti dalla legge la libera formulazione del giudizio.
Il principio indicato implica un “regime di pluralismo confessionale e culturale” (corte cost. 12.4.1989, n. 203) e presuppone, quindi, innanzitutto l'esistenza di una pluralità di sistemi di senso o di valore, di scelte personali riferibili allo spirito o al pensiero, che sono dotati di pari dignità e, si potrebbe dire, nobiltà. Ne consegue una pari tutela della libertà di religione e di quella di convinzione, comunque orientata: infatti, anche “la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici” è garantita in connessione con la tutela della “sfera intima della coscienza individuale” (corte cost. 19.12.1991, n. 467), conformemente all'interpretazione dell'art. 19 Cost (che tutela la libertà di religione, non solo positiva ma - come riconosciuto dalla corte fin dalla sentenza 10.10.1979, n. 117, e ribadito da quella 8.10.1996, n. 334 - anche negativa: vale a dire, anche la professione di ateismo o di agnosticismo) e all'art. 9 della convenzione europea dei diritti dell'uomo, resa esecutiva con l. 4.8.1955, n. 848 (che tutela la libertà di manifestare “la propria religione o il proprio credo”).
Il detto principio, inoltre, si pone come condizione e limite del pluralismo, nel senso di garantire che le aule di giustizia deputate al conflitto tra i sistemi indicati siano neutrali e tali permangano nel tempo: impedendo, cioè, che il sistema contingentemente affermatosi getti le basi per escludere definitivamente gli altri sistemi......
6. - La rimozione del simbolo religioso del crocifisso da ogni aula di giustizia, che è la condizione a cui il dott. Luigi Tosti aveva subordinato l'espletamento della funzione di giudice = pubblico ufficiale imparziale, si muove lungo questo solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale in termini di laicità e pluralismo, reciprocamente implicantisi........
In particolare, l'imparzialità della funzione del giudice-pubblico ufficiale è strettamente correlata alla neutralità (altro aspetto della laicità, evocato sempre in materia religiosa da corte cost. 15.7.1997, n. 235) delle aule di giustizia deputate alla formazione dei processi decisionali nelle cause civili e penali, che non sopporta esclusivismi e condizionamenti sia pure indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del contenuto di fede, che ogni immagine religiosa simboleggia..........
Anche per tal via, quindi, si conferma l'immediatezza del rapporto tra motivo del rifiuto e contenuto dell'ufficio imposto. Ma se ne ricava pure l'attuabilità della condizione posta dal dr. Tosti, non impossibile in quanto non estranea agli ordinari poteri del Ministro di Giustizia perché richiedente, per esempio, solo un intervento legislativo. Il crocifisso, infatti, è ricompreso tra gli arredi delle aule giudiziarie in virtù di una circolare ministeriale del 1926 che, peraltro, deve ritenersi caducata e, comunque, modificabile e revocabile dal Ministro.
Sta di fatto, tuttavia, che la condizione apposta dal dott. Tosti non si è verificata e che egli ne ha tratto motivo per non ritenere garantito il principio di laicità dello stato e quindi - con un rapporto tra causa ed effetto - di imparzialità della propria funzione di giudice, inducendolo ad un'azione di rifiuto adeguata a tali principi costituzionali.........
Ora la libertà di coscienza, prospettata per dir così a tutto tondo, non è divisibile in modo da ritenerla esercitabile solo se riguardi l’aula utilizzata dall'agente come giudice e non la totalità delle aule e cioè l'intera amministrazione della Giustizia........... Ogni violazione del principio di laicità nel modo indicato in qualsivoglia aula giudiziaria non può non essere avvertita da una coscienza informata a quel principio come violazione di quel bene nella sua interezza, indipendentemente dal luogo in cui si verifichi, cosicché non è possibile attribuire rilevanza al fatto che casualmente la violazione non si verifichi nell’aula di destinazione.
Costituisce, pertanto, giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di giudice la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo di laicità dello Stato e l'adempimento dell'incarico a causa dell'organizzazione della Giustizia in relazione alla presenza obbligatoria nelle aule giudiziarie, pur se casualmente non in quella di specifica destinazione, del crocifisso o di altre immagini religiose.”
NONO MOTIVO
· Nullità della sentenza per violazione dell’art. 34 R.D.L. n. 511/1946 e dell’art. 477 vecchio c.p.p. (corrispondente agli artt. 521 e 522 nuovo c.p.p.), cioè per vizio di extrapetizione (art. 360 n. 4 in relazione all’art. 112 C.P.C.)
· Nullità della sentenza per omessa pronuncia (360 n. 4 c.p.c. in riferimento all’art. 112) - Omessa motivazione (360 c.p.c., n. 5) - Violazione e falsa applicazione degli articoli 20 D.l.vo 23.2.2006 n. 109, 29 R.D. 31.5.1946 n. 511, 2909 c.c. e 324 c.p.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.)
· Violazione e falsa applicazione degli articoli 1324, 1334 e 1335 codice civile e motivazione contraddittoria (art. 360 n. 3 e n. 5 C.P.C.)
· Violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c - Omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione e violazione degli artt. 24, 111 Cost. e 6 della Convenzione sui diritti dell’uomo ratificata con legge 848/1955 (art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c.).

(1) Con provvedimento del 22.9.2009 il Sost. Proc.Generale ha riformulato l’addebito incolpando il Tosti di essersi astenuto dalla trattazione di 19 udienze “con dichiarazioni di “rifiuto” di tenere l’udienza manifestata nello stesso giorno o nell’immediata prossimità, così determinando la necessità delle relative sostituzioni, grave perturbamento dell’attività di ufficio ed estrema difficoltà del prosieguo dell’attività giurisdizionale per i procedimenti a lui affidati....”.
(2) Il dr. Tosti ha respinto questa nuova incolpazione con memoria del 18.11.2009, asserendo che la volontà di astenersi dalle udienze egli l’aveva manifestata SOLO con la lettera-ultimatum del 1°.5.2005 e che il dr. Alocchi aveva nominato i suoi sostituti SOLO in seguito a tale dichiarazione, come risultava peraltro accertato dal giudicato penale, che precludeva dunque questa “nuova” incolpazione. Ha rappresentato che le “comunicazioni di rifiuto”, menzionate dall’incolpante, non erano “dichiarazioni di volontà”, cioè propositi di volersi astenere per il futuro, bensì delle “comunicazioni di scienza” che avevano lo scopo di far attestare che egli era presente in ufficio in occasione delle udienze calendarizzate, pronto a riprendere la trattazione delle cause se nel frattempo fossero stati rimossi i crocifissi o fosse stato autorizzato ad esporre i propri simboli. Dopo aver evidenziato i riscontri documentali che dimostravano la verità del suo assunto, il dr. Tosti chiedeva comunque che venisse escusso “il Presidente dr. Aldo Alocchi .... perché confermasse come fosse vero che aveva ricevuto la lettera ultimatum del 1° maggio 2005 e, dunque, aveva provveduto a tutte le sue sostituzioni indipendentemente dalle “dichiarazioni di rifiuto” a sua firma che, oltre tutto, gli venivano comunicate dalla Cancelleria sovente con giorni di ritardo”.
(3) Il Sost. Proc. Generale ha omesso di esaudire le richieste istruttorie ed ha chiesto l’immediato rinvio a giudizio.
Con memoria del 16.1.2010 (in atti) il dr. Tosti ha ribadito l’eccezione di giudicato.
[Ai fini dell’autosufficienza del ricorso si riportano i brani salienti delle memorie 18.11.2009 e 22.1.2010 inserite nel fascicolo d’ufficio:
Dalla memoria 18.11.2009: “il Sost. Proc. Gen. dr. Eduardo Scardaccione.... ha modificato l’...incolpazione ....asserendo che “le (mie) dichiarazioni di “rifiuto” di tenere l’udienza (sono state) manifestate nello stesso giorno o nell’immediata prossimità, così determinando la necessità delle relative sostituzioni, grave perturbamento dell’attività di ufficio ed estrema difficoltà del proseguimento dell’attività giurisdizionale”.
Il che, tradotto in termini espliciti, significa che si vuol far affermare, da un qualche giudice, che il “povero” Presidente dr. Aldo Alocchi AVREBBE APPRESO DELLA MIA INTENZIONE DI RIFIUTARMI DI TENERE L’UDIENZA DEL 9 MAGGIO 2005 solo il giorno 9 maggio, e che COSI’ SAREBBE AVVENUTO POI PER TUTTE LE SUCCESSIVE UDIENZE, DAL MOMENTO CHE IL MIO CAPO UFFICIO AVREBBE APPRESO LA MIA INTENZIONE DI NON TENERE LE UDIENZE SOLO ALL’ULTIMO MOMENTO, CIOE’ LEGGENDO LE MIE “DICHIARAZIONI DI RIFIUTO”, “MANIFESTATE LO STESSO GIORNO DELL’UDIENZA O NELL’IMMEDIATA PROSSIMITA’”.
Si vuol dunque sostenere che il dr. Alocchi sarebbe stato costretto, in fretta e furia, a provvedere alla mia estemporanea, improvvisa, imprevista, imprevedibile e improvvida défaillance, con grave perturbamento dell’attività giurisdizionale...
Ma non esiste, agli atti, la lettera del 1° maggio 2005 dove preannuncio, con larghissimo anticipo, che mi rifiuterò di tenere le udienza “dal 9 maggio in poi”?...... questi rifiuti sono stati da me preannunciati nella lettera ultimatum del 1° maggio 2005, nella quale ho espressamente dichiarato che mi sarei astenuto dal 9 maggio in poi dal tenere le udienze se non fosse stata accolta una delle due mie richieste, con espresso invito a provvedere alla mia sostituzione per garantire il servizio..... risulta da una “tonnellata” di documenti che il Presidente dr. Aldo Alocchi provvide ad emanare sin dal 20 maggio 2005 delle ordinanze con le quali, dopo aver dato atto del mio rifiuto ad oltranza, provvedeva a che venissi permanentemente sostituito da altri magistrati per TUTTE LE FUTURE udienze... io non ero neppure tenuto a rendere queste “dichiarazioni di rifiuto”, dal momento che avevo già preannunciato nella lettera del 1° maggio che mi sarei rifiutato di tenere le udienze dal 9 maggio in poi, sicché era onere del Presidente provvedere (come in effetti ha fatto) alla mia sostituzione, né più né meno di quanto avrebbe dovuto fare nell’ipotesi in cui mi fossi dovuto assentare per malattia o per altra causa.........agli atti vi è anche la richiesta del Dr. Alocchi, indirizzata al Presidente della Corte dorica, con la quale ha caldeggiato l’applicazione di altro magistrato per sopperire alla mia sostituzione... E non posso neppure esimermi dall’evidenziare che NESSUNO dei provvedimenti con i quali il dr. Alocchi ha disposto la mia sostituzione scaturisce, in realtà, dalle mie “dichiarazioni di rifiuto”: in realtà, come acclarato dal giudicato penale, il dr. Alocchi ha provveduto a disporre la mia sostituzione in via preventiva e con provvedimenti autonomi e svincolati dalle mie “dichiarazioni di rifiuto”, al punto tale che per poter tenere “quelle” udienze sarebbe stato necessario un provvedimento di “revoca” da parte dello stesso Presidente. Il che evidenzia che lo scopo delle mie “dichiarazioni di rifiuto” non era quello di “informare” il Capo Ufficio di una mia “improvvisa” e inconsulta “defaillance”, ma quello di far attestare che io, quei giorni, ero regolarmente presente in ufficio (e non a trastullarmi a casa) e che ero disposto a riprendere la trattazione delle udienze, se solo fosse stata accolta una delle due mie richieste.
Dalla memoria difensiva del 22.1.2010:
“In terzo luogo eccepisco l’improponibilità........... del procedimento disciplinare..... perché... mi sarei rifiutato di tenere le udienze con “dichiarazioni di rifiuto” rese sovente nello stesso giorno di trattazione, così determinando la necessità di immediate sostituzioni”.
Questa incolpazione..............risulta espressamente esclusa, nella sua fattualità, dal giudicato penale che si è formato sul punto. Come si legge a pag 7 della sent. 28.482/2009 della Cassazione, infatti, dal “dato fattuale accertato in sede di merito (risulta che) il giudice Tosti, dopo aver vista disattesa la sua richiesta di rimozione del crocifisso dalle aule, aveva preannunciato la sua decisione di astenersi dalle udienze, cosa che in concreto aveva fatto nell’arco temporale indicato nel capo d’imputazione; il presidente del Tribunale di Camerino, però, informato TEMPESTIVAMENTE della scelta del Tosti, aveva provveduto a sostituirlo con altri magistrati, che si erano alternati nella trattazione dei processi fissati nelle udienze che avrebbe dovuto tenere il medesimo Tosti, sicché l’attività giudiziaria si era ugualmente svolta.”]

(4) Ricevuta la notifica del decreto di rinvio a giudizio, il dr. Luigi Tosti ha presentato la propria lista testi con la quale ha chiesto di interrogare il Presidente dr. Aldo ALOCCHI anche sulle circostanze formulate nella memoria del 18.11.2009, e cioè (punto n. “4”) “sugli imput in base ai quali aveva provveduto a deliberare la sua sostituzione per le udienze non tenute”.
Con la medesima richiesta il dr. Tosti estendeva la richiesta di audizione, sulle medesime circostanze, ad altri due testi, così testualmente esprimendosi: “Avendo la Procura Generale “modificato” l’incolpazione -nel senso (almeno così sembra) che mi sarei reso responsabile di aver “preannunciato i miei singoli rifiuti solo all’ultimo momento”- pur ribadendo che questa “incolpazione” integra un’IMMANE MENZOGNA, che è smentita dalla documentazione già acquisita e che confligge col giudicato penale che si è formato su questo punto, mi vedo costretto a chiedere, in via cautelare e lasciando al Presidente l’opportunità si soprassedere su questa mia richiesta, la citazione dei seguenti ulteriori due testi: 1°) “Lucia BONACUCINA, cancelliere in servizio presso l’Ufficio GIP del Tribunale di Camerino, che deporrà (1) sulla circostanza che la Cancelleria era ben a conoscenza della mia volontà di rifiutarmi, dal 9 maggio 2005 in poi, di tenere le udienze nell’aula GIP/GUP e che, pertanto, la necessità di designare il mio sostituto non scaturiva dalle mie “dichiarazioni di astensione”, bensì era la stessa Cancelleria che, di suo impulso e tempestivamente, segnalava al Presidente dr. Aldo Alocchi la necessità di sottoscrivere il decreto di sostituzione col collega tabellarmente deputato alla mia supplenza GIP (Dr. Domenico Potetti), nonché (2) sulla circostanza che il mio rifiuto era limitato alla tenute delle udienze come GIP titolare (ed eventualmente come GUP supplente) e che svolgevo dunque tutte le residue mansioni (archiviazioni, rogatorie, intercettazioni, interrogatori arrestati etc.etc.); 2°)Daniela BONDONI, cancelliere in servizio presso l’Ufficio GIP del Tribunale di Camerino, che deporrà sulle medesime circostanze della teste Lucia Bonacucina.”
(5) Tale richiesta veniva respinta dal Presidente del CSM con decreto 18.1.2010 con la seguente motivazione: “Vista la nota nella quale il Relatore designato “esprime parere contrario alla ammissione dei testi, essendo tutti i fatti già oggetto di accertamento in sede penale....”.
LA DECISIONE DELLA SEZIONE DISCIPLINARE DEL CSM
La Sezione disciplinare del CSM si è pronunciata su questo “punto controverso” in questo modo:
“Nella sua difesa il dott. Tosti ha rilevato una contraddizione tra il preannuncio di una irremovibile astensione dalle udienze fino all’accoglimento delle proprie richieste con la contestazione relativa al disservizio determinato dalla tardiva comunicazione della singola astensione. Tale contraddizione non sussiste poiché, in assenza di un legittimo impedimento a tenere le udienze, ed alla luce dei reiterati inviti diretti a richiamarlo ai propri doveri, la sostituzione per una pluralità di udienze con altro collega o con lo stesso Presidente necessitava di volta in volta di una verifica e di una conferma. Proprio per la illegittimità del rifiuto, se il dr. Tosti avesse in qualunque momento desistito dai propri propositi, si sarebbe ripristinata la regolarità della precedente calendarizzazione. Correttamente il Presidente del Tribunale ha perciò perlopiù disposto le sostituzioni di volta in volta, e lo stesso giorno in cui l’udienza era fissata, provvedendo al passaggio del ruolo civile del dr. Tosti al dott. Mario Tanferna, con variazione tabellare, solo in occasione della immissione del secondo nell’ufficio di Camerino e quindi in mancanza di un ruolo pregresso a lui assegnato. Risulta dagli atti che più di una volta il Presidente Alocchi ha ricevuto una comunicazione dell’ effettiva astensione rinvenendo la dichiarazione sulla sua scrivania nella stessa mattinata dell’udienza (v. ad esempio le annotazioni sulla dichiarazione di astensione -con le quali peraltro il dr. Tosti comunica di essersi astenuto e non che “si asterrà”- dell’11 e 13 maggio”) con conseguente inevitabile danno per l’attività complessiva d’ufficio”.
I RILIEVI DEL RICORRENTE
Il ricorrente censura questa “motivazione” perché:
1. travisa l’eccezione sollevata dall’incolpato e modifica l’incolpazione mossagli dal Sost. Proc. Generale della Cassazione;
2. omette di esaminare e decidere l’eccezione preliminare di giudicato;
3. qualifica le “comunicazioni” dell’incolpato come dichiarazioni di “volersi astenere” dalla trattazione dell’udienza calendarizzata, in spregio ai canoni ermeneutici ed alle risultanze processuali che dimostrano, con assoluta certezza, trattarsi di mere dichiarazioni di scienza;
4. asserisce che il Presidente Alocchi fu indotto a disporre la sostituzione del Tosti in seguito alle “comunicazioni”, in contrasto con le risultanze processuali acquisite e con la prova per testi non ammessa, che dimostrano in modo inconfutabile che il dr. Alocchi provvide ad emanare i decreti di sostituzione prescindendo totalmente da esse e addirittura prima che il Tosti le depositasse;
5. afferma FALSAMENTE che “il Presidente del Tribunale ha disposto le sostituzioni di volta in volta, e lo stesso giorno in cui l’udienza era fissata e che ha provveduto al passaggio del ruolo civile del dr. Tosti al dott. Mario Tanferna, con variazione tabellare, solo in occasione della immissione del secondo nell’ufficio di Camerino”;
6. accolla sull’incolpato l’ “obbligo” di “confermare”, in occasione delle singole udienze calendarizzate, la volontà di astensione già manifestata nella precedente dichiarazione unilaterale recettizia del 1.5.2005, in spregio al disposto degli artt. 1324, 1334, 1335, 1328 e 1565 coc.civile.

