martedì 2 febbraio 2010

IL RAZZISMO DI STATO (di Luigi Tosti)





Pubblico nuovamente, qui di seguito, il testo integrale dell'ordinanza n. 12/2006 con la quale il "precedente" CSM dispose, quattro anni or sono, cioè il 31.1.2006, la mia "sospensione cautelare" dalle funzioni e dallo stipendio. Come si potrà facilmente costatare, con quella ordinanza il CSM mi dette pienamente ragione affermando che: 1°) la circolare del Ministro fascista Rocco del 1926 era incompatibile col principio di LEGALITA' ; 2°) che la circolare violava il principio supremo di laicità; 3°) che la circolava violava il diritto di libertà religiosa; 4°) che la circolare violava il diritto all'eguaglianza religiosa.
Nonostante ciò, il CSM dispose la mia sospensione cautelare perché: 1) ritenne che il mio caso fosse analogo al caso del giudice tutelare cattolico che pretese, per "obiezione di coscienza", di potersi legittimamente rifiutare di autorizzare una minorenne ad abortire, ma che si vide respingere la pretesa dalla Corte Costituzionale perché i convincimenti interiori non possono prevalere sulla volontà espressa dal legislatore; 2) perché ritenne, poi, che io, anziché ricorrere ad un atto estremo come il "rifiuto" di tenere le udienze, avessi l'alternativa di dimettermi dalla magistratura, se proprio non mi aggradava subire la lesione dei miei diritti inviolabili; 3) perché ritenne, infine, che io avessi l'obbligo di attendere l'esito della causa che avevo intentato contro il Ministro di Giustizia.
Tutte queste motivazioni sono state "copiate" dai giudici penali dell'Aquila nelle sentenze con le quali mi hanno condannato ad un anno di reclusione: e questo nonostante io avessi evidenziato i macroscopici ERRORI di DIRITTO commessi dal CSM.
La corte di Cassazione è stata poi investita da me su tutte queste questioni e, in particolare, io ho eccepito: 1°) che il CSM e i giudici penali avevano commesso un eclatante errore di diritto nel parificare il mio rifiuto al rifiuto del giudice cattolico che pretendeva di rifiutarsi di autorizzare una minorenne ad abortire: quest'ultimo caso, infatti, integrava un'ipotesi di "obiezione di coscienza" -che non giustificava alcun rifiuto- mentre il mio era ed è una caso di legittimo esercizio di "diritto di libertà di coscienza" che, al contrario, scrimina e giustifica il rifiuto; 2°) che la circostanza che il mio rapporto di impiego fosse "volontario" non aveva alcun rilievo giuridico, dal momento che il diritto di libertà di coscienza e di legittima difesa compete a tutti gli uomini, e non soltanto .....ai dipendenti legati da un rapporto di lavoro obbligatorio!!; 3) che io, infine, non avevo alcun obbligo di attendere l'esito della causa amministrativa (che peraltro ancora pende!), dal momento che l'autotutela e la legittima difesa sono svincolate dal preventivo ricorso all'autorità giudiziaria: attendere, infatti, per vent'anni l'esito di questa vertenza non aveva senso, sia perché in tutto questo lasso di tempo avrei subito la lesione dei miei diritti inviolabili, sia perché un'ipotetico rigetto della mia domanda -tra venti anni- mi indurrebbe comunque a rifiutarmi di tenere le udienze per non subire la lesione dei miei diritti.
Ebbene, la Corte di Cassazione non ha potuto esaminare tutte queste motivazioni perché ha accolto il motivo principale, cioè ha ritenuto che non era neppure configurabile il reato di omissione di atti di ufficio: io avevo infatti preavvisato del mio rifiuto e questo aveva consentito la mia sostituzione, così come ordinariamente avviene in qualsiasi caso di impedimento.
La corte di Cassazione è comunque entrata nel merito delle questioni da me sollevate, dandomi ragione: ha infatti affermato che la circolare fascista lede il principio di legalità, quello di laicità, e lede altresì i diritti inviolabili di libertà religiosa e di coscienza.
L'assoluzione piena da parte della Cassazione non ha però eliminato il procedimento disciplinare: in questa sede, infatti, doveva essere valutato se l'astensione dalla trattazione delle udienze fosse o meno legittimata dalle ragioni che io avevo addotto (anche) in sede penale: e cioè dalla necessità di non violare il principio supremo di laicità e di non subire la lesione dei miei diritti inviolabili di libertà religiosa e di eguaglianza religiosa. Dunque il CSM avrebbe dovuto vagliare la fondatezza o meno di tutte le censure che io avevo prospettato nel ricorso per cassazione e che la suprema Corte non aveva potuto esaminare, perché "assorbite" dall'accoglimento del primo motivo.
Ebbene, il Procuratore Generale della Cassazione ha sostenuto, nella sua arringa del 22 gennaio scorso, che a lui poco importava delle motivazioni del mio rifiuto, ma interessava soltanto che io non avessi materialmente tenuto quelle udienze. Il che, tradotto in altri termini, significa affermare che, se una persona è costretta ad uccidere per legittima difesa (ad esempio perché il rapinatore gli ha esploso addosso trenta colpi di mitra, riducendolo quasi in fin di vita, ma è poi riuscita ad esplodere, a sua volta, un mortale colpo di pistola contro il rapinatore), il giudice la può "tranquillamente" condannare all'ergastolo affermando, in sentenza, che a lui poco importano le motivazioni dell'esplosione del colpo di pistola all'indirizzo del rapinatore, ma gli interessa soltanto che quel colpo sia stato esploso ed abbia attinto il rapinatore: e questo concretizza il delitto di omicidio, da punire dunque con l'ergastolo.