ESPOSIZIONE ANALITICA DEI MOTIVI
1°) Nullità della sentenza per violazione dell’art. 34 R.D.L. n. 511/1946 e dell’art. 477 vecchio c.p.p. (corrispondente agli artt. 521 e 522 nuovo c.p.p.), cioè per vizio di extrapetizione (art. 360 n. 4 in relazione all’art. 112 C.P.C.).
Il dr. Tosti, dopo aver ricevuto la comunicazione della “nuova” incolpazione formulata il 22.8.2009, cioè quella di essersi astenuto con “dichiarazione di “rifiuto” di tenere l’udienza manifestata nello stesso giorno o nell’immediata prossimità, così determinando la necessità delle relative sostituzioni”, ne ha eccepito la CICLOPICA FALSITA’, affermando di aver manifestato la volontà di rifiuto SOLO con la lettera ultimatum del 1°.5.2005 -quindi con larghissimo anticipo- e giammai con le “comunicazioni di rifiuto” in atti, che erano semplici comunicazioni di scienza e non “dichiarazioni di volontà” (di rifiutarsi”). Il CSM ha deliberatamente travisato l’eccezione del Tosti, affermando che questi avrebbe eccepito “una contraddizione” tra la dichiarazione di astensione manifestata con la lettera del 1.5.2005 (“preannuncio di una irremovibile astensione dalle udienze fino all’accoglimento delle proprie richieste”) e “la contestazione relativa al disservizio determinato dalla tardiva comunicazione della singola astensione”. Dopo averla travisata, ha asserito che la “contraddizione” non sussisteva perché il dr. Alocchi, per poter disporre la sostituzione del Tosti con altro magistrato, aveva bisogno di una “verifica” e di una “conferma” della persistente volontà del Tosti di astenersi dalle singole udienze calendarizzate, sicché il dr. Tosti (così sembra di capire) aveva l’ “onere” di presentare “quelle” “dichiarazioni” tempestivamente, e non nella stessa mattinata dell’udienza.
Questa statuizione viola, in primis, l’obbligo della correlazione fra incolpazione e sentenza (art. 477 vecchio c.p.p., 521 e 522 nuovo C.P.P.) perché l’incolpazione effettivamente mossa al Tosti non gli imputa di essere venuto meno alla cervellotica “cautela” di “reiterare”, in occasione di ciascuna delle udienze calendarizzate, la sua volontà di astensione -che aveva già manifestato in modo irrevocabile con la lettera del 1°.5.2005 e più volte ribadito- bensì di aver manifestato la volontà di astensione lo stesso giorno o in prossimità dell’udienza, così cagionando grave perturbamento dell’attività di ufficio ed estrema difficoltà del proseguimento dell’attività giurisdizionale. Dunque il CSM si sarebbe dovuto pronunciare sulla vera incolpazione, stabilendo: 1°) se le “comunicazioni di rifiuto” costituissero “dichiarazioni di volontà” -come sostenuto dall’incolpante- o mere comunicazioni di scienza -come sostenuto dall’incolpato; 2°) se i decreti di sostituzione del dr. Tosti con altri magistrati fossero stati emessi dal dr. Aldo Alocchi solo per effetto delle “comunicazioni” del dr. Tosti -come sostenuto dall’incolpante- oppure prescindendo del tutto da esse, come sostenuto dall’incolpato. Il CSM non si è affatto pronunciato su questi punti controversi ma, dopo averli elusi con l’escamotage del travisamento delle eccezioni dell’incolpato, si è pronunciato su di una incolpazione del tutto diversa, peraltro congetturata per la prima volta dal CSM nella sentenza: e cioè che il dr. Luigi Tosti, indipendentemente dalla irremovibile volontà di astenersi dalla trattazione delle udienze calendarizzate, già manifestata con la lettera del 1° maggio 2005, aveva comunque l’obbligo di reiterare di volta in volta le dichiarazioni di astensione e che, avendo soddisfatto questo “obbligo” lo stesso giorno o nei giorni immediatamente precedenti, aveva creato un disservizio.
2°) Nullità della sentenza per omessa pronuncia (360 n. 4 c.p.c. in riferimento all’art. 112 cpc) -Omessa motivazione - Violazione e falsa applicazione degli articoli 20 D.l.vo 23.2.2006 n. 109, 29 R.D. 31.5.1946 n. 511, 2909 c.c. e 324 c.p.c. (art. 360, n. 5 e 3, c.p.c.)
In secondo luogo la sezione disciplinare del CSM era tenuta a pronunciarsi (anche d’ufficio) sull’eccezione con la quale l’incolpato aveva obiettato che la nuova incolpazione di essersi astenuto dalla trattazione delle 19 udienze “con dichiarazioni di “rifiuto” di tenere l’udienza manifestata nello stesso giorno o nell’immediata prossimità” era preclusa dal giudicato penale formatosi in seguito alla sentenza assolutoria della Cassazione penale, acquisita in atti (art. 20 D.l.vo 23.2.2006 n. 109, art. 29 R.D. 31.5.1946 n. 511, art. 2909 c.c. ed art. 324 c.p.c.).
Il CSM non si è minimamente pronunciato su questa eccezione, sicché sussiste vizio di omessa pronuncia che inficia di nullità la sentenza, ex art. 112 c.p.c.
Il CSM ha peraltro affermato, a pag. 23 della sentenza, che “risulta dagli atti che più di una volta il Presidente Alocchi ha ricevuto una comunicazione dell’effettiva astensione rinvenendo la dichiarazione sulla sua scrivania nella stessa mattinata dell’udienza (v. ad esempio le annotazioni sulla dichiarazione di astensione -con le quali peraltro il dr. Tosti comunica di essersi astenuto e non che “si asterrà”- dell’11 e 13 maggio”) con conseguente inevitabile danno per l’attività complessiva d’ufficio”, accreditando dunque la tesi secondo cui la “tempestività” della nomina dei sostituti del Tosti dipendeva dalla “tempestività” delle “dichiarazioni di astensione” che egli “era tenuto” ad inoltrare al Presidente Alocchi per “confermare” il proposito di volersi astenere.
Questa ricostruzione dei fatti contrasta col giudicato penale, obliterando dunque circostanze di fatto che risultano acclarate dal giudicando (vizio di motivazione ex art. 360 n. 5cpc) e violando altresì gli articoli 20 D.l.vo 23.2.2006 n. 109, 29 R.D. 31.5.1946 n. 511, 2909 c.c. e 324 c.p.c. (360 n. 3 cpc).
L’art. 29 del R.D. 31.5.1946 n. 511 sancisce all’ultimo comma che “nel procedimento disciplinare fa sempre stato l’accertamento dei fatti che formarono oggetto del giudizio penale, risultanti dalla sentenza passata in giudicato”; l’omologo art. 20 del d.lgs n. 109/2006 sancisce che “ha autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione”. Gli articoli 2909 c.c. e 324 c.p.c. sanciscono che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti.
Ebbene, dalla lettura della sentenza della Corte di Cassazione risulta che la Corte aveva dato atto che il dr. Tosti aveva comunicato con la sua lettera del 1.5.2005 la ferma volontà di astenersi dalle udienze dal 9 maggio 2005 in poi e che, pertanto, il Presidente Alocchi lo aveva tempestivamente sostituito sia per l’udienza del 9 maggio che per tutte le successive udienze.
Così si è espressa, testualmente, la Corte a pag. 7 della sentenza: “La sollecitata verifica di legittimità del formulato giudizio di colpevolezza non può prescindere da un dato fattuale accertato in sede di merito: il giudice Tosti, dopo aver visto disattesa la sua richiesta di rimozione del crocifisso dalle aule, aveva preannunciato la sua decisione di astenersi dalle udienze, cosa che in concreto aveva fatto nell’arco temporale indicato nel capo d’imputazione; il Presidente del Tribunale di Camerino, però, INFORMATO TEMPESTIVAMENTE della scelta del Tosti, aveva provveduto a sostituirlo con altri magistrati, che si erano alternati nella trattazione dei processi fissati nelle udienze che avrebbe dovuto tenere il medesimo Tosti, sicché l’attività giudiziaria si era egualmente svolta”.
Analoghe attestazioni sono contenute nella sentenza del Tribunale dell’Aquila n. 134/2008, anch’essa acquisita nel fascicolo d’ufficio (pag.4-5): “dalla disamina degli atti processuali emerge che l’astensione dal tenere udienza fu attuata dal Tosti a far data dal 9.5.2005, dopo che.......aveva reiteratamente richiesto al Presidente del tribunale di Camerino ed al Ministro della Giustizia la rimozione dei crocifissi da tutte le aule giudiziarie d’Italia o, quanto meno, l’autorizzazione ad esporre -in modo continuativo- il simbolo della religione da lui professata, preannunciando più volte l’astensione dalle udienze fino all’ “ultimatum” inviato al Ministro della Giustizia in data 3.5.2005 col il quale chiedeva la rimozione dei crocifissi....o di esporre la menorà....A partire dal 9.5.20055 l’imputato dava attuazione alla preannunciata astensione dalle udienze, non recedendo da tale condotta neanche a seguito degli inviti scritti rivoltigli dal Presidente con nota del 26.5.2005.....e con successiva nota del 19.7.2005 con la quale....gli comunicava che era in corso l’allestimento di una nuova aula di udienza non arredata con il crocifisso.....inviti ai quali il Tosti replicava prontamente, evidenziando l’inidoneità delle soluzioni proposte....”
Dalla lettura di tali sentenze -che il CSM ha completamente obliterato- si deduce che in sede penale è stato accertato, in fatto, che il Presidente Alocchi ha ricevuto la comunicazione dell’effettiva volontà del Tosti di astenersi da TUTTE le udienze in data 3.5.2005 e che questa comunicazione è stata l’ UNICA CAUSA che ha indotto il Presidente di Camerino a provvedere a sostituire il Tosti con altri magistrati per TUTTE le udienze calendarizzate.
Pertanto, la pronuncia del CSM, secondo cui il Tosti aveva l’onere di “confermare” la sua volontà di rifiuto per ogni udienza calendarizzata -e cioè di “aggiungere” altre “cause” per indurre il Presidente Alocchi a sostituirlo di volta in volta- deve ritenersi del tutto incompatibile con il fatto, accertato in sede penale, che il Presidente dr. Alocchi provvide alle sostituzioni del dr. Tosti SOLO e SOLTANTO per effetto della SOLA lettera-ultimatum del 1.5.05 e non -come sostenuto dal CSM in sentenza- in seguito alle “comunicazioni di rifiuto” in atti che, oltre tutto, non sono delle “dichiarazioni del Tosti di volersi astenere” ma, come ci si accinge a dimostrare- “comunicazioni del Tosti di essersi già astenuto”, dunque del tutto inidonee a consentire al dr. Alocchi di provvedere alla sua sostituzione per l’udienza calendarizzata.
Si evidenzia che, come sancito dalle SS.UU. della Cass. civile con la sentenza n. 13.916 del 16.6.2006, “nel giudizio di cassazione, l'esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d'ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell'ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata. Si tratta infatti di un elemento che non può essere incluso nel fatto, in quanto, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è ad essi assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, e partecipando quindi della natura dei comandi giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in un giudizio di mero fatto. Il suo accertamento, pertanto, non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del "ne bis in idem", corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo, e consistente nell'eliminazione dell'incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione.” E’ dunque compito delle SS.UU. verificare se la statuizione contenuta nella sentenza impugnata sia incompatibile col giudicato formatosi nel giudizio penale.

3°) Violazione e falsa applicazione degli articoli 1324, 1334 e 1335 codice civile- Motivazione contraddittoria (art. 360 n. 3 e n. 5 C.P.C.).
Il CSM sostiene, in estrema sintesi, che pur avendo il dr. Tosti manifestato la sua irremovibile volontà di astenersi dalle udienze dal 3.5.2005, il Presidente del Tribunale aveva la necessità di “verificare” -ed il dr. Tosti di “confermare”- la volontà del magistrato di astenersi in occasione delle singole udienze calendarizzate perché, altrimenti, il dr. Alocchi non sarebbe stato in grado di nominare tempestivamente -cioè con un congruo anticipo- i sostituti del Tosti. Il motivo della necessità di questa “conferma” risiederebbe, ad avviso del CSM, nella circostanza che il Tosti non era legittimamente impedito a tenere le udienze (cioè impossibilitato per malattia, ferie od altro), sicché avrebbe potuto avere un “ripensamento” e decidere in ogni momento di “riprendere la trattazione” delle udienze.
Questa motivazione viola in primo luogo l’art. 1334 c.c., a mente del quale “gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati”. Da tale norma si deduce che la lettera-ultimatum del 1°.5.05, con la quale il dr. Tosti ha “dichiarato” il “proposito” di volersi astenere dalle udienze dal 9 maggio in poi, integra un “atto unilaterale” (per la precisione: una dichiarazione unilaterale recettizia) che ha prodotto i suoi effetti permanenti dal 3 maggio 2005 in poi, data in cui venne comunicata al Presidente del Tribunale.
Ora, è di lapalissiana evidenza che per poter caducare quegli effetti permanenti il dr. Tosti avrebbe dovuto comunicare al Presidente Alocchi un atto unilaterale recettizio diametralmente opposto, cioè la volontà di riprendere la trattazione delle udienze, e non -come grottescamente sostiene il CSM- “ribadire” in modo ossessivo la propria volontà di rifiuto in occasione di ciascuna delle udienze calendarizzate. L’aver preteso -come il CSM ha preteso- che il dr. Tosti “reiterasse”, in modo insensato ed ossessivo, le “dichiarazioni unilaterali di volersi astenere da ogni singola udienza (per le stesse identiche motivazioni già esposte nella missiva del 1° maggio 2005!) è contrario all’elementare principio di diritto -ben noto agli studenti della facoltà di giurisprudenza- secondo cui l’atto unilaterale recettizio produce i suoi effetti nel momento in cui viene portato a conoscenza del destinatario (articoli 1334 e 1335 c.c.), sicché per eliminarne gli effetti occorre un atto negoziale opposto, cioè la “revoca”, peraltro nei limiti ammessi dalla legge (tale è, ad esempio, il caso della revoca della proposta contrattuale, disciplinata dall’art. 1328 c.c.).
Se il dr. Tosti avesse tenuto il comportamento ossessivo preteso dal CSM, avrebbe probabilmente corso il rischio di essere sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio.
D’altro canto, se ad esempio un somministrante è costretto ad interrompere la somministrazione dopo aver dato “congruo preavviso” ai sensi dell’art. 1565 del codice civile -magari perché la controparte è inadempiente- sarebbe squisitamente assurdo pretendere che tale “congruo preavviso” debba essere “congruamente reiterato” dal somministrante in occasione delle singole future prestazioni periodiche o continuative: infatti, una volta manifestata la volontà di non voler più adempiere le somministrazioni con un “congruo preavviso”, non ha alcun senso imporre l’obbligo di ulteriori “preavvisi” in occasioni delle future singole somministrazioni, dal momento che si è già dichiarato di non voler effettuare se la controparte non avrà provveduto, nel frattempo, a sanare il suo inadempimento. Se si considera poi che le somministrazioni continuative (ad es. energia elettrica) avvengono, come dice la parola stessa, in modo continuativo -cioè senza soluzione di continuità- riesce francamente impossibile ipotizzare “come” l’obbligo giuridico di “reiterazione” del preavviso possa essere “soddisfatto”: forse notificando al somministrato altri “congrui preavvisi”, ogni secondo, per “fargli sapere” quello che già sa, e cioè che, se non si decide a pagare, la corrente ellettrica non gli sarà più erogata?
La sostanziale identità col caso del dr. Tosti è evidente. Anche il dr. Tosti, infatti, ha deciso di interrompere la prestazione periodica di un’attività di servizio con un congruo preavviso, adducendo l’inadempimento del Ministro di Giustizia: è dunque contrario a diritto -ed offensivo della logica- affermare che egli dovesse ripetere ulteriori congrui preavvisi in occasione delle singole udienze calendarizzate, visto che aveva già dichiarato che si sarebbe rifiutato di tenerle se la controparte non avesse provveduto a sanare il suo inadempimento, cioè a rimuovere i crocifissi o ad autorizzarlo ad esporre le menorà del fratello maggiore del cristianesimo. Ma non è tutto.
La motivazione del CSM presenta anche profili di contraddittorietà (art. 360 n. 5 c.p.c.) nella parte in cui afferma che il Presidente necessitava di volta in volta di una “verifica” (della volontà del Tosti di volersi astenere) e di una “conferma” (della volontà del Tosti di volersi astenere). Anche a voler ammettere che il Presidente dr. Alocchi avesse ritenuto opportuno “verificare” di volta in volta se il dr. Luigi Tosti intendeva persistere nel suo rifiuto (questo rientrava indubbiamente nelle sue facoltà), è tuttavia evidente che, una volta ricevuta dal dr. Tosti la conferma del suo proposito di astensione, costui non poteva avere l’obbligo congetturato dal CSM, cioè di “confermare” al dr. Alocchi quello che questi aveva appreso .... alcuni secondi prima!!!! Se il Tosti lo avesse fatto -come preteso dal CSM- il dr. Tosti avrebbe corso seri rischi di essere sottoposto a trattamento sanitario d’urgenza. La motivazione del CSM, dunque, è affetta da vizio di totale illogicità, non avendo senso alcuno indirizzare “dichiarazioni di conferma di volontà” a chi le ha già acquisite attraverso un’autonoma operazione di “verifica”.
Dalla fondatezza dei rilievi sopra esposti scaturisce che il CSM avrebbe dovuto considerare come “VERO” ciò che era stato peraltro acclarato come “VERO” dalla sentenza penale passata in giudicato, e cioè che, avendo il Tosti manifestato la ferma volontà di non tenere le udienze con la lettera-ultimatum depositata il 3.5.2005, il Presidente dr. Aldo Alocchi era stato allertato dell’esigenza di provvedere alla sua sostituzione con i seguenti rilevantissimi “anticipi”:
1) udienza 9 maggio 2005 = 6 giorni di anticipo;
2) udienza 10 maggio 2005 = 7 giorni di anticipo;
3) udienza 11 maggio 2005 = 8 giorni di anticipo;
4) udienza 13 maggio 2005 = 10 giorni di anticipo;
5) udienza 16 maggio 2005 = 13 giorni di anticipo;
6) udienza 24 maggio 2005 = 21 giorni di anticipo;;
7) udienza 25 maggio 2005 = 22 giorni di anticipo;
8) udienza 6 giugno 2005 = 34 giorni di anticipo;
9) udienza 8 giugno 2005 = 36 giorni di anticipo;
10) udienza 10 giugno 2005 = 38 giorni di anticipo;
11) udienza 20 giugno 2005 = 48 giorni di anticipo;
12) udienza 4 luglio 2005 = 52 giorni di anticipo.
13) udienza 8 luglio 2005 = 56 giorni di anticipo;
14) udienza 13 luglio 2005 = 61 giorni di anticipo;
15) udienza 273.9.2005 = 136 giorni di anticipo;
16) udienza 3 ottobre 2005 = 142 giorni di anticipo;
17) udienza 14 ottobre = 153 giorni di anticipo;
18) udienza 15 novembre 2005 = 185 giorni di anticipo;
19) udienza 16 gennaio 2006 = 247 giorni di anticipo.
Dunque, l’affermazione del CSM, secondo cui “non possono non essere apprezzate le ricadute negative dovute alla frettolosa sostituzione del magistrato delegato” integra -tanto per usare le parole usate dal dr. Tosti nella memoria con la quale l’ha eccepita- una “CICLOPICA, IMMANE e GIGANTESCA MENZOGNA”, dal momento che dalla lettera del 3.5.2005 risulta che il Presidente del Tribunale fu allertato delle necessità di provvedere alla sostituzione del Tosti con spazi temporali che vanno da un minimo di giorni 6 ad un massimo di 247 giorni, sicché è ingiurioso parlare di “frettolose” sostituzioni del dr. Tosti. E’ ovvio in ogni caso che, semmai vi sia stata una qualche “frettolosa” sostituzione (evenienza esclusa in sede penale), questa sarebbe da imputare SOLO a negligenza o incuria del Presidente del Tribunale, essendo fatto notorio che il compito istituzionale di provvedere alla sostituzioni grava sul Capo dell’Ufficio e non sul sottoposto.