Nel mio caso il "ragionamento" del Procuratore Generale è stato esattamente identico: a lui non è interessato che la circolare del Ministro fascista sia illegittima, che sia lesiva del principio supremo di laicità, che sia lesiva del mio diritto di libertà religiosa e che io abbia subito una patente discriminazione religiosa perché mi è stato imposto il crocifisso ma mi è stato vietato di esporre la menorà. Si tratta di "quisquiglie" del tutto irrilevanti, perché l'unica cosa che rileva è che io non ho tenuto quelle udienze, sicché debbo essere rimosso per ristabilire la serenità del "RAZZISTA" che mi ha discriminato e mi discrimina sul posto di lavoro, cioè la serenità del povero Ministro di Giustizia.
L'avv. Nicola Mancino ha già esternato alla stampa quelle che saranno le "motivazioni" (o, meglio, le "non motivazioni") della mia condanna: e, a quanto pare, collimano perfettamente con quanto affermato dal Procuratore Generale.
Questo significa, in buona sostanza, che la motivazione della mia condanna sarà completamente DIVERSA dalla motivazione della mia sospensione cautelare: ALLORA (il 31.1.2006), infatti, il CSM aveva giustamente valutato le ragioni del mio rifiuto, anche se le aveva però ritenenute irrilevanti.
Orbene, a questo punto i lettori si chiederanno, con una certa curiosità: quali saranno mai i motivi di tale inversione di rotta, da parte della NUOVA CONSILIATURA del CSM? Si sono forse accorti che i membri della PRECECENTE CONSILIATURA avevano commesso delle "cappelle"?
No, niente di tutto questo. In realtà la Procura Generale della Cassazione e il CSM si sono a mio avviso resi ben conto, leggendo il mio ricorso per cassazione, che io avevo ragione e che, per così dire, avevo fatto "scacco matto" ai Poteri Forti. Dunque, anziché assolvermi -come imposto dalla LEGGE (quando un giudice si accorge che un incolpato è innocente deve assolverlo)- si è preferito (ma questo lo potremo appurare soltanto leggendo la futura motivazione della mia condanna disciplinare) far scomparire una parte dei fatti (cioè le motivazioni del mio rifiuto e la loro rilevanza scriminante) per appiopparmi la condanna alla rimozione.
Il fatto che il 22 gennaio scorso io mi sia presentato dinanzi al CSM nelle vesti della pulce, del pidocchio, del cane sciolto che aveva sostanzialmente fatto "scacco matto" ai Poteri Forti dello Stato, cioè al Ministro di Giustizia, al Governo, alla Procura Generale della Cassazione, al CSM, alla Chiesa, al Papa e via dicendo, non deve essere risultata una cosa gradita: assolvermi perché il mio rifiuto era pienamente giustificato, infatti, avrebbe significato ammettere che tutti codesti Poteri Forti avevano avuto torto e che, dunque, i crocifissi dovevano essere rimossi.
Meglio, dunque, condannare un innocente per "soddisfare" le pretese della Chiesa, del Papa e di tutti codesti Poteri Forti della Repubblica Pontifica, avendo anche cura di "sputtanare" pubblicamente il Tosti facendolo passare come un "assenteista" e un "fannullone" (il che è palesemente falso perché, al contrario, mi sono sempre recato al lavoro, pronto a riprendere l'immediata trattazione delle udienze, se soltanto fossero stati rimossi i crocifissi o fossi stato autorizzato ad esporre la menorà degli sporchi ebrei, cioè della peste dell'umanità, come giustamente appellati da Santa Romana Chiesa Cattolica).
Riepilogando, il 22 gennaio 2010 il Consiglio Superiore della Magistratura ha scritto un'epica pagina nella Giustizia italiana: ha infatti espulso dalla magistratura la vittima di criminali atti di discriminazione perpetrati da un Organo Istituzionale RAZZISTA dello Stato italiano, cioè dal Ministro Giustizia, al lodevole scopo di ripristinare la "tranquillità" di codesto Organo RAZZISTA che, com'è ben noto, condivide circolari di un Regime RAZZISTA e FASCISTA.
I complimenti da parte mia sono d'obbligo: e spero anche che la Cassazione -che ha ottimi motivi di rancore nei mie confronti, cioè nei confronti del cane sciolto che "ha sfidato le Istituzioni" (così ha scritto Mario Cicala ex Presidente dell'ANM)- respinga il mio futuro ricorso.
D'altra parte, l'Italia non è forse il Paese nel quale i "negri" vengono giustamente braccati, cacciati e linciati da intere popolazioni di razzisti (tutti rigorosamente "cattolici"!) e lo Stato interviene, altrettanto giustamente, per "rimuovere" in fretta e furia i "negri", caricandoli sugli autobus e allontanadoli dalla popolazione inferocita allo scopo di ristabilire la "pace" e la "tranquillità" dei "poveri "razzisti"? E allora perché mai reprimere il RAZZISMO DI STATO, che viene abitualmente perpetrato da parte dei Ministri di Giustizia ai danni dei non cattolici, quando esiste l'alternativa, molto più bella e molto più gradita ai RAZZISTI DI STATO, di rimuovere dalla magistratura la VITTIMA del RAZZISMO, cioè lo sporco giudice ebreo?
In fondo non ero stato io a dire, sin dall'inizio, che lo Stato razzista avrebbe dovuto rimuovere i crocifissi o lo sporco giudice ebreo? E allora, visto che sono stato soddisfatto con l'opzione N. 2, perché i "Cattolici" fanno tanto strepito sul mio caso? Forse i cattolici hanno qualche problemuccio di coscienza? Stanno forse percependo qualcosina nei loro cervelli? Ascoltanto la vica voce di Don Mario Pieracci non sembrerebbe proprio: l'augusto sacerdote mi ha infatti ricordato, durante la diretta televisiva, che io, come sporco ebreo, non potevo aspirare ad esporre la menorà a fianco del suo "augusto " e superiore crocifisso ma, al massimo, potevo esporlo sulla mia..... scrivania!