4°) Violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. - Omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione e violazione degli artt. 24, 111 Cost. e 6 della Convenzione sui diritti dell’uomo ratificata con legge 848/1955 (art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c.).
L’incolpato ha anche eccepito che le “comunicazioni di astensione”, che aveva redatto in occasione di alcune delle udienze calendarizzate, non erano “dichiarazioni di volontà”, cioè propositi di volersi astenere per il futuro, bensì mere “comunicazioni di scienza” che avevano l’esclusivo scopo di far accertare che egli, quel giorno, si era presentato in ufficio -e non era rimasto a casa a trastullarsi- pronto a riprendere l’immediata trattazione dell’udienza di cui era gravato, se nel frattempo fossero stati rimossi i crocifissi o fosse stato autorizzato ad esporre i propri simboli.
L’incolpato ha anche eccepito che il Presidente dr. Alocchi dispose tutte le sue sostituzioni per effetto della suo ultimatum del 1.5.2005, e non per effetto delle sue comunicazioni di astensione, chiedendo anche l’ammissione della sopra trascritta prova testimoniale.
Il CSM, senza spendere una sillaba di motivazione, ha dato per pacifica la natura di dichiarazioni unilaterali di volontà.
Il ricorrente eccepisce che questa motivazione viola i canoni ermeneutici di cui all’art. 1362 c.c. e che, comunque, sia affetta da vizi motivazionali.
Segnala che le “comunicazioni di rifiuto”, che risultano prodotte nel numero di 10 sia nel fascicolo d’ufficio che in quello del Tosti, sottofascicolo “H”, sono state compilate utilizzando due modelli prestampati, con data dell’udienza in bianco, e che i due modelli risultano così redatti:
A) il primo:
“Camerino, li __________
Io sottoscritto Tosti Luigi, magistrato ordinario etc., facendo seguito alla mia precedente missiva 1.5.2005, inoltrata il 3.5.2005, al cui contenuto e motivazioni rimando, faccio presente e comunico che in data odierna mi sono astenuto, a causa della presenza del crocifisso in aule, dal trattare l’udienza civile o penale.”
B) il secondo:
“Io sottoscritto Tosti Luigi, magistrato ordinario etc., comunico doverosamente che oggi_______________ mi sono presentato per tenere l’udienza e che, avendo constatato che i simboli religiosi di parte non erano stati rimossi dalle aule e che, per altro verso, non ero stato ancora autorizzato ad esporre i miei simboli, mi sono rifiutato di tenere l’udienza. Mi permetto di reiterare ancora una volta l’accoglimento di una delle due mie richieste”.
Orbene, sussistendo contestazione sulla natura effettiva di tali “comunicazioni di rifiuto”, il CSM le avrebbe dovute esaminare per interpretare correttamente la volontà in esse espressa dal Tosti, perché così impongono i canoni ermeneutici dettati dagli articoli 1362 e seguenti del codice civile. Per costante giurisprudenza e per espressa disposizione di legge (art. 1324 c.c.), infatti, le regole sull’interpretazione del contratto si estendono a tutti gli altri negozi e, in particolare, anche agli atti unilaterali.
In primis, dunque, il CSM avrebbe dovuto interpretare la reale intenzione del dr. Tosti dal senso letterale delle parole usate nelle “comunicazioni”, così come impostogli dall’art. 1362 c.c. e come costantemente sancito dalla Cassazione civile, la quale ha affermato che “nell'interpretazione delle clausole contrattuali il giudice di merito, allorché le espressioni usate dalle parti fanno emergere in modo immediato la comune volontà delle medesime, deve arrestarsi al significato letterale delle parole e non può fare ricorso agli ulteriori criteri ermeneutici, il ricorso ai quali (fuori dell'ipotesi dell'ambiguità della clausola) presuppone la rigorosa dimostrazione dell'insufficienza del mero dato letterale” (sentenze n. 10493 del 2001 e n. 22979 del 07/12/2004).
Ebbene, dal tenore letterale delle comunicazioni sopra trascritte si ricava, in modo incontrovertibile, che esse non possono essere delle “dichiarazioni di volontà”, cioè propositi di volersi astenere per il futuro, bensì delle “comunicazioni di scienza” con le quali il dr. Tosti porta alla conoscenza dei destinatari il “fatto storico” dell’avvenuto rifiuto di tenere un’udienza. In questo senso univoco depongono le espressioni “faccio presente e comunico che in data odierna mi sono astenuto” e “comunico che... mi sono rifiutato di tenere l’udienza”, laddove l’uso di un tempo passato esclude qualsiasi proposito di azione futura. Di tali dati testuali il CSM avrebbe dovuto tener conto, ex art. 1362 c.c.: se ne avesse tenuto conto sarebbe pervenuto necessariamente alla conclusione che le “comunicazioni di rifiuto” sono dichiarazioni di scienza e non dichiarazioni di volontà, cioè di volersi astenere da una prossima udienza.
Ma non è tutto. Il CSM avrebbe anche dovuto tenere conto di un altro dirimente dato testuale, e cioè che nelle “comunicazioni di rifiuto” il Tosti non minaccia di “astenersi dalla trattazione se non verranno rimossi i crocifissi o se non verrà autorizzato ad esporre i suoi simboli”, riferendosi cioè all’avveramento di una condizione futura, ma comunica di “essersi rifiutato” di tenere le udienze “perché aveva constatato che i simboli religiosi non erano stati rimossi e che non era stato ancora autorizzato ad esporre i suoi simboli”, cioè fa riferimento ad un evento passato: il che esclude qualsiasi “minaccia di proposito di volersi astenere.
La circostanza, infine, che nei modelli prestampati si faccia riferimento alla “data odierna” e ad “oggi”, esclude nella maniera più categorica che quelle comunicazioni potessero essere redatte e depositate in un giorno antecedente all’udienza calendarizzata, allo scopo di consentire al Presidente dr Aldo Alocchi di provvedere alla sua sostituzione.
Lo stesso CSM percepisce l’anomalia della coniugazione dei “tempi” allorché puntualizza, giustamente, che con esse “peraltro il dr. Tosti comunica di essersi astenuto e non che “si asterrà”, senza trarne però le debite conclusioni.
Dai dati testuali sopra indicati risulta dunque in modo inconfutabile che le “comunicazioni di rifiuto” non integrano delle “dichiarazioni di propositi di volersi astenere dalla trattazione di future udienze calendarizzate”, bensì dichiarazioni di scienza con le quali si comunica di non aver tenuto determinate udienze perché l’Amministrazione non aveva accolto nessuna delle richieste formulate dal Tosti nella lettera del 1°.5.05.
Ricorre dunque la violazione del canone interpretativo sancito dall’art. 1362 c.c.: “L'enunciazione come motivo di ricorso per cassazione della violazione delle norme sostanziali di interpretazione, di cui all'art. 1362, primo comma, e 1363, cod. civ., per violazione del canone di ermeneutica della comune intenzione delle parti e di quello della interpretazione complessiva delle clausole, comporta che il ricorrente indichi, rispettivamente, gli elementi di fatto che, al di là delle letteralità della dichiarazione negoziale, non sarebbero stati considerati dal giudice di merito e avrebbero, invece, dovuto al di là di essa rivelare la comune intenzione delle parti, e quelle parti del regolamento contrattuale che non sarebbero state considerate da quel giudice, sì da rivelare che questi non ha proceduto all'interpretazione complessiva” (Cass. civ.,Sez. 3, sentenza n. 22979 del 07/12/2004). In ogni caso ricorre vizio di insufficiente motivazione, perché da tutti i dati testuali sopra evidenziati risulta in modo incontrovertibile che, se il CSM ne avesse tenuto conto, avrebbe affermato che le dichiarazioni in atti non integrano dichiarazioni di volontà, bensì dichiarazioni di scienza.
Ma non è tutto
Il CSM avrebbe dovuto applicare anche il canone ermeneutico sancito dal secondo comma dell’art. 1362 c.c., cioè quello che impone al giudice di tenere conto del “comportamento complessivo delle parti, anche posteriore alla conclusione del contratto”. Nella specie, trattandosi di dichiarazioni unilaterali che facevano esplicito riferimento “alla precedente missiva 1.5.2005 del Tosti, inoltrata il 3.5.2005, al cui contenuto e motivazioni egli rimandava”, il CSM avrebbe dovuto tener conto di quella missiva e confrontarla col tenore letterale delle “comunicazioni di rifiuto”. Se lo avesse fatto, sarebbe emerso in modo eclatante che l’UNICA VERA “dichiarazione di astensione” è quella formulata nella lettera del 1° maggio 2005, laddove il dr. Tosti, manifestando il proposito di “volersi” astenere dalla trattazione di TUTTE le udienze dal 9 maggio in poi, si esprime in questo modo (cfr. doc. n. 14 sottofascicolo “A” dell’incolpato): “per l'ipotesi in cui nessuna delle due richieste trovi accoglimento entro il giorno 8 maggio 2005, mi rifiuterò di prestare le mie funzioni di magistrato a causa della presenza del simbolo del crocifisso nelle aule giudiziarie italiane”, usando dunque l’appropriato tempo “futuro.
Ma c’è dell’altro.
Il CSM avrebbe dovuto anche tenere conto del comportamento tenuto dal dr. Alocchi e delle risultanze documentali, tra l’altro puntualmente indicate nelle memorie difensive, che dimostrano in modo univoco che quelle comunicazioni non sono dichiarazioni di volontà e che il Presidente del Tribunale dispose le sostituzioni del Tosti prescindendo totalmente da esse: sussiste dunque vizio di insufficiente motivazione (360 n. 5 c.p.c.) perché, se il CSM avesse tenuto conto delle risultanze probatorie che ci si accinge ad elencare, sarebbe pervenuto necessariamente all’affermazione che le “comunicazioni” in atti sono dichiarazioni di scienza, e non di volontà.
1. Per la precisione, il CSM avrebbe dovuto valutare, in primo luogo, la circostanza che il Presidente del Tribunale, dopo aver ricevuto la lettera del 1.5.2005, aveva disposto la sostituzione del Tosti per l’udienza del 10 maggio 2005 senza pretendere alcun assurdo “ulteriore preavviso”: agli atti (cfr. sottofascicolo “H” del dr. Tosti) vi è infatti il decreto di sostituzione del dr. Tosti, ma manca qualsiasi “comunicazione di astensione”.
2. In secondo luogo il CSM avrebbe dovuto valutare la circostanza che il dr. Alocchi ha richiesto al Presidente della Corte di Appello l’applicazione continuativa di un magistrato presso il Tribunale di Camerino per sopperire al rifiuto continuativo e ad oltranza del Tosti, come risulta dal doc. n. 18 sottofascicolo “A” del Tosti (“Letta la nota del 20.5.05 del Presidente del Tribunale di Camerino con la quale si chiede l’applicazione di almeno un magistrato....quanto all’astensione dalle udienze del dr. Tosti......rimedio congruo ..possa essere allestire altro idoneo locale...respinge la richiesta”) sicché avrebbe dovuto dedurre da tale documento che il dr. Alocchi era perfettamente consapevole che il dr. Tosti intendeva rifiutarsi ad oltranza di tenere TUTTE le udienze calendarizzate, al punto tale da aver chiesto l’applicazione di altro magistrato.
3. In terzo luogo il CSM avrebbe dovuto valutare la circostanza, assolutamente dirimente e decisiva, che il dr. Alocchi con decreto del 20. 5. 2005 aveva sostituito in modo continuativo il dr. Tosti con i GOT Tomboleoni e Dragonetti, assegnando loro i ruoli di TUTTE le cause civili e di TUTTE quelle di previdenza/assistenza (cfr. sottofascicolo “A” del Tosti, doc. n. 15: “Il Presidente, rilevato che il dott. Luigi Tosti si rifiuta di tenere le udienze civili poiché nell’apposita aula è esposto il crocifisso, visti gli art...etc., dispone che le udienze civili e di previdenza ed assistenza siano tenute rispettivamente dai GOT dott.ssa Ilaria Tomboleoni e Rocco Dragonetti, Si comunichi agli interessati Camerino 20.5.2005 Il Presidente dr Aldo Alocchi”): il che prova in modo inconfutabile non solo che il dr. Alocchi era perfettamente consapevole della volontà irrevocabile del Tosti di non tenere TUTTE le udienze calendarizzate sino a che non fosse stata esaudita una delle sue richieste, ma anche che lo aveva sostituito permanentemente negli interi ruoli e per tutte le udienze future, sicché egli era perfettamente in grado di sostituire TEMPESTIVAMENTE il dr. Tosti ANCHE per TUTTE le altre udienze calendarizzate, di cui il magistrato risultava gravato. Con questo provvedimento del 20.5.2005, infatti, il dr. Tosti venne sostituito per 17 udienze calendarizzate fino al 14.12.2005 (udienze del 24.5.05, dell’8.6.05, del 28.6.05 e via dicendo). Il che smentisce e sconfessa sia l’incolpazione della Procura Generale, secondo cui “le dichiarazioni di “rifiuto” di tenere l’udienza furono effettuate lo stesso giorno o nell’immediata prossimità così determinando la necessità delle relative sostituzioni”, sia le congetture del CSM, ad avviso del quale il Presidente dr. Alocchi dispose le sostituzioni del dr. Luigi Tosti “di volta in volta e lo stesso giorno in cui l’udienza era fissata”. Ma smentisce e annichilisce anche l’affermazione del CSM secondo cui il Presidente Alocchi era aduso nominare di volta in volta il sostituto e che il passaggio del “ruolo civile” del Tosti fu possibile effettuarlo SOLO in occasione della immissione in servizio di un nuovo magistrato, il dr. Mario Tanferna, e cioè in data 18.10.2005 (cfr. doc. n. 3 sottofascicolo “C” del dr. Tosti: “Il Presidente, visto il verbale di immissione nelle funzioni di magistrato presso questo ufficio del dr. Mario Tanferna, considerato che il dr. Luigi Tosti si rifiuta di tenere udienza, a causa della presenza del crocifisso di cui ha chiesto ripetutamente l’asportazione, ritenuto di dover provvedere alla sostituzione del dr. Tosti, dispone che il dr. Mario Tanferna sostituisca il dr. Tosti nel ruolo civile assegnato a quest’ultimo...”).
4. In quarto luogo il CSM avrebbe dovuto valutare la circostanza che il dr. Alocchi aveva più volte invitato il dr. Tosti, prima verbalmente e poi per iscritto, a tenere le udienze nel suo ufficio e che, dopo il suo netto rifiuto, lo aveva ulteriormente invitato a tenerle in una allestenda aula-ghetto, ricevendo in TUTTE queste occasioni altrettante ferme reiterazioni di rifiuto. Dal che si arguisce che il dr. Alocchi era perfettamente consapevole che il dr. Tosti intendeva rifiutarsi ad oltranza -e non soltanto per una od alcune udienze- sicché non vi era alcuna necessità che il magistrato gli reiterasse ossessivamente la sua “volontà di astenersi” in occasione delle singole udienze calendarizzate.
5. In quinto luogo il CSM avrebbe dovuto considerare che nel sottofascicolo “H” del Tosti risultano depositate tre sue comunicazioni di rifiuto, datate 27.9.2005, 9.11.2005 e 14.12.2005, che si riferiscono a tre udienze civili per le quali -si badi bene- era già intervenuta la sostituzione del Tosti con i GOT già dal lontano 20.5.2005: la circostanza che il dr. Tosti abbia presentato queste “comunicazioni di rifiuto”, nonostante sapesse perfettamente che per quelle udienze era già intervenuto un decreto di sua sostituzione, dimostra in modo inconfutabile che lo scopo di quelle dichiarazioni non era quello di esternare al Presidente del tribunale la volontà di astenersi, bensì quello di attestare la sua presenza in ufficio e di comunicare che quelle udienze calendarizzate erano state tenute da altri a causa del mancato accoglimento delle sue pretese.
6. In sesto luogo avrebbe dovuto considerare che, come risulta dal decreto prodotto nel sottofascicolo “H” del dr. Tosti, costui venne sostituito dal Dr. Alocchi nella trattazione dell’udienza delle esecuzioni immobiliari del 14.10.2005 con decreto del 12 ottobre 2005 (“Rilevato che il dr. Tosti si è rifiutato di tenere l’udienza civile delle esecuzioni immobiliari del giorno 14 ottobre 2005, dispone la sostituzione del predetto con se medesimo. Camerino li 12 ottobre 2005”): ciononostante il dr. Tosti presentò la sua standardizzata “comunicazione di rifiuto” il giorno 14 ottobre, pur sapendo di essere stato sostituito dal dr. Alocchi già due giorni prima. Il che dimostra, in modo inconfutabile, che le “comunicazioni di rifiuto” stilate dal Tosti non erano “dichiarazioni di intento di volersi astenere”, ma comunicazioni di scienza.
7. In settimo luogo il CSM avrebbe dovuto considerare che il dr. Tosti non ha mai depositato alcuna “comunicazione di rifiuto” per le udienze del 10.5.2005, del 25.5.2005, del 6.6.2005, del 10.6.2005, del 4 luglio 2005, dell’8.7.2005, del 3.10.2005 e che, nonostante ciò, il Presidente ha provveduto a sostituirlo con altri: questo dimostra che il Presidente non attendeva le “comunicazioni di rifiuto del Tosti” per provvedere alla sua sostituzione, ma vi provvedeva autonomamente e per effetto del rifiuto manifestato con l’ultimatum del 1.5.05.
8. In ottavo luogo il CSM avrebbe dovuto considerare che il Presidente Alocchi dispose: 1) con decreto del 23 maggio la sostituzione del Tosti per un’udienza del 25 maggio (sottofascicolo “H” del Tosti: “Rilevato che il dr Tosti Luigi si è rifiutato di tenere l’udienza civile delle esecuzioni immobiliari del giorno 25 maggio 2005 perché nell’apposita aula è esposto il crocifisso....dispone la sostituzione del predetto magistrato con se medesimo per l’udienza delle cause fissate. Camerino 23 maggio 2005 Il Presidente dr Aldo Alocchi”); 2) con decreto del 31 maggio la sostituzione del Tosti per un’udienza del 6 giugno (“Rilevata l’indisponibilità del dott. Luigi Tosti a tenere udienza per la presenza nell’apposita aula del crocifisso, che pertanto è necessario provvedere alla sua sostituzione, dispone che l’udienza GIP, fissata per il giorno 6 giugno 2005, sia tenuta dal dott. Domenico Potetti. Camerino 31 maggio 2005 Il Presidente Aldo Alocchi”); 3) con decreto del 9 giugno la sostituzione del Tosti per un’udienza del 10 giugno (“Rilevato che il dr. Tosti si è rifiutato di tenere l’udienza civile delle esecuzioni immobiliari del giorno 10 giugno 2005, dispone la sostituzione del predetto con se medesimo. Camerino li 9 giugno 2005”); 4) con decreto del 6 luglio la sostituzione del Tosti per un’udienza dell’8 luglio (“Rilevato che il dr. Tosti si è rifiutato di tenere l’udienza civile delle esecuzioni immobiliari del giorno 8 luglio 2005, dispone la sostituzione del predetto con se medesimo. Camerino li 6 luglio 2005”; 5) con decreto del 12 ottobre la sostituzione del Tosti per un’udienza del 14 ottobre (“Rilevato che il dr. Tosti si è rifiutato di tenere l’udienza civile delle esecuzioni immobiliari del giorno 14 ottobre 2005, dispone la sostituzione del predetto con se medesimo. Camerino li 12 ottobre 2005”). TUTTI questi decreti di sostituzione risultano deliberati con svariati giorni di anticipo rispetto all’udienza calendarizzata: queste circostanze smentiscono dunque l’affermazione del CSM secondo cui il dr. Alocchi provvedeva a sostituire il Tosti SOLO in seguito alla ricezione delle “comunicazioni di rifiuto”, dal momento che TUTTE queste comunicazioni risultano depositate lo stesso giorno dell’udienza, come peraltro attestato dal loro tenore letterale che fa riferimento alla “data odierna”.
Infine, il dr. Tosti ha chiesto al Sost. Proc. Gen. dr. Scardaccione che venisse escusso “il Presidente dr. Aldo Alocchi .... perché confermasse come fosse vero che aveva ricevuto la lettera ultimatum del 1° maggio 2005 e, dunque, aveva provveduto a tutte le sue sostituzioni indipendentemente dalle “dichiarazioni di rifiuto” a sua firma che, oltre tutto, gli venivano comunicate dalla Cancelleria sovente con giorni di ritardo” e con la lista testi dell’8.1.2010 ha reiterato al CSM la richiesta di citazione del Presidente del Tribunale e di altri dipendenti (Daniela Bondoni e Lucia Bonacucina) per confermare le circostanze relative agli “imput in base ai quali il Presidente aveva provveduto a deliberare la sostituzione del Tosti per le udienze non tenute” e la “circostanza che la Cancelleria era ben a conoscenza della sua volontà di rifiutarsi, dal 9 maggio 2005 in poi, di tenere le udienze nell’aula GIP/GUP e che, pertanto, la necessità di designare i suoi sostituti non scaturiva dalle sue “dichiarazioni di astensione”, bensì era la stessa Cancelleria che, di suo impulso e tempestivamente, segnalava al Presidente dr. Aldo Alocchi la necessità di sottoscrivere il decreto di sostituzione col collega tabellarmente deputato alla mia supplenza GIP (Dr. Domenico Potetti)”.
Il CSM ha impedito al dr. Tosti di sentire questi testi su queste circostanze, asserendo che si trattava di fatti pacifici già acclarati in sede penale, sicché il CSM non poteva affermare, con comportamento a dir poco inqualificabile e lesivo dei più elementari diritti di difesa del Tosti (articoli 24 e 111 della Costituzione, art. 6 della L. 848/1955), che i fatti si erano svolti in modo diametralmente opposto a quanto l’incolpato voleva provare, e cioè che “il Presidente del Tribunale aveva disposto le sostituzioni del dr. Tosti di volta in volta, e lo stesso giorno in cui l’udienza era fissata, provvedendo al passaggio del ruolo civile del dr. Tosti al dott. Mario Tanferna, con variazione tabellare, solo in occasione della immissione del secondo nell’ufficio di Camerino, quindi in mancanza di un ruolo pregresso a lui assegnato” e che, poi, “risultava dagli atti che più di una volta il Presidente Alocchi aveva ricevuto una comunicazione dell’ effettiva astensione rinvenendo la dichiarazione sulla sua scrivania nella stessa mattinata dell’udienza (v. ad esempio le annotazioni sulla dichiarazione di astensione -con le quali peraltro il dr. Tosti comunica di essersi astenuto e non che “si asterrà”- dell’11 e 13 maggio”) con conseguente inevitabile danno per l’attività complessiva d’ufficio.”
Il dr. Tosti ritiene di essere un cittadino come gli altri e di vantare, pertanto, il diritto inviolabile di difendersi dinanzi ai giudici con gli stessi diritti e con le stesse “armi” concesse alle controparti. Nel caso di specie egli aveva gli stessi diritti istruttori accordati all’incolpante Procuratore Generale della Cassazione e, dunque, aveva il diritto di sentire i testi affinché confermassero circostanze di fatto che dimostravano la CICLOPICA FALSITA’ delle accuse mossegli dal Sost. Proc. Generale dr. Scardaccione. Il CSM ha invece brutalizzato i diritti costituzionali di difesa del dr. Tosti, precludendogli la possibilità di sentire dei testi che avrebbero confermato la CICLOPICA FALSITA’ delle accuse. E’ dunque inaccettabile che il CSM, dopo aver brutalizzato i diritti di difesa del Tosti, gli abbia “appioppato” le CICLOPICHE MENZOGNE congetturate nei suoi confronti. Questo comportamento denota disprezzo e animosità nei confronti dell’incolpato. In ogni caso la sentenza che ometta di acquisire prove determinanti per la deci sione di una controversia è affetta da VIZIO di insufficienza motivazionale (art. 360 n. 5 c.p.c.) ogni qual volta -come nel caso di specie- le circostanze di fatto che si volevano provare sono decisive. Se i testi fossero stati ammessi, essi avrebbero confermato: A) la circostanza che il dr. Aldo Alocchi provvide a nominare i sostituti del dr. Tosti in modo del tutto autonomo e in base alla volontà espressa dal dr. Tosti nella sua “dichiarazione di astensione” del 1°.5.05, prescindendo totalmente dalle “comunicazioni di rifiuto” che, oltre tutto, gli venivano trasmesse dalla Cancelleria con giorni di ritardo; B) la circostanza che i decreti di sostituzione venivano predisposti autonomamente dalle Cancellerie e, poi, portati al Presidente Alocchi per la firma.
Si rileva, altresì, che il CSM ha fondato l’affermazione della (supposta) “tardività” delle “comunicazioni di rifiuto” solo sulla disamina di due “comunicazioni di rifiuto”, quelle relative alle udienze dell’11 e del 13 maggio 2005. Ebbene, se si considera che queste due udienze si collocano a distanza di appena 3 e 5 giorni dall’inizio dell’astensione delle udienze, che fu preannunciata dal Tosti con la lettera depositata il 3.5.2005, è impossibile “concepire” “come” e “quando” il dr. Tosti avrebbe dovuto -come afferma il CSM- “reiterare” altri “preavvisi di astensione” riferiti a queste udienze: forse -ci chiediamo- il dr. Tosti avrebbe dovuto notificare al Presidente Alocchi “altri” due preavvisi in data ....... anteriore al 9 maggio 2005, cioè prima di sapere se i crocifissi erano stati o meno rimossi? Ovviamente no: sussiste dunque incongruità della motivazione, perché il dr. Tosti non disponeva di uno spazio temporale sufficiente per operare l’assurda “reiterazione del preavviso” pretesa dal CSM.
Si rileva, infine, l’erronea ricostruzione del fatto in relazione all’affermazione secondo cui “risulta dagli atti che più di una volta il Presidente Alocchi ha ricevuto comunicazione della effettiva astensione rinvenendo la dichiarazione sulla sua scrivania nella stessa mattinata dell’udienza (v. ad esempio le annotazioni sulla dichiarazione di astensione - con le quali peraltro il dr. Tosti “comunica di essersi astenuto” e non “che si asterrà”- dell’11 e 13 maggio”) con conseguente inevitabile danno per l’attività complessiva dell’ufficio”.
In realtà, dall’esame dei due documenti menzionati dal CSM, contenuti nel fascicolo d’ufficio (fogli 4 e 6 del fascicolo 257/2005 SD1 unito) ed anche nel sottofascicolo “H” del dr. Tosti, risulta che le diciture “Rinvenuta sulla mia scrivania il giorno 11/5/05” e “Rinvenuta sulla mia scrivania il giorno 13/5/05” sono state sottoscritte dalla Dirigente di segreteria dott. Anna Maria Serravezza, che vi ha apposto il timbro del tribunale e il proprio timbro personale, attestante identità e qualifica, e non dal dr. Alocchi!!! Dall’esame, poi, di TUTTE le altre comunicazioni di rifiuto risulta che TUTTE le attestazioni di deposito sono firmate dal dirigente della Cancelleria, e non dal dr. Alocchi, sicché risulta provata e vera la circostanza addotta dal Tosti su questo punto.
Concludendo, giammai il dr. Tosti potrebbe rispondere dell’addebito (peraltro marginale) di aver “intempestivamente” comunicato il proposito di volersi astenere in occasione delle singole udienze calendarizzate, sia perché la circostanza è esclusa dal giudicato, sia perché il dr. Tosti non poteva avere un siffatto obbligo, sia perché la reale volontà manifestata era di semplice scienza, sia, infine, perché l’onere di provvedere alle sostituzioni gravava esclusivamente sul Presidente del Tribunale di Camerino e, dunque, la responsabilità disciplinare (e penale) per eventuali omissioni o ritardi era la sua: in tal senso depongono gli articoli 27 e 28 della Costituzione, l’articolo 3 della legge 24.11.1981 n. 689 (sanzioni amministrative), gli articoli 2043 e 1218 del codice civile e gli articoli 1, 2, 3 e 4 del D.lgs. 23.2.2006 n. 109, relativo alla responsabilità disciplinare dei magistrati.
Sarebbe dunque assurdo sostenere che il dr. Tosti debba rispondere di eventuali disservizi presso il Tribunale di Camerino perché il Presidente della Corte di Appello, compulsato dal Presidente del Tribunale, ha respinto la richiesta di applicazione di un magistrato in quella sede!
In realtà al dr. Tosti può essere imputato -come correttamente fatto dal Procuratore Generale nella prima incolpazione e come necessariamente consegue dal giudicato penale che ha mandato assolto il Tosti- l’addebito materiale di essersi rifiutato di tenere le udienze che, per rapporto di pubblico impiego, egli doveva tenere, creando così la necessità di esser sostituito. Al contrario, i disservizi apoditticamente supposti dal CSM non scaturiscono da un comportamento del Tosti ma, semmai, sarebbero fisiologici ed imputabili al dissesto ed alla disorganizzazione cronica della Pubblica Amministrazione italiana, tant’è che essi si sarebbero verificati, sicuramente con maggiore gravità, nell’ipotesi che il dr. Tosti fosse stato costretto ad assentarsi dal servizio per malattia, per congedo, per aspettativa, per trasferimento o per altra causa. Per queste evenienze, infatti, sarebbe sorta la necessità di sostituirlo, non solo per la trattazione delle udienze, ma anche per tutte le altre attività che il dr. Tosti ha comunque seguitato ad espletare in modo pieno.
Si riassumono pertanto i seguenti
QUESITI DI DIRITTO
1. Dica l’Ecc.ma Corte se – in una fattispecie in cui un magistrato, disciplinarmente incolpato di aver presentato delle “dichiarazioni di astensione” lo stesso giorno o in prossimità dell’udienza, si difenda affermando di non aver affatto manifestato l’intento di volersi astenere con quelle singole dichiarazioni, bensì con un’unica dichiarazione di data largamente anteriore- incorra nella violazione dell’art. 34 R.D.L. n. 511/1946 e dell’art. 477 vecchio c.p.p. (corrispondente all’art. 522 nuovo c.p.p.), cioè in vizio di extrapetizione, la sentenza della sezione disciplinare del CSM che condanni il magistrato sulla base del diverso assunto che, pur avendo manifestato l’irremovibile volontà di astenersi per tutte le udienze calendarizzate con la dichiarazione iniziale, egli aveva comunque l’obbligo di reiterare la volontà di astenersi in occasione delle singole udienze, mentre le suddette disposizioni di legge debbono essere correttamente interpretate nel senso che per non incorrere nella violazione dell’obbligo della correlazione tra accusa e sentenza il giudice deve mantenere identico il fatto storico addebitato in riferimento al triplice elemento della condotta, dell’evento e dell’elemento psicologico.
2. Dica l’Ecc.ma Corte se – in una fattispecie in cui un magistrato, disciplinarmente incolpato di essersi astenuto dalla trattazione di udienze con “dichiarazioni di rifiuto” presentate lo stesso giorno o in prossimità dell’udienza, si difenda affermando di non aver affatto manifestato l’intento di volersi astenere con quelle dichiarazioni, bensì con un’unica dichiarazione di data largamente anteriore- incorra nella violazione dell’art. 1324, 1334 e 1335 del c.c. la sentenza della Sezione disciplinare che affermi che il magistrato, pur avendo già manifestato con dichiarazione unilaterale recettizia il proposito di volersi astenere per tutte le udienze calendarizzate, aveva l’obbligo di comunicare altrettante dichiarazioni di astensione in occasione di ogni singola udienza per “confermare” il suo proposito di rifiuto al Presidente del Tribunale che, in caso contrario, avrebbe potuto ipotizzare un ripensamento, mentre le suddette disposizioni di legge debbono essere correttamente interpretate nel senso che gli atti unilaterali recettizi producono effetti permanenti nel momento in cui pervengono a conoscenza del destinatario, sicché il destinatario non necessita della comunicazione di ulteriori “dichiarazioni unilaterali” per ritenere “confermata” la volontà già espressa dal dichiarante, dovendo semmai costui revocarla con opposta dichiarazione di volontà da notificare al destinatario.
3. Dica l’Ecc.ma Corte se – in una fattispecie in cui un magistrato, disciplinarmente incolpato di essersi astenuto dalla trattazioni di udienze con “comunicazioni di astensione” presentate lo stesso giorno o in prossimità dell’udienza, si difenda affermando che gli atti in questione non integrano dichiarazioni unilaterali di “volontà”, cioè di proposito di volersi astenere, bensì dichiarazioni di scienza volte a comunicare “fatti” già avvenuti- incorra nella violazione dell’art. 1362 del c.c. la sentenza della Sezione disciplinare che ne affermi la natura di dichiarazioni di volontà prescindendo totalmente dall’interpretazione delle espressioni letterali usate dal dichiarante e dal comportamento complessivo delle parti, mentre la suddetta disposizione di legge deve essere correttamente interpretata nel senso che l'interpretazione degli atti unilaterali si deve fondare sul significato letterale delle espressioni usate e del comportamento complessivo delle parti.

DECIMO MOTIVO
Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione - (art 360 n. 5 C.P.C.).
Come sopra visto, il CSM ha ritenuto del tutto irrilevante pronunciarsi sulla fondatezza o meno delle “motivazioni” che hanno indotto il dr. Luigi Tosti ad astenersi dalla trattazione delle udienze, perché ha ritenuto che “la verifica della compatibilità tra i principi della laicità dello stato e di libertà di fede religiosa da una parte e la collocazione del crocifisso nelle aule di giustizia non fosse l’oggetto proprio e neanche l’oggetto principale del presente procedimento, nel quale doveva essere valutata la compatibilità del rifiuto di tenere udienza... col rispetto delle regole organizzative del servizio, dei doveri del magistrato e delle esigenze funzionali del corretto esercizio della giurisdizione.”
Dopo aver escluso a priori la necessità di valutare la fondatezza o meno delle “ragioni” che avevano costretto il Tosti a rifiutarsi di tenere le udienze, il CSM le ha però connotate di “negatività”, sia ai fini del giudizio di “condanna” che di scelta della sanzione da applicare, asserendo addirittura che il rifiuto di tenere le udienze è stato ispirato da mere “questioni di principio”, che il dr. Tosti ha “lanciato una sfida all’amministrazione”, ha “mostrato ... la volontà di piegare la propria funzione alla spasmodica affermazione di petizioni di principio”, ha “mostrato faziosità, aggressività verbale e scarso equilibrio, andando alla ricerca di reazioni decise attraverso iniziative provocatorie”, “ha inciso con le sue iniziative sulla serenità dell’ufficio, come dimostra il fitto scambio di note in atti, che hanno avuto ampia risonanza mediatica”, ha “minato la sua credibilità di giudice, funzione che richiede equilibrio, ponderazione e terzietà, distacco”, “ha recato pregiudizio al prestigio dell’ordine giudiziario”, “ha imposto condizioni arbitrarie per imporre la soluzione voluta”, “ha utilizzato la propria stessa funzione con modalità sostanzialmente ricattatorie nei confronti delle istituzioni”, “ha tentato di accreditare una grave e pretestuosa persecuzione ai suoi danni”, “ha manifestato la irremovibile volontà di tenere fermo il suo rifiuto fino a quando non sarà tolto il crocifisso dalle aule d’udienza o non sarà esposta la menorà ebraica”, “ha dichiarato che non defletterebbe da tale decisione neanche in futuro se gli fosse data occasione di rinnovare, con la restituzione delle funzioni, il rifiuto di esercitarle”.
Per la precisione, la sezione disciplinare si è così espressa:
“La Corte di Cassazione ha ritenuto in sentenza che l’effettivo svolgimento dell’udienza a seguito della sostituzione fosse preclusivo alla configurazione del reato di cui all’art. 323 c.p., tuttavia, dal punto di vista della funzionalità e del rispetto delle regole interne, non possono non essere apprezzate le ricadute negative dovute alla frettolosa sostituzione del magistrato delegato, alla necessaria rinnovazione di attività preparatoria di studio, alla sottrazione dei magistrati in sostituzione dai loro programmati impegni di lavoro. D’altro canto il dr. Tosti non aveva certo né l’interesse né l’intenzione di attenuare le ricadute negative della sfida da lui lanciata all’amministrazione, tanto che ebbe ad opporsi decisamente alle modifiche nella distribuzione degli affari che gli destinavano in maggior quantità attività che non richiedevano la ritualità dell’udienza come risulta dalle osservazioni formulate in data 9 novembre 2005 avverso l’assegnazione delle funzioni di giudice tutelare e di tutti i ricorsi per ingiunzione (v. allegato C della memoria difensiva d’udienza), mostrando con ciò ancora una volta la volontà di piegare la propria funzione alla spasmodica affermazione di petizioni di principio.
Rilevata la sussistenza delle condotte illecite occorre valutarne l’incidenza sul prestigio dell’ordine giudiziario e sulla credibilità del magistrato e la loro gravità ai fini della graduazione della sanzione.
Non solo il dr. Tosti ha gravemente mancato ai propri doveri, ma nel mancare ad essi ha mostrato faziosità, aggressività verbale e scarso equilibrio, andando quasi alla ricerca di reazioni decise attraverso iniziative provocatorie (non ultima a titolo esemplificativo, la ostensione in udienza di uno strumento di tortura in uso presso il tribunale dell’Inquisizione, la pera di ferro, diretta ad evocare scenari del tutto impropri rispetto all’oggetto in contestazione e alle modalità del giudizio).
Le sue iniziative hanno inciso sulla serenità dell’ufficio, come dimostra il fitto scambio di note in atti, ed hanno avuto ampia risonanza mediatica. Ciò non può essere giudicato positivamente non certo per la tematica sollevata, sicuramente rilevante e di carattere generale, ma proprio per la sproporzione tra la delicatezza del problema e la arbitrarietà della condizione posta per imporre la soluzione voluta. Ciò appare idoneo a minare la sua credibilità di giudice, funzione che richiede equilibrio, ponderazione e terzietà, distacco, ma anche a recare pregiudizio al prestigio dell’ordine giudiziario, poiché il dr. Tosti ha utilizzato la propria stessa funzione con modalità sostanzialmente ricattatorie nei confronti delle istituzioni e tentato di accreditare una grave e pretestuosa persecuzione ai suoi danni....occorre tener conto della gravità del fatto e della particolare funzione di prevenzione speciale che la sanzione disciplinare assolve....
Nel nostro caso è lo stesso interessato a chiedere di portare la sanzione, in caso di condanna, alle sue estreme conseguenze. Ciò avrebbe poco peso se la rimozione non fosse da una parte adeguata alla gravità dei fatti e dall’altra l’unica ragionevole in conseguenza della prevedibile ed immediata reiterazione delle medesime condotte in caso di riattribuzione delle funzioni. Il dott. Tosti ha manifestato la irremovibile volontà di tenere fermo il suo rifiuto fino a quando non sarà tolto il crocifisso dalle aule d’udienza o non sarà esposta la menorà ebraica. Ha esplicitamente dichiarato che non defletterebbe da tale decisione neanche in futuro se gli fosse data occasione di rinnovare, con la restituzione delle funzioni, il rifiuto di esercitarle. Tale determinazione, perfettamente coerente con il comportamento del dott. Tosti, e prevedibile a prescindere dalle sue esternazioni, è sintomatica di una completa indifferenza all’eventuale riconoscimento del disvalore deontologico della condotta fin qui tenuta e di un ostinato e pervicace arroccamento sulle proprie posizioni, incompatibile con la ripresa dell’attività giurisdizionale in adeguate condizioni di prestigio e serenità”.
Il ricorrente ritiene che questa parte della motivazione -che è essenziale ai fini della giustificazione della condanna e della scelta della sanzione- sia affetta da un macroscopico vizio di contraddittorietà e/o di illogicità: nessun giudice, infatti, può attribuire connotazioni “negative” ad un comportamento umano prescindendo dalla valutazione delle “motivazioni” che hanno indotto l’agente a tenere quel comportamento. In caso contrario, infatti, il giudizio negativo non poggerebbe su un presupposto valido, essendo sempre possibile che le ragioni addotte a fondamento del comportamento siano giuridicamente valide e tali da escludere qualsiasi ipotesi di illegittimità. E questo è ancor più vero in un caso -come quello di specie- in cui è lo stesso incolpante a bollare come “ingiustificato” il comportamento dell’incolpato e questi, a sua volta, si difende asserendo di essere stato “costretto” a tenere quel comportamento per “motivazioni legate al rispetto dei diritti umani ed al rispetto della Costituzione repubblicana”.
E’ ancor meno giustificabile, poi, che un giudice, dopo aver escluso la necessità di vagliare se un determinato comportamento di rifiuto fu o meno “giustificato”, scelga la sanzione da applicare “in funzione di prevenzione speciale”, cioè per evitare che l’incolpato reiteri quel comportamento di rifiuto se venga a trovarsi nella stessa situazione di necessità.
Se si dovesse ritenere valido il modus operandi del CSM, si perverrebbe a conseguenze grottesche e inaccettabili, degne del peggior Regime clerico/fascista che si possa immaginare.
Ad esempio, se una circolare fascista imponesse ai giudici ebrei di tenere le udienze con crocifissi radioattivi al collo e di essere sodomizzati con le pere metalliche in uso ai criminali Tribunali cattolici della Santa Inquisizione e un giudice ebreo, da parte sua, si rifiutasse di tenere le udienze per salvaguardare il diritto alla vita, all’integrità fisica, nonché per sottrarsi ad atti di tortura e di lesione dei suoi diritti di libertà religiosa e sessuale, il CSM potrebbe rimuoverlo dalla Magistratura dopo avere escluso a priori la necessità di valutare se le “motivazioni” addotte da questo magistrato giustifichino il suo rifiuto, asserendo in “motivazione” che la sua condotta fu “una sfida alle istituzioni”, che “ha inciso sulla serenità dell’ufficio”, che “ha avuto ampia risonanza mediatica per l’arbitrarietà della condizione imposta”, che fu ispirata dalla “spasmodica affermazione di petizioni di principio”, dalla “carenza di equilibrio, ponderazione, terzietà, distacco”, dall’ “uso della sua funzione con modalità sostanzialmente ricattatorie nei confronti delle istituzioni”, dal “tentativo di accreditare una grave e pretestuosa persecuzione ai suoi danni”, da una “incompleta indifferenza all’eventuale riconoscimento del disvalore deontologico della condotta” e di “un ostinato arroccamento sulle proprie posizioni incompatibile con la ripresa dell’attività giurisdizionale in adeguate condizioni di prestigio e serenità” e dal “proposito di non deflettere da tale comportamento di rifiuto neanche in futuro se gli fosse data occasione di essere nuovamente sodomizzato con le pere metalliche” e, infine, che l’unica sanzione adeguata è la “rimozione”, per evitare che il magistrato ebreo, “se gli venga data l’ “occasione” (!!!!) di essere nuovamente sodomizzato con le pere metalliche imposte dal Ministro di Giustizia, possa rinnovare il comportamento di rifiuto”.
Alla stessa stregua, se una segretaria del Ministro di Giustizia venisse da costui stuprata ogni qual volta viene chiamata ad esercitare le sue mansioni nel suo ufficio e, dopo aver vanamente chiesto l’intervento urgente della Magistratura, fosse costretta a rifiutarsi di svolgere quell’incarico per preservare i suoi diritti inviolabili di libertà sessuale, il giudice disciplinare potrebbe tranquillamente rimuoverla dal pubblico impiego, asserendo che la sua condotta di “rifiuto” fu ispirata dalla “spasmodica affermazione di petizioni di principio”, dalla “carenza di equilibrio”, dall’ “uso della sua funzione con modalità ricattatorie nei confronti delle istituzioni”, dal “tentativo di accreditare una grave e pretestuosa persecuzione ai suoi danni” e che l’unica sanzione adeguata è quella di rimuoverla dal pubblico impiego per evitare che costei, ove le si “prospetti l’ “occasione” di essere nuovamente stuprata dal Ministro di Giustizia, possa ripetere il comportamento di rifiuto di essere stuprata”!!!!
Ebbene, nel caso nel dr. Tosti le cose non sono andate diversamente, perché costui è stato grottescamente rimosso dalla magistratura perché si è rifiutato di soggiacere a criminali atti di discriminazione religiosa ed alla patente lesione della sua prerogativa di rispetto del principio supremo di laicità e dei suoi diritti inviolabili di libertà e di eguaglianza religiosa. E la scelta della sanzione da applicare è stata grottescamente operata con finalità di “prevenzione speciale”, cioè allo scopo di evitare che il dr. Tosti, ove gli venga “data l’occasione di essere “stuprato” nei suoi diritti e nelle sue prerogative inviolabili, possa persistere nel suo comportamento di rifiuto, sintomatico di una completa indifferenza del disvalore deontologico della sua condotta”.
L’epilogo grottesco di questo processo disciplinare consiste dunque nel fatto che il CSM, posto di fronte ad una querelle tra Ministro “razzista” e prevaricatore e dipendente discriminato e vilipeso, si è fatto paladino del primo ed ha sancito che “è giusto” rimuovere i magistrati dall’ordine giudiziario, piuttosto che rimuovere i crocifissi dalle aule giudiziarie.
Con questa sentenza la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha finito per spalleggiare i Ministri di Giustizia “razzisti” -che hanno discriminato e prevaricato il dipendente dr. Luigi Tosti nell’ambiente di lavoro- fustigando il suo comportamento di rifiuto con espressioni, epiteti e censure che trovano un significativo “consenso” solo nelle “opinioni” di quegli anonimi criminali cattolici che hanno espresso questi eleganti e significativi “giudizi” nelle lettere anonime prodotte nel sottofascicolo “E” del Tosti, e cioè:
“affiancare al Cristo il simbolo di coloro che ne sono divenuti carnefici è un sacrilegio che offende Gesù Cristo, esaltando un popolo che si è macchiato di un orrendo delitto contro Dio”; “crepa porco ateo terrorista. Comunista bastardo, porco musulmano del cazzo con moglie troja”, “ti spediremo ad Allah, fai testamento, preferisci essere ucciso con ago intinto a veleno o con una pallottolina calibro 227 o 30-06 per cinghiale?”; “Porco ateo terrorista, comunista bastardo: il crocifisso non si tocca. Se non lo vuoi, sparati, giudice del cazzo. Porco musulmano del cazzo con moglie troia, bastardo come Adel Smith. Bestemmiatore maiale, crepa”; “Visto che il crocifisso ti apporta fastidio, guarda il Corano, perché ti spediremo ad Allah!! Devi sparire da Camerino e dall’Italia, e subito!! Se non l’hai fatto, fai testamento, perché la tua ora sta arrivando. Fatti scortare!! Allah ti abbia in gloria!! Il tuo emigrare potrà aiutarti a salvarti, altrimenti.......”; “Che Dio ti stramaledica per tutta la tua esistenza. Sei un lurido sporco uomo comunista e delinquente. Speriamo che prima possibile il crocifisso ti porti via da questo mondo.....sono secoli e secoli che il crocifisso sta lì. Tu gli vuoi cambiare posto. Fai schifo al mondo intero”: “Egregio signore, mi vergogno per lei che sia rimasto in Italia, invece di andare via in qualsiasi altro posto dove lo accoglierebbero a braccia aperte per le sue insulse idee. Vede, noi andiamo d’accordissimo con gli ebrei e con tutti, purché rispettino le nostre normative e si comportino decentemente; “Sei un rinnegato e infame. Actung: ti taglieremo quella testa di cazzo che hai”; “Tosti, sei una faccia di cazzo e sei pure uno stronzo”; “Tosto Tosti, vi do del voi come si usava fare con i lacchè ed i mezzadri perché non meritate né il nobile lei né l’amichevole tu. Siete un bambino un po’ ritardato mentalmente, cocciuto e cretino. Peccato che non esista più il Tribunale del Santo Uffizio per il motivo che assisterei con piacere all’auto da fe’ e conseguente rogo.....”; “Ma è possibile che ci si mettano anche gli ebrei a contestare il nostro crocifisso? Ma non si rende conto che nessuno si può permettere di contestare la nostra cultura, la nostra religione? Tutti coloro che non si trovano bene nel nostro paese, che hanno pretese assurde, perché non se ne vanno nei paesi più consoni alla loro natura? siamo italiani, siamo cattolici e il nostro simbolo deve rimanere dove è sempre stato. Il razzismo, caro giudice, lo avete creato voi con l’olocausto e lo create, imperterriti, nel vostro odio viscerale contro gli islamici, stessa razza, e verso i cattolici.... Se lei è ebreo, perché non va ad abitare in Israele, così potrà vedere il suo simbolo in ogni luogo? Lei vive in Italia, esercita in una nazione sì laica, ma con profonde radici cristiane cattoliche....Inoltre, quando non ci si trova bene in un posto, se si è persone oneste e degne di rispetto (parole per lei aliene) SI DANNO LE DIMISSIONI e si parte per la nazione amata. Comodo lucrare sul popolo e pretendere che, per far piacere a lei, noi cattolici si debba togliere il nostro crocifisso per non disturbare la sua mente”.
Si da il caso, però, che in Italia e nel Mondo non esistano soltanto questi “devoti galantuomini cattolici” e non esistano soltanto i giudizi fustigatori e sprezzanti della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, ma esistano anche persone ed associazioni che sono informate al rispetto dei diritti umani e dei principi fondamentali che reggono gli Stati democratici moderni, le quali, guarda caso, la pensano in un modo “un tantinello” diverso dalla Sezione disciplinare del CSM. Il dr. Tosti ha avuto modo di rilasciare interviste a televisioni e radio francesi, canadesi, israeliane, australiane, belghe, spagnole, arabe ed italiane ed ha potuto ascoltare solo un coro unanime di giornalisti che, pubblicamente, hanno manifestato sconcerto e incredulità per il livello di inciviltà morale e giuridica in cui versa la Colonia del Vaticano. La locuzione più ricorrente per descrivere la situazione italiana è stata quella di "Medio Evo". Come risulta dai documenti prodotti nel sottofascicolo “D” del dr. Tosti, si sono attivate a livello planetario (Belgio, Francia, USA, Polonia, Spagna, Canada, Argentina, Messico, Uruguay, Svizzera, United Kingdom, Massachusetts, Irlanda, Nepal, Lussemburgo, Cameroun, Portogallo, Islanda, e financo dall’Italia) un centinaio di associazioni umaniste e laiche, che hanno manifestato il proprio sconcerto e che hanno appoggiato pubblicamente la lotta solitaria del dr. Luigi Tosti per l’affermazione di principi che in un qualsiasi altro Paese di questo Pianeta (che non sia ovviamente una Colonia del Vaticano come l’Italia) sono normalmente rispettati. Decine di migliaia di persone hanno poi sottoscritto “petizioni” a favore del dr. Tosti affinché cessassero le persecuzioni giudiziarie ai suoi danni. Al dr. Tosti sono pervenute migliaia di lettere il cui contenuto e i cui giudizi non sembrano essere propriamente “in sintonia” con la sensibilità giuridica e con i giudizi sprezzanti dei sei giudici della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura. Ad esempio (cfr. sottofascicolo “D”):
1°). "La condanna che la colpisce per la sua fedeltà ai valori della Costituzione e la sua coerente azione la onora ed insieme disvela la trista Italia in cui la Democrazia e la sua legalità è ignota o avversata. Questo Paese a sovranità limitata non si può permettere neppure il lusso della civile vergogna"
2°). "Le esprimo la mia solidarietà per la fermezza e la "spina dorsale", accessorio indispensabile e raro, dimostrate."
3°). "Grazie della battaglia che stai sostenendo a nome di tutti, anche a nome di quelli che non lo hanno ancora capito. Io sono buddista e lotto per la vera libertà dell'uomo anche a nome dei miei figli."
4°). "Questa e.mail per esprimerle la mia personale solidarietà assieme alla speranza che la sua giusta protesta sia un luminoso precedente per i molti che non hanno il suo coraggio"
5°). "Le giungano le espressioni della mia solidarietà ed ammirazione per la coraggiosa battaglia di civiltà che con coraggio ed in solitudine sta conducendo".
6°). "Abbiamo seguito il suo processo e voglio assicurarla dell'assoluta simpatia del movimento laico belga. Pensiamo di pubblicare un articolo sul nostro mensile "Espace de Libertès". E' incredibile che l'Italia sia così arretrata....."
7°). "Come semplice cittadina non posso che esprimerle la mia indignazione e il mio disagio di fronte a una sentenza che ci porta ai tempi dell'Inquisizione. Purtroppo il suo caso non ha avuto il risalto dovuto sui media, troppo occupati a fare da megafono per ogni starnuto del Vaticano"
8°). "La tua condanna è una vergogna per il mondo libero."
9°). "Votre combat et votre courage honorent le genre humain"
10°). "J'ai été scandalisée par ce qui nous arrive. Sachez que tous mes adhérents et sympathisants vous soutiennent dans votre combat. Je vous souhaite beaucoup de courage pour lutter contre l'imbécillité et la crédulité dominantes".
Tutto queste lettere dovrebbero indurre ad un momento di riflessione i saccenti, che dovrebbero cominciare ad interrogarsi sul “perché mai” esistano, su questo “Pianeta”, milioni di persone che la pensano in un modo “un tantinello” diverso da come la pensano l’Avv. Nicola Mancino, Presidente del CSM, e gli altri componenti della Sezione disciplinare Avv. Michele Saponara, dott. Giuseppe Maria Berruti, dott. Giuseppe Romano, dott. Mario Fresa e dott.ssa Elisabetta Maria Cesqui. Ci si dovrebbe interrogare sul perché esistano nel Mondo tanti altri “criminali sovversivi” come il dr. Tosti che, guarda caso, come lui credono che in uno Stato democratico moderno non solo non si possa consentire che nelle scuole di Adro venga esposto un simbolo partigiano politico come il “sole delle Alpi”, ma anche che non ci si possa neppure esporre -e per lo stesso identico motivo- il simbolo altrettanto partigiano dei cattolici.
Nel 1.600 un tal Giordano Bruno veniva condannato al rogo da un Tribunale dell’Inquisizione che criminalizzava, fustigava e disprezzava il suo “comportamento ribelle”, cioè perché costui aveva “osato “sfidare” le Istituzioni” con la sua “pretestuosa” “pretesa” di “esercitare il diritto di libertà di pensiero”. Di lì a poco un altro Tribunale della Santa Inquisizione criminalizzava, fustigava e disprezzava il “comportamento ribelle” di tal Galileo Galilei, condannandolo al carcere perché anche lui aveva “osato “sfidare” le Istituzioni” con la sua “pretestuosa” “pretesa” di “far prevalere la sua libertà di pensiero e di ricerca scientifica sulle “sacre” menzogne della Bibbia”.
A distanza di poco più di 400 anni non sembra che le cose siano granché cambiate nel Regno di Vaticalia, visto e considerato che la Sezione disciplinare del CSM ha rimosso dall’ordine giudiziario Luigi Tosti perché costui -come ha affermato prima l’ex Presidente dell’ANM dott. Mario Cicala e poi il CSM- “ha osato sfidare” le Istituzioni, rifiutandosi di subire la lesione dei suoi diritti di libertà e di eguaglianza religiosa e di rispetto del principio di laicità”.
Sarà forse il caso che qualcuno -sicuramente non il Tosti che, sino a prova contraria, è l’UNICO magistrato italiano che ha avuto il coraggio di rifiutarsi di “stuprare” la Costituzione e i diritti inviolabili dei cittadini italiani- cominci a vergognarsi per la propria indifferenza e carenza di senso civico. Scriveva Bertold Brecht: “Prima vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi davano un po' fastidio. Poi vennero a prendere i comunisti e non dissi niente perché non ero comunista. Un giorno poi vennero a prendere me, ma non era rimasto più nessuno per protestare.”