Suvvia, aderenti alla Superiore Razza Cattolica, non vi crucciate per la mia rimozione: io non sono mica un servo della gleba, tenuto a lavorare per forza sotto l'incombenza del vostro idolo criminale. E se volete magari ribattere che, allora, mi sarei dovuto dimettere "spontaneamente" dalla magistratura, senza costringere i poveri RAZZISTI DI STATO a rimuovermi con questi "onerosi" procedimenti disciplinari, vi rispondo: e no, non potete pensare che io sia a tal punto imbecille da togliervi la castagna dal fuoco, cioè dall'imbarazzo di imbastire il processo dell'Inquisizione che avete dovuto imbastire per "eliminarmi"!

Questo processo, infatti, rimarrà scritto nella "Storia" e costituirà il documento principe sul quale imbastirò la causa dinanzi alla Corte europea, che dovrà giudicare sul RAZZISMO DI STATO che viene abitualmente praticato dalla Colonia del Vaticano ai danni degli esseri "inferiori".

A chi ha pazienza di leggere riporto, qui di seguito, il testo dell'ordinanza di mia sospensione. Sarà mia cura pubblicare in seguito la futura motivazione della sentenza di condanna, acciocché chiunque possa rendersi conto, confrontandole, della loro "coerenza" (o incoerenza) e delle "risposte" (o non risposte) che saranno date alle MOTIVAZIONI REALI del mio rifiuto. Buona lettura.


LA SEZIONE DISCIPLINARE DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA

Composta dai Signori:

Avv. Emilio Nicola BUCCICO - Componente effettivo eletto dal
Parlamento destinato a presiedere
la Sezione in sostituzione del Vice
Presidente
Presidente

Avv. Gianfranco SCHIETROMA - Componente eletto dal Parlamento
Dott. Giuseppe SALME‘ - Magistrato di legittimità
Dott. Giovanni MAMMONE - Magistrato di merito
Dott. Carmine STABILE - Magistrato di merito
Dott. Giuseppe FICI - Magistrato di merito
Componenti


ha pronunciato in Camera di Consiglio la seguente


Ordinanza


nel procedimento n. 14/2005 del registro ordinanze nei confronti del

dott. Luigi Tosti
(nato a Cingoli il 3.8.1948)


magistrato sospeso,
per la richiesta in data 22.11.2005 del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione di sospensione dalle funzioni del dott. Luigi Tosti.