UNDICESIMO MOTIVO
Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione - (art 360 n. 5 C.P.C.).
La sezione disciplinare ha utilizzato un documento prodotto dal Tosti a sua difesa -e cioè le “osservazioni formulate dal Tosti in data 9 novembre 2005 avverso l’assegnazione delle funzioni di giudice tutelare e di tutti i ricorsi per ingiunzione”- per creare una “prova” surrettizia dalla quale dedurre che “il dr. Tosti non aveva né l’interesse né l’intenzione di attenuare le ricadute negative della sfida da lui lanciata all’amministrazione, tanto che ebbe ad opporsi decisamente alle modifiche nella distribuzione degli affari che gli destinavano in maggior quantità attività che non richiedevano la ritualità dell’udienza, mostrando con ciò ancora una volta la volontà di piegare la propria funzione alla spasmodica affermazione di petizioni di principio”.
Questa ricostruzione dei fatti è FALSA, come inconfutabilmente dimostrato dalla lettura degli altri brani delle medesime “osservazioni” del 9.11.2005 (cfr. sottofascicolo “C” dell’incolpato) che il CSM ha capziosamente obliterato e che qui di seguito si trascrivono:
“la vera motivazione degli ulteriori incarichi non ha nulla a che vedere con i nuovi arrivi dei due magistrati, ma dipende dalla circostanza che si è tratto lo spunto dalla discriminazione religiosa perpetrata ai miei danni per aggravarla ulteriormente con provvedimenti altrettanto discriminatori: lo scrivente, infatti, non è mai stato dichiarato inidoneo ad esercitare le funzioni di giudice monocratico e collegiale civile, di GIP, di giudice delle esecuzioni immobiliari, della cause agrarie e via dicendo e, per altro verso, ha l'interesse e il diritto di esercitare a pieno quelle funzioni, e non ad esercitare incarichi marginali e di scarsissimo impegno professionale. Dal momento che quelle che vengono definite "battaglie ideali" sono, tra l'altro, le battaglie per non essere discriminato dal datore di lavoro a causa del mio credo, non posso accettare che alla discriminazione in atto si aggiungano altri provvedimenti discriminatori -come quello in esame- che mi penalizzano professionalmente proprio in ragione del mio credo.”
Come si vede, il dr. Tosti non si è “opposto decisamente alle modifiche” tabellari per “piegare la propria funzione alla spasmodica affermazione di petizioni di principio” -come falsamente ricostruito il CSM- ma ha affermato l’esatto contrario, e cioè che egli voleva esercitare appieno le sue funzioni con tutta la loro gravosità, e non essere marginalizzato nell’espletamento di mansioni di scarsissimo impegno professionale, cioè voleva seguitare a svolgere regolarmente i processi a lui affidati. La sentenza è dunque viziata da capziosa e insufficiente motivazione (art. 360 n. 5 cpc), perché dai brani che sono stati dolosamente obliterati dalla Sezione disciplinare -e che il ricorrente ha puntualmente riportato nel loro testuale tenore- emerge in modo inconfutabile che la ricostruzione dei fatti è diametralmente opposta a quella maliziosamente congetturata dal CSM.

DODICESIMO MOTIVO
Nullità della sentenza per violazione dell’art. 477 vecchio c.p.p. (artt. 522 e 178, lett. c) nuovo C.P.P.), degli articoli 24 e 111 della Costituzione e degli articoli 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con legge 4.8.1955 n. 848 - Motivazione omessa e insufficiente (art. 360, n. 4 e 5, del C.P.C.).
Il CSM incappa anche in vizio di extrapetizione allorché afferma che il Tosti, oltre a non aver tenuto le udienze (sul che non vi è contestazione), “ha mostrato faziosità, aggressività verbale e scarso equilibrio, andando alla ricerca di reazioni decise attraverso iniziative provocatorie (non ultima a titolo esemplificativo, la ostensione in udienza di uno strumento di tortura in uso presso il tribunale dell’Inquisizione, la pera di ferro, diretta ad evocare scenari del tutto impropri rispetto all’oggetto in contestazione e alle modalità del giudizio”).
Infatti, i presunti comportamenti dai quali il CSM ha dedotto questi giudizi di “faziosità, aggressività verbale e scarso equilibrio” non sono mai stati contestati nel presente processo e, oltretutto, risultano totalmente indeterminati, perché non si capisce a quali “fatti materiali” il CSM alluda. L’unico “fatto materiale” che viene esplicitato è quello della esibizione della pera metallica nel corso del dibattimento. Questo episodio, tuttavia, si è verificato in data 22.1.2010 e, dunque, non fa parte dell’incolpazione: desta dunque sconcerto che esso sia stata utilizzato per supportare la condanna e l’irrogazione della sanzione. Ma desta ancor più sconcerto che il dr. Tosti sia stato surrettiziamente “censurato” per aver esercitato, durante lo svolgimento del dibattimento, il suo inviolabile diritto di difesa. L’esibizione della pera metallica in uso ai criminali Tribunali della Santa Inquisizione Cattolica, infatti, è stata effettuata dal dr. Tosti sia per confutare gli oltraggiosi giudizi “positivi” espressi del Consiglio di Stato sui “valori” del “crocifisso” (“appare difficile trovare un altro simbolo, diverso dal crocifisso, atto ad esprimere l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana”), sia per supportare gli esempi scritti nelle sue memorie e che, oggi, sono stati più volte ribaditi in questo ricorso per cassazione.
Il dr. Tosti capisce il disagio dell’Avv. Nicola Mancino e dei giudici cattolici a vedersi sbattere in faccia la prova materiale dei trascorsi criminali della loro Chiesa, quando le pere metalliche venivano inserite nelle vagine delle donne che avevano avuto rapporti carnali col demonio, negli orifizi anali degli omosessuali e nelle bocche dei bestemmiatori, prima di essere allargate con giri di vite e procurare la scempio di tali cavità con i rebbi: questo, tuttavia, non può essere un motivo valido né per mettere la mordacchia al dr. Tosti -quando esercita il suo diritto costituzionale di difesa e riferisce fatti VERI- oppure per mettere la mordacchia alla RAI ed alle altre televisioni che hanno chiesto di poter effettuare le riprese televisive, vedendosi grottescamente censurare il loro diritto inviolabile di cronaca perché a giudizio della Sezione disciplinare il “caso Tosti” ......non doveva essere di loro interesse!! Una censura, quest’ultima, per la quale -e questo è un altro aspetto grottesco della sentenza- sono state spese ben due pagine di motivazione, a fronte del totale “vuoto motivazionale” che è stato invece riservato alla disamina delle fondatezza o meno delle “giustificazioni” del rifiuto del Tosti.
TREDICESIMO MOTIVO
Nullità della sentenza per violazione dell’art. 477 vecchio c.p.p. (artt. 522 e 178, lett. c) nuovo C.P.P.) in relazione all’art. 112 c.p.c., degli articoli 24 e 111 della Costituzione e dell’articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con legge 4.8.1955 n. 848 - Motivazione omessa e insufficiente (art. 360, n. 4 e 5, del C.P.C.).
La Sezione disciplinare ha rimosso il dr. Tosti perché costui non ha accettato la proposta “mediatoria” dell’Amministrazione di tenere le udienze nella sua stanza o nell’aula-ghetto: questa proposta mediatoria, ad avviso del CSM, gli avrebbe infatti consentito di poter tenere le udienze nel pieno rispetto dei suoi diritti inviolabili. Il CSM non ha però considerato (anzi: ha deliberatamente obliterato) la circostanza che il dott. Tosti aveva avanzato anche lui una proposta per seguitare a tenere le udienze nel rispetto dei suoi diritti inviolabili: quella di poter esporre, a fianco dei crocifissi, la propria menorà ebraica.
Orbene, il ricorrente sostiene che, trattandosi di circostanza di fatto che risultava dagli atti (oltre che dalla contestazione originaria) e, in ogni caso, di circostanza di fatto addotta dall’incolpato a fondamento di una propria “eccezione” difensiva, il CSM non poteva sottrarsi all’obbligo di pronunciarsi su di essa, impostogli dalle succitate norme del cod. proc. pen. e dall’art. 112 del c.p.c., oltreché dalle norme costituzionali e convenzionali sull’equo processo.
Quest’obbligo decisorio era poi essenziale nel caso di specie, se si considera che la “proposta mediatoria” del Presidente del Tribunale risulta essere -come sopra denunciato- assolutamente ILLECITA, ILLEGALE, CRIMINALE e perfettamente INUTILE, mentre la proposta del dr. Tosti di essere autorizzato ad esporre la sua menorà era, per contro, perfettamente LECITA, PRATICABILE e, anzi, DOVEROSA alla luce della normativa Costituzionale, Convenzionale e comunitaria che vieta qualsiasi atto di discriminazione religiosa e che impone azni ai datori di lavoro -anche pubblici- di evitare qualsiasi forma di discriminazione diretta o indiretta a discapito dei dipendenti (art. 2 del D.Lgs. n. 216/2003).
Non si giustifica, dunque, che la Sezione disciplinare abbia faziosamente obliterato l’eccezione difensiva dell’incolpato ed abbia invece considerato e valutato la “proposta mediatoria” del datore di lavoro, ritenendola addirittura “idonea” e decisiva ai fini del giudizio.
Questa faziosità è ancor più ingiustificabile se la si rapporta alle motivazioni esposte dalla Sezione disciplinare del CSM nell’ordinanza di sospensione cautelare, laddove si è adombrato che la sentenza n. 196/1987 della Corte Costituzionale suggerisse di ricorrere agli “opportuni rimedi approntati dall’ordinamento” per ovviare alla crisi di “coscienza” di un giudice tutelare che non intendeva autorizzare una minorenne ad abortire (così motivava la Sezione: “non è di scarso rilievo il fatto che il presidente del tribunale, recependo anche un suggerimento della corte costituzionale, che, nella citata sentenza n. 196 del 1987, indicava un possibile rimedio delle situazioni di conflitto tra imperativi della coscienza e adempimento dei doveri funzionali del magistrato nell’adozione di adeguate misure organizzative interne agli uffici giudiziari, ha offerto al dott. Tosti una soluzione temporanea, cioè in attesa della decisione giudiziaria, apprestando per lui e per gli altri giudici del tribunale un’aula nella quale non era esposto il crocifisso).
Ebbene, a prescindere dalla circostanza che è FALSO che il Presidente del Tribunale di Camerino abbia mai “recepito un suggerimento della corte costituzionale” (in realtà il dr. Alocchi ha avanzato la proposta dell’aula-ghetto “per ossequio al Presidente della Corte di Appello” che l’aveva ideata), è assolutamente ingiustificabile che la Sezione disciplinare abbia omesso di valutare -sempre alla luce del “suggerimento” della Corte Costituzionale- se la proposta del dr. Tosti fosse praticabile, legittima e, anzi, doverosa.
E se si considera, poi, che la condanna alla rimozione del dr. Tosti poggia sul “disservizio” che costui avrebbe procurato all’amministrazione della giustizia, è assolutamente ingiustificabile che la Sezione disciplinare abbia omesso di esaminare e decidere un punto controverso che, se ritenuto fondato, avrebbe consentito il regolare svolgimento delle udienze, evitando così qualsiasi “disservizio”.
Questa eclatante OMISSIONE decisoria può in realtà essere “giustificata” (si fa per dire) solo da faziosità ed animosità nei confronti dell’incolpato, cioè perché i giudici della Sezione disciplinare non erano in grado di giustificare -neppure con due righe di motivazione- quali potessero essere le “giustificazioni giuridiche” del grave comportamento “discriminatorio” che scaturisce dalla circostanza che nelle aule giudiziarie italiane si consente l’ “ingresso” ai simboli religiosi dei cattolici e si vieta, per converso, l’ingresso ai simboli religiosi degli ebrei (e delle altre religioni) perché ritenuti “inferiori”.
Il CSM avrebbe dovuto infatti rispondere alle domande imbarazzanti formulate dal Tosti nelle sue memorie. E cioè: che cosa avete, voi Governanti e voi giudici cattolici, contro gli ebrei? Che cosa avete contro la menorà ebraica? La sua visione, forse, turba la vostra sensibilità? Per quale motivo avete impedito al dr. Tosti di esporre la sua menorà a fianco del vostro Crocifisso? Eppure il dr. Tosti vi aveva esplicitamente avvisato che la “sua” menorà non era razzista e, quindi, non aveva alcun problema a stare a fianco del simbolo del “suo fratello minore”. E allora? Perché gli avete impedito -e tutt’ora gli impedite- di esporre nelle aule la menorà ebraica?
Eppure il dr. Luigi Tosti vi ha informato che questa banale autorizzazione sarebbe stata di per sé sufficiente a consentirgli di seguitare a tenere le udienze nelle aule giudiziarie. E allora, qual’era -e qual’è- il vostro problema, non il suo? Forse la visione della menorah del vostro “fratello maggiore” vi crea nausea e disgusto insopportabili, come la visione della pelle nera li crea ai razzisti? Perché avete innescato la sua reazione legittima, cioè il rifiuto di tenere le udienze nelle aule dove gli veniva vietato di esporre il suo simbolo religioso e dove invece veniva consentito il libero accesso al vostro simbolo? Eppure sarebbe stato sufficiente autorizzargli l’esposizione della menorà: sarebbero state così evitate ai “cittadini che chiedono giustizia” quelle conseguenze negative che oggi, grottescamente, tentate di addebitare al suo comportamento. Eppure sarebbe anche adesso sufficiente autorizzarlo ad esporre le sue menorà per fargli riprendere udienze. Però non lo fate. Perché non lo fate? Come mai non lo fate?
Eppure l’art. 3 della Costituzione, cari Governanti Cattolici ed egregi Giudici della Sezione disciplinare del CSM, sancisce che “tutti i cittadini -quindi anche gli ebrei- “hanno pari dignità e sono uguali dinanzi alla legge, senza distinzione di religione”.
Eppure l’art. 8 della Costituzione, cari Governanti Cattolici ed egregi Giudici della Sezione disciplinare del CSM, sancisce che “tutte le confessioni religiose -e quindi anche l’ebraismo- sono egualmente libere davanti alla legge”.
Eppure l’art. 19 della Costituzione, cari Governanti Cattolici ed egregi Giudici della Sezione disciplinare del CSM, sancisce che “tutti -e quindi anche gli ebrei- hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, di farne propaganda e di esercitarne il culto anche in pubblico”.
Eppure, cari Governanti Cattolici ed egregi Giudici della Sezione disciplinare del CSM, l’art. 9 della Convenzione internazionale sui diritti dell’Uomo sancisce che “ogni persona -e quindi anche l’ebreo- ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; questo diritto importa la libertà di cambiare religione o di pensiero, come anche la libertà di manifestare la propria religione o il proprio pensiero individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, per mezzo del culto, dell’insegnamento, di pratiche e di compimento di riti “.
Eppure, cari Governanti Cattolici ed egregi Giudici della Sezione disciplinare del CSM, l’art. 14 della medesima convenzione (“Divieto di discriminazione”) sancisce che “il godimento dei diritti civili e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere garantito a tutti, quindi anche agli ebrei, senza alcuna distinzione, fondata soprattutto sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o altre opinioni...”
Eppure l’art. 58 del regolamento penitenziario (D.P.R. 30.6.2000 n. 230), cari Governanti Cattolici ed egregi Giudici della Sezione disciplinare del CSM, accorda a tutti i detenuti -e quindi anche agli ebrei- il sacrosanto diritto di esporre, nella propria camera o nel proprio spazio di appartenenza, immagini e simboli della propria confessione religiosa, evitando così qualsiasi possibile discriminazione tra i credenti o assurdi “privilegi” a favore dei cattolici.
Eppure, cari Governanti Cattolici ed egregi Giudici della Sezione disciplinare del CSM, l’art. 43 del D. L.vo n. 286/1998, titolato “Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” sanziona come atto discriminatorio “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulle........ convinzioni e pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica” e stabilisce che “compie un atto di discriminazione... il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione....... di appartenente ad una determinata..... religione lo discriminino ingiustamente” nonché “il datore di lavoro o i suoi preposti i quali....... compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una.............confessione religiosa”.
Eppure, cari Governanti Cattolici ed egregi Giudici della Sezione disciplinare del CSM, l’art. 43 del D.L.vo 286/1998 sancisce che “Quando il comportamento....... della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi..... religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione”.
Eppure, cari Governanti Cattolici ed egregi Giudici della Sezione disciplinare del CSM, l’art. 2 del D. Lgs. n. 216/2003 sanziona qualsiasi forma di “discriminazione” da parte del datore di lavoro pubblico o privato, e cioè sia la “discriminazione diretta” (“quando, per religione...... una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga”) che quella “indiretta” (“quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione ...... in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”), sicché è a dir poco lampante che lo Stato non può -salvo commettere un patente atto discriminatorio- esporre l’idolo dei cattolici nelle aule e vietare allo “sporco” ebreo di esporre il proprio simbolo.
Eppure lo Stato italiano, cari Governanti Cattolici ed egregi Giudici della Sezione disciplinare del CSM, ha sottoscritto la convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, fatta a Strasburgo il 1° febbraio 1995 e ratificata con Legge 28 agosto 1997, n. 302, con la quale si sancisce all’art. 6 che “Le Parti incoraggeranno lo spirito di tolleranza ed un dialogo inter-culturale, ed adotteranno misure effettive per promuovere il rispetto e la comprensione reciproca, nonché la cooperazione tra tutte le persone che vivono sul loro territorio, a prescindere dalla loro identità ......religiosa....... e si s’impegnano ad adottare ogni misura appropriata per proteggere le persone che potrebbero essere vittime di minacce o di atti di discriminazione, di ostilità o di violenza in ragione della loro identità...... religiosa”.
Eppure, cari Governanti Cattolici ed egregi Giudici della Sezione disciplinare del CSM, l’art. 2, parte I^, della L. 8.3.1989 n. 101 ha sancito che “in conformità ai principi della Costituzione, è riconosciuto il diritto di professare e praticare liberamente la religione ebraica in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto e i riti”, che “é assicurata in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa, senza discriminazione tra i cittadini e tra i culti”.
Eppure l’art. 3 della legge 13.10.1975, cari Governanti Cattolici ed egregi Giudici della Sezione disciplinare del CSM, punisce con la reclusione sino a tre anni “chi commette atti di discriminazione per motivi...religiosi”.
E allora? Perché mai, a fronte di una normativa costituzionale, internazionale e penale così “chiara” e così ostile ad ogni forma di discriminazione religiosa, gli Organi Istituzionali della Repubblica Confessionale Cattolica italiana hanno osteggiato il diritto del Tosti di esporre la menorà ebraica a fianco del crocifisso, cioè di godere della stessa dignità umana accordata alla superiore “razza” cattolica? Ritenete forse che non sia un atto di discriminazione razziale consentire ai “familiari” dei passeggeri di pelle bianca di potersi imbarcare sugli aerei e vietarlo, invece, ai familiari dei passeggeri di pelle nera? Perché i giudici della Sezione disciplinare hanno intenzionalmente glissato questo aspetto “razzistico-religioso” della vicenda? Forse per “imbarazzo” o forse perché hanno anch’essi “qualcosa” contro gli ebrei? Forse gli ebrei sono considerati esseri appestati, che non possono vantare gli stessi diritti dei Giudici confessionali cattolici?
Il ricorrente è da sette anni che attende vanamente una mezza riga di risposta a queste domande: guarda caso nessun giudice ha risposto, perché evidentemente nessun giudice è in grado di fornire una risposta. Questo non giustifica, però, che la Sezione disciplinare del CSM, non paga di aver calpestato l’OBBLIGO costituzionale di pronunciarsi sull’eccezione del dr. Luigi Tosti, abbia poi stigmatizzato come “enfatici e chiaramente offensivi” i timori che il dr. Tosti ha manifestato nella sua memoria del 22.1.2010, e cioè che si intendeva ancora una volta “obliterare un fatto vero, e cioè che la sua condotta di rifiuto era “assertivamente motivata (non solo) dalla presenza del crocifisso nelle aule”, ma anche dalla “dalla mancata autorizzazione ad esporre, a fianco del crocifisso, la menorà ebraica...perché non solo si vogliono creare sporche e pretestuose FALSITA’ per “incastrarlo”, ma si volevano anche occultare, obliterare e sottrarre al giudizio della Sezione disciplinare circostanze, VERE, che avevano un rilievo difensivo a dir poco ciclopico e nei confronti delle quali i suoi “accusatori” avevano già dimostrato di annaspare e di non sapere a quale “Santo” votarsi per confutarle”: guarda caso, infatti, i timori del Tosti si sono puntualmente rivelati pienamente fondati, perché i giudici della Sezione disciplinare del CSM, guarda caso, hanno fatto letteralmente scomparire dal thema decidendum questo punto controverso e decisivo.
A chiusura di questo motivo va puntualizzato che la Consulta ha sì ipotizzato nella sentenza n. 196 del 1987 che si potesse ovviare all’“obiezione di coscienza” del giudice tutelare con “adeguate misure organizzative”, ma ha inteso riferirsi solo e soltanto ai “rimedi già approntati dall’ordinamento”, e cioè ai rimedi LEGALI e LECITI, che cioè sono già previsti dalla legge e non sono contrari a legge (ad esempio: “astensione per gravi motivi” dalla trattazione del caso singolo, ex art. 51 C.P.C., oppure richiesta di una variazione tabellare per essere esonerati in via permanente dalle mansioni di giudice tutelare). Nel caso del dr. Tosti, però, l’allestimento di un’aula-ghetto in deliberata violazione della circolare del Ministro fascista non era un rimedio “legale” ma, al contrario, era un rimedio “illegale” e “illecito”. Per contro, la “richiesta” del Tosti di esporre la propria menorà era perfettamente lecita, possibile e, anzi, doverosa, perché imposta dall’art. 2 del D.Lgs n. 216/2003. Dunque la sentenza del CSM è affetta anche da vizio di insufficienza di motivazione, perché ha obliterato questa circostanza di fatto (possibilità di autorizzare il dr. Tosti ad esporre la menorà ebraica) che, se valutata, avrebbe dovuto indurre i Giudici a ritenere che la responsabilità del rifiuto di tenere le udienze era da attribuire al datore di lavoro -e non al dipendente- perché gli imponeva di lavorare sotto l’incombenza dei crocifissi cattolici -pena il “licenziamento”- ma gli vietava di esporre i propri simboli.
Ma non è tutto. Risulta dagli atti che il dott. Tosti venne anche gravato di ulteriori incombenze per “compensare” il minor carico di lavoro conseguente alla mancata tenuta delle udienze, sicché, di fatto, furono apprestate quelle che la Corte Costituzionale definisce “adeguate misure organizzative” atte a risolvere -almeno nell’ottica dell’Amministrazione- la problematica della lesione dei diritti inviolabili del dipendente. In particolare gli furono attribuite nel settembre 2005 le “funzioni di giudice tutelare, in sostituzione della dott.ssa Rotunno, nonché tutti i ricorsi ingiuntivi e di tutti i ricorsi cautelari” attribuiti agli altri magistrati. Queste modifiche vennero poi formalizzate con la variazione tabellare del 14.11.2005, che venne definitivamente approvata il 26.1.2006 dal Consiglio Giudiziario il quale -si badi bene- dava atto che “la redistribuzione del carico di lavoro appariva nella sostanza equo e non sproporzionato rispetto agli altri magistrati dell’ufficio” perché “il Capo dell’ufficio aveva dovuto farsi carico della funzionalità dell’ufficio attesa la condotta tenuta dal dott. Tosti, sicché la soluzione adottata con la variazione tabellare appariva in linea con tale finalità ed espressione della discrezionalità tecnica che competeva al Capo dell’ufficio” (cfr. il sottofascicolo “TABELLE 2005-2006 Trib. Camerino”, prodotto dall’incolpato).
Dunque il CSM avrebbe dovuto tenere conto di queste circostanze di fatto che elidono (o comunque attenuano) la circostanza di fatto che il dr. Tosti si rifiutava di tenere le udienze.
Va evidenziato che il dr. Tosti ha chiesto (come risulta dal deposito della lista testi in atti) che il Presidente dr. Alocchi venisse chiamato a testimoniare sulla “circostanza che in seguito al suo rifiuto il dr. Tosti era stato gravato di ulteriori mansioni lavorative per operare una “compensazione” e, inoltre, “sugli effetti che la sua sospensione cautelare, intervenuta l’1.2.2006, aveva avuto nell’ambito dell’efficienza dell’Ufficio del Tribunale e, in particolare, su come e su chi lo avesse sostituito nelle mansioni che effettivamente svolgeva sino alla data del 31.1.2006: il CSM non ha ovviamente ammesso la prova. Queste circostanze di fatto si debbono dunque ritenere pienamente confermate, oppure si deve annullare la sentenza per insufficienza motivazionale su punto controverso e decisivo perché, se il CSM avesse tenuto conto di queste circostanze, non avrebbe potuto affermare -come in realtà ha fatto- che il dr. Tosti ha creato un disservizio ai danni degli utenti, per ovviare al quale era necessario, in primis, sospenderlo cautelarmente dalle funzioni e dallo stipendio e, in secundis, rimuoverlo dalla magistratura.
Infine il provvedimento di sospensione cautelare del Tosti appare inficiato da contraddittorietà della motivazione per sviamento di potere, cioè perché sono state perseguite delle finalità che sono diametralmente opposte a quelle che il provvedimento dichiarava di voler perseguire.
Col provvedimento di sospensione cautelare n. 112/2006, infatti, la Sezione disciplinare ha ritenuto che il dr. Tosti dovesse essere allontanato dal servizio perché sussisteva il “periculum in mora rappresentato dalla circostanza che “la prolungata assenza del dott. Tosti aveva messo in crisi il piccolo tribunale di Camerino, anche per l’impossibilità di ricorrere ad applicazioni da altri uffici del distretto” e che “la sua assenza, oltre a produrre ulteriore carico di lavoro sui magistrati in servizio, non poteva non avere provocato disservizi per gli utenti”. La contraddittorietà per sviamento scaturisce dalla circostanza che i risultati che sono conseguiti dalla “sospensione cautelare” sono diametralmente opposti a quelli che si è asserito di voler perseguire. Infatti è pacifico, e comunque dimostrato dai documenti appena sopra menzionati (e dalla mancata assunzione della prova per testi), che il dr. Tosti, pur rifiutandosi di tenere le udienze, ha seguitato a svolgere tutte le altre mansioni e, inoltre, è stato immediatamente gravato di ulteriori mansioni per “compensare” la mancata tenuta delle udienze. Pertanto, la “sospensione cautelare” del dr. Tosti nessun altro effetto ha avuto, se non quello di far gravare sugli altri magistrati tutte le attività che il dr. Tosti espletava alla data del 31.1.2006, con conseguente “TOTALE aggravio di lavoro sui magistrati in servizio e TOTALE disservizio per gli utenti”. E questa situazione, che è iniziata il 1°.2.2006, si è protratta e seguita a protrarsi ancora oggi. E’ dunque inconfutabile che la “motivazione” reale perseguita dal CSM non è quella esternata nel provvedimento cautelare -cioè quella di salvaguardare gli utenti- ma è quella di rimuovere un magistrato “scomodo” a tutti i costi, ancorché ciò abbia generato un disservizio a carico degli utenti.
E questa contraddittorietà si è riverberata ovviamente nella sentenza di condanna, perché la Sezione disciplinare ha preferito rimuovere dalla magistratura un magistrato “scomodo” per i cattolici (ma tutt’altro che “scomodo” per le persone civili) a totale discapito dei cittadini e a totale discapito del principio supremo di laicità e dei diritti inviolabili di libertà religiosa e di eguaglianza.