In fatto

Il 3 agosto 2005 il procuratore della Repubblica dell’Aquila ha richiesto il giudizio immediato nei confronti del dott. Luigi Tosti, giudice del tribunale di Camerino, imputato di omissione di atti d’ufficio continuata (art. 81 e 328 cod. pen.) per non avere tenuto udienza nei giorni 9, 10, 11, 13, 16, 24, 25 e 27 maggio, e nei giorni 6, 8, 10, 13, 20 e 21 giugno e 4 luglio del 2005 motivando la sua astensione con il fatto che nelle aule di udienza era esposto il crocifisso.
Il 22 settembre 2005 il procuratore generale presso la corte di cassazione ha promosso nei confronti dello stesso magistrato azione disciplinare per avere violato il dovere di correttezza, in quanto, “esasperando fino al limite della pretestuosità la pretesa - la cui fondatezza o meno è ancora sub judice — di vedere rimosso, ad opera dell’amministrazione dello Stato, da tutte le aule di giustizia, il crocifisso (o, in alternativa, di esporre nelle medesime anche il simbolo della menoràh della religione ebraica) omesso, sin dai primi giorni del maggio del corrente anno, di svolgere la propria attività di magistrato presso il tribunale di Camerino, così sottraendosi alla doverosa prestazione del proprio servizio; e tanto dopo che il presidente del tribunale gli aveva messo a disposizione un’aula di udienza priva di ogni simbolo religioso”.
Facendo riferimento sia alla pendenza del procedimento penale che a quella del procedimento disciplinare, il 22 novembre 2005 il procuratore generale ha chiesto la sospensione dalle funzioni del dott. Tosti. La richiesta è fondata sulla circostanza che a decorrere dal 9 maggio 2005 l’incolpato si è sottratto ai doveri d’ufficio, scaturenti da un rapporto d’impiego sorto e perdurante per sua libera determinazione, e sul rilievo che, a prescindere dalla loro fondatezza, i motivi addotti (consistenti nella reazione alla violazione da parte dello Stato dell’obbligo di rimuovere il crocifisso, simbolo della religione cattolica a lui estranea), in quanto estranei al rapporto di servizio, non possono giustificare il persistente inadempimento dell’obbligo di prestazione. Il procuratore generale ha inoltre rilevato che la vicenda aveva determinato e continuava a determinare un grave disservizio in un ufficio giudiziario di ridotte dimensioni, con sconcerto e disorientamento dell’opinione pubblica e menomazione del prestigio dell’ordine giudiziario, tanto più che il dott. Tosti si era rifiutato di riprendere il lavoro anche in aula d’udienza priva di qualsiasi simbolo religioso. Ha concluso il p.g. che l’atteggiamento di sfida nei confronti delle istituzioni imponeva di fare cessare la situazione le cui conseguenze ricadevano anche sui cittadini.
La vicenda, che ha dato luogo al procedimento penale e al procedimento disciplinare, ha origine da un episodio verificatosi il 28 ottobre 2003. Il dott. Tosti ha riferito che quel giorno, entrato in un’aula per tenere udienza civile e su sollecitazione di alcuni avvocati che, ironizzando, facevano riferimento alla vicenda giudiziaria relativa alla richiesta di rimozione del crocifisso nelle aule scolastiche avanzata davanti al tribunale dell’Aquila, si era accorto che su una parete laterale era appeso un vistoso crocifisso che in precedenza non aveva notato. Lo aveva staccato dalla parete e riposto, ma, rientrato in aula dopo una breve assenza, aveva costatato che il crocifisso era stato nuovamente appeso alla parete dal cancelliere che aveva sostenuto che l’apposizione era imposta dalla legge. Aveva quindi proseguito l’udienza nel suo studio privato, cosa che anche in precedenza era già avvenuta. Dopo essersi documentato e ritenendo che la presenza del simbolo religioso era illegittima, aveva chiesto al presidente di rimuoverlo da tutte le aule del tribunale nelle quali svolgeva le sue funzioni. L’illegittimità dell’affissione del crocifisso sarebbe derivata dal fatto che la stessa era prevista solo dalla circolare del ministro della giustizia del 29 maggio 1926, da ritenere illegittima perché priva di una base legislativa e, comunque, abrogata a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione che (con gli articoli 8, 19 e 21) garantisce la pari dignità di tutte le confessioni religiose, il superamento della qualificazione della religione cattolica come religione dello Stato, la libertà in materia religiosa (che comprende anche la libertà negativa di non professarne alcuna) e la libertà di manifestare il proprio pensiero, il proprio credo e le proprie ideologie politiche, con conseguente diritto a non subire l’imposizione del simbolo religioso.
Con nota del 16 dicembre 2003 il dott. Tosti aggiungeva, in caso di mancato accoglimento della richiesta di rimozione del crocifisso dalle aule in cui era esposto, quella di rimuoverlo per tutto il tempo in cui si fosse trovato a svolgervi le sue funzioni e quella di potere esporre il simbolo della sua religione, e cioè la menorah ebraica, sostenendo, in una successiva nota, che il mancato accoglimento di tale richiesta avrebbe costituito un’illegittima discriminazione non solo religiosa ma anche razziale, invocando a sostegno delle sue tesi, tra l’altro, la sentenza della quarta sezione penale della corte di cassazione del 1° marzo 2000, avente ad oggetto una fattispecie di rifiuto di assumere le funzioni di scrutatore giustificato con la mancata rimozione del crocifisso dall’aula delle votazioni.
Con nota del 23 dicembre 2003 il presidente del tribunale ha respinto le richieste affermando che l’esposizione del crocifisso era imposta dalla circolare del 1926 da ritenere tuttora in vigore.
Il dott. Tosti ha impugnato il provvedimento del presidente del tribunale davanti al t.a.r., che, con ordinanza del 22 settembre 2004, ha respinto la richiesta cautelare di rimozione in via d’urgenza del crocifisso, ritenendo non grave e comunque riparabile il danno dedotto dal ricorrente.
Il 27 ottobre 2004 il presidente del tribunale ha ordinato la rimozione dalle aule d’udienza di un cartello dell’Unione degli atei e agnostici razionalisti italiani (U.A.A.R.) esposto dal dott. Tosti.
Dopo avere preannunciato che, in caso di mancato accoglimento delle sue richieste, si sarebbe astenuto dal tenere udienze, a decorrere da quella del 9 maggio 2005, il dott. Tosti ha attuato tale intento. Il presidente del tribunale ha provveduto a sostituirlo con se stesso e con altri due giudici del tribunale e con nota del 25 maggio 2005 ha invitato l’incolpato a tenere udienza nel suo studio privato o in altra aula priva di simboli religiosi. In risposta a una nota del giorno successivo, con la quale il dott. Tosti ha rifiutato la proposta, sostenendo che la stessa costituiva una forma di ghettizzazione, il presidente del tribunale ha precisato che nell’aula senza simboli religiosi appositamente apprestata avrebbero tenuto udienza anche gli altri giudici.
Il dott. Tosti ha rifiutato anche questa proposta osservando che la stessa era in contraddizione con la tesi della vigenza della circolare ministeriale del 1926, non eliminava la natura ghettizzante della soluzione e che l’unica alternativa che avrebbe potuto accettare era quella di aggiungere nelle aule d’udienza al crocifisso anche la menorah.
Con sentenza del 18 novembre 2005 il dott. Tosti è stato condannato dal tribunale dell’Aquila a mesi sette di reclusione, con l’interdizione dai pubblici uffici per un anno per l’imputazione sopra indicata.
Con atto del 25 novembre 2005 il dott. Tosti ha sollevato conflitto di attribuzione davanti alla corte costituzionale, sostenendo che l’esposizione del crocifisso esula dalle competenze costituzionali del Ministro della giustizia, limitate all’organizzazione e al funzionamento dei servizi, materie alle quali sarebbe estranea l’utilizzazione di un simbolo di valenza esclusivamente religiosa. La discussione della richiesta di sospensione dalle funzioni fissata per l’udienza del 16 dicembre 2005 è stata rinviata, per impedimento dell’incolpato, all’udienza del 13 gennaio 2006.

In diritto

1. La richiesta di sospensione dalle funzioni del dott. Tosti fa riferimento, innanzi tutto, alla contemporanea pendenza di un procedimento penale e di un procedimento disciplinare.
La sentenza penale di condanna afferma che l’astensione dalle udienze, motivata con l’esigenza di garantire la libertà di coscienza e di religione, la libertà di manifestazione del pensiero e il principio di laicità dello Stato, lesi dalla presenza del crocifisso in aula, deve ritenersi “indebita”.
L’azione disciplinare, come già rilevato, è stata promossa dal procuratore generale per avere il dott. Tosti violato il dovere di correttezza, omettendo di tenere udienza sulla base della pretesa esasperata “fino al limite della pretestuosità” e la “la cui fondatezza o meno è ancora sub iudice” di vedere rimosso il crocifisso da tutte le aule di giustizia o, in alternativa, di esporre nelle aule stesse il simbolo della menorah, non ostante che il presidente del tribunale di Camerino gli avesse messo a disposizione un’aula d’udienza priva di ogni simbolo religioso.
Non ostante la diversità e l’autonomia dei presupposti sui quali si fondano i due tipi di sospensione cautelare disciplinati dal r.d.lgs. 31 maggio 1946 n. 511 (l’una correlata alla pendenza del procedimento disciplinare, prevista dall’art. 30, l’altra avente ad oggetto la sospensione del magistrato sottoposto a procedimento penale, di cui all’art. 31), i relativi procedimenti possono pendere contemporaneamente (Cass. 21 luglio 2004, n. 13602) e richiedono alla sezione disciplinare una valutazione di identico oggetto, sulla sussistenza del fumus e del periculum. Infatti, la più recente giurisprudenza delle sezioni unite della cassazione (sentenza 3 giugno 1997 n. 4965, che ha modificato il precedente orientamento, seguito tra l’altro da Cass. n. 3115 del 1987, secondo il quale sarebbe stata preclusa al giudice disciplinare la valutazione del contenuto dell’imputazione o della sentenza penale non passata in giudicato), valorizzando l’accentuazione dell’autonomia del giudizio penale rispetto a quello disciplinare operata dal nuovo codice e la diversità di funzione del decreto di rinvio a giudizio (che non presuppone più una delibazione di fondatezza dell’accusa, ma solo la valutazione della necessità del dibattimento) ha affermato il principio che, anche in caso di sottoposizione a procedimento penale, la sezione disciplinare deve valutare, al di fuori di ogni automatismo, la gravità dell’accusa penale e quindi, sia pure nei limiti di una delibazione allo stato degli atti, la consistenza e la serietà dei fatti posti a fondamento della medesima, al fine di stabilire, senza interferenze nel merito del giudizio penale e nell’esclusiva ottica del richiesto provvedimento cautelare (diretto alla tutela della credibilità dell’ordine giudiziario), se, tenuto anche conto delle specifiche esigenze del servizio, ricorrono le condizioni necessario per emettere il suddetto provvedimento.
2. I fatti sui quali si basa la richiesta di provvedimento cautelare sono pacifici.
Dal 9 maggio del 2005, e anche oltre il 4 luglio dello stesso anno (data finale presa in considerazione nel