QUATTORDICESMO MOTIVO
Violazione e falsa applicazione art. 59, 9° ed 11° comma, del D.P.R. 16.9.1958 n. 916, dell’art. 28 del R.D. Lgs. 31.5.1946 n. 511, dell’art. 3 del Cod. Penale, dell’art. 185 C.P.P. e dell’art. 111 della Costituzione.
Con memoria difensiva del 16 gennaio 2010 l’incolpato ha sollevato diverse eccezioni preliminari e, in particolare, ha eccepito la decadenza del procedimento disciplinare, ex art. 59, 9° comma, del D.P.R. 16.9.1958 n. 916, perché non era stato rispettato il termine annuale per la “comunicazione all’incolpato del decreto che fissava la discussione orale davanti alla sezione disciplinare”. Il primo procedimento disciplinare era stato infatti attivato il 22.9.2005 e “sospeso” poi dal P.G. con provvedimento del 14.3.2006, cioè dopo il decorso di circa sei mesi, in attesa che venisse definito il processo penale per il reato di omissione di atti di ufficio. In data 17.2.2009 era poi intervenuta la sentenza definitiva della Cassazione penale che aveva assolto il dr. Tosti con la formula “perché il fatto non sussiste”: il termine annuale aveva dunque ripreso a decorrere da tale data. La notifica del decreto di fissazione della discussione era intervenuta però il 22.12.2009, cioè dopo ulteriori dieci mesi, sicché si era ampiamente maturata la decadenza annuale. L’incolpato eccepiva anche la nullità del decreto di sospensione della procedura disciplinare, deliberato il 14.3.2006 dall’Avv. Generale Antonio Siniscalchi con effetti retroattivi: non ricorrendo infatti la fattispecie prevista dall’ultimo comma dell’art. 59 del D.P.R. 16.9.1958 n. 916 (cioè l’ipotesi della sospensione necessaria dei termini di decadenza in pendenza di procedimento penale per lo stesso fatto), la delibera di sospensione doveva essere presa dal giudice (cioè dalla Sezione disciplinare) ex art. 18 e 3 vecchio C.P.P., e non unilateralmente dal P.M. Sul punto cfr. Sez. Disciplinare, sent. 15.3.1991, proc. n. 6/90: “nel caso in cui sia iniziata l’azione penale per il medesimo fatto oggetto del procedimento disciplinare, per la sospensione del procedimento disciplinare è sempre necessario un provvedimento formale di sospensione affinché sia accertata e formalmente dichiarata la corrispondenza dei fatti per i quali è stata promossa azione penale a quelli per per i quali è iniziato il procedimento disciplinare”.
La Sezione disciplinare ha respinto entrambe le eccezioni affermando che nel caso di specie si applica il disposto dell’art. 59, comma 11° del D.P.R. n. 916/1958, in virtù del quale il corso dei termini di decadenza è sospeso di diritto in caso di “procedimento penale per lo stesso fatto materiale oggetto di verifica disciplinare”.
Il ricorrente censura questa motivazione perché il presupposto di fatto su cui si fonda non corrisponde al vero: l’incolpazione disciplinare che è stata mossa al Tosti diverge, infatti, da quella penale. Mentre, infatti, il dr. Tosti è stato sottoposto a procedimento penale per “essersi indebitamente astenuto dal tenere le udienze dei giorni 9, 10, 11, 13, 16 24, 25 e 27 maggio 2005, 6, 8, 10, 13, 20, 21 giugno e 4 luglio 2055”, il Procuratore Generale della Cassazione ha attivato il 22.9.2005 un procedimento disciplinare per un fatto diverso, e cioè per “avere, esasperando fino al limite della pretestuosità la pretesa di veder rimosso, ad opera della amministrazione dello Stato, da tutte le aule di giustizia, il crocifisso o, in alternativa, di esporre nelle medesime anche il simbolo della menorà della religione ebraica, omesso, sin dai primi giorni del maggio 2005, di svolgere la propria attività di magistrato presso il tribunale di Camerino, così sottraendosi alla doverosa prestazione del proprio servizio, che scaturiva da un rapporto di impiego sorto e tuttora in corso per sua libera determinazione; e tanto anche dopo che il Presidente del Tribunale gli aveva messo a disposizione un’aula di udienza priva di ogni simbolo religioso”.
La differenza tra le due incolpazioni è essenziale: mentre la Procura dell’Aquila ha infatti ritenuto che dalla dichiarazione di rifiuto di tenere le udienze, manifestata con la lettera del 1°.5.2005, fossero conseguiti singoli “eventi esterni”, cioè l’ “omesso svolgimento delle singole udienze”, il Procuratore Generale della Cassazione ha ritenuto, più correttamente (e l’epilogo del processo gli ha dato ragione), che dal rifiuto esternato dall’ultimatum del 1.5.05 fosse conseguita una “sottrazione del dipendente alla prestazione del servizio che scaturiva da un rapporto di impiego”, cioè una violazione di doveri di servizio che non aveva riverberato effetti pregiudizievoli “esterni”, cioè nei confronti di terzi. In buona sostanza, dalla formulazione del capo d’incolpazione disciplinare si evince che il Procuratore Generale era perfettamente consapevole (come poi asserito dalle SS.UU. penali nella sentenza assolutoria) che il comportamento tenuto dal dr. Tosti poteva avere soltanto un rilievo disciplinare, poiché dal suo rifiuto di tenere le udienze non era derivata alcun “omesso svolgimento di udienza” ma, semmai, la necessità di sostituire il dr. Tosti con altri magistrati.
Nulla impediva, dunque, che il procedimento disciplinare attivato contro il dr. Tosti potesse essere portato a termine senza attendere la decisione del processo penale, anche perché l’art. 28 del R.D. Lgs. n. 511/1946 dispone che “il procedimento disciplinare è promosso indipendentemente dall’azione civile o penale che procede dal medesimo fatto, o anche se il procedimento civile o penale è in corso”. Anzi, se si considera che il dr. Tosti aveva manifestato il suo irremovibile rifiuto di soggiacere all’imposizione dei crocifissi da parte del suo “datore di lavoro” (il dr. Tosti, infatti, non ha stipulato un contratto di lavoro con un Ente ecclesiastico, ma con un’Amministrazione dello Stato istituzionalmente laica) e che, soprattutto, egli vantava sia il diritto alla ragionevole durata del processo, ex art. 111 Costituzione, che il diritto al lavoro, ex art. 35 Cost., la definizione rapida del procedimento disciplinare appariva doverosa: se si fosse infatti ritenuto che la sua pretesa di non essere assoggettato a “crocifissi” di alcun genere da parte del Datore di lavoro era infondata, egli aveva il sacrosanto diritto di trovarsi un altro lavoro.
Il ricorrente non nega che il Procuratore Generale avrebbe potuto chiedere la sospensione del procedimento disciplinare, adducendo la pregiudizialità del processo penale in corso, ex art. 28 del R.D.Lgs. n. 511/1946 e 3 del C.P. Trattandosi, tuttavia, di pregiudiziale facoltativa (e non obbligatoria), il decreto di sospensione del procedimento disciplinare poteva essere deliberato solo dal Giudice (Sezione disciplinare) e solo col necessario contraddittorio del dr. Tosti. Il decreto unilaterale di sospensione della procedura deve dunque ritenersi nullo sia per carenza di legittimazione del P.G. che per violazione dei diritti di difesa dell’incolpato.
In ogni caso, poi, il decreto di sospensione del procedimento disciplinare, preso in data 14.3.2006, non poteva avere effetti retroattivi, perché non ricorre -contrariamente a quanto sostenuto dal CSM- l’ipotesi della sospensione necessaria contemplata dall’11° comma dell’art. 59 del D.P.R. n. 916/1958: si è dunque maturata -contrariamente a quanto sostenuto dalla Sezione disciplinare- la decadenza annuale ex comma 9 dell’art. 59.
L’ingiustificato ritardo col quale questo procedimento disciplinare è stato deciso ha prodotto conseguenze estremamente inique a discapito del Tosti. Infatti, a causa della sospensione cautelare dalle funzioni e dallo stipendio, che si protrae da quasi cinque anni, il dr. Tosti non ha potuto trovare un altro lavoro o esercitare un’altra attività, con la delirante prospettiva di dovere restituire allo Stato tutti gli emolumenti percepiti in questi cinque anni. E tutto questo è stato “disposto” unilateralmente dal P.G. allo scopo di attendere la “definizione” di un processo penale che, una volta “definito” in senso totalmente favorevole all’incolpato (cioè con la formula “il fatto non sussiste”) non ha determinato l’assoluzione dall’incolpazione disciplinare, come imposto dall’art. 29, ultimo comma, del R.D. 31.5.1946 n. 511, ed dall’art. 20 del D.L.vo n. 109/2006, bensì la “tranquilla” riattivazione della procedura disciplinare per disporre la sua rimozione dalla magistratura sulla base degli stessi identici fatti contestati sin ab initio! E questo è avvenuto, peraltro, senza che sia stata espletata la benché minima attività istruttoria, né da parte del Procuratore Generale né da parte della Sezione disciplinare.
E allora non ci si può esimere dal porre questa domanda: per quale oscuro motivo si è disposta la sospensione di un procedimento disciplinare -per la bellezza di quattro anni- quando era invece possibile “rimuovere” tranquillamente e immediatamente il dr. Tosti, senza attendere l’esito del procedimento penale? In realtà lo si poteva rimuovere subito e, in questo caso, il dr. Tosti avrebbe avuto la possibilità di trovarsi un’altra occupazione, senza crocifissi o Cristi sopra la testa, evitando il ragguardevole danno economico rappresentato dalla mancata percezione di redditi per la bellezza di cinque anni!!
P. Q. M.
si rassegnano le seguenti
CONCLUSIONI
Piaccia alle SS.UU. civili della Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso, annullare la sentenza di condanna, mandando assolto l’incolpato perché il fatto non costituisce illecito disciplinare. In subordine voglia annullare la sentenza con rinvio alla sezione Disciplinare del CSM in diversa composizione per il nuovo giudizio. Vinte le spese.
Camerino, li 23 settembre 2010

8 commenti:

Alessandro Baoli ha detto...

La mia solidarietà.

noccioletta ha detto...

Buongiorno,
nel Gennaio 2010 ero all'udienza al Csm.

Vorrei essere presente anche Martedì prossimo alla Cassazione: ho guardato sul sito della stessa ma non ho trovato un calendario che comprendesse l'udienza del'8/2/2011.

Può per favore indicarmi l'ora e l'indirizzo precisi?

Grazie,
Nicoletta
(associazione culturale Civiltà laica e Uaar)

luigitosti ha detto...

Per Piperita: l'udienza si terrà l'8 febbraio 2011 (martedì) dinanzi alle Sezioni Unite civili della Cassazione (Palazzaccio), Piazza Cavour, Roma. L'orario non è indicato, ma si presume dalle ore 9 e seguenti del mattino.

luigitosti ha detto...

P.S.: per presenziare all'udienza occorre un documento di identità, da depositare all'ingresso

hybridslinky ha detto...

Bene bene bene, la giustizia italiana, nonostante mille problemi, sembra ancora funzionare.
Ora caro ex (per la fortuna di tutti) giudice Tosti si cerchi un lavoro.

luigitosti ha detto...

Caro anonimo cattolico che ti nascondi coraggiosamente dietro lo pseudonimo di hybridslink abbi un po' di pazienza e attendi almeno la decisione prima di sputar sentenze.

carla ha detto...

Sono Cattolica.
Con tristezza e un pò di nostalgia devo ritenere che la sua battaglia sia giusta.
Le consiglio di leggere anche questo sito (sempre di simbolo si tratta)e se è possibile di farmi sapere come è andato a finire al CSM:
http://tribunatreviso.gelocal.it/cronaca/2008/11/18/news/bandiera-veneta-in-tribunale-il-csm-apre-un-inchiesta-1548204

luigitosti ha detto...

Cara Carla, ti ringrazio per la segnalazione del "caso", emblematico, relativo al Tribunale di Treviso, che ignoravo. Non so se il CSM abbia preso iniziative, ma avrebbe dovuto prenderle, dal momento che non si può giustificare l'apposizione di simboli di parte negli uffici pubblici e, massimamente, in un tribunale. Il che dimostra ancora una volta la "bontà" delle mie iniziative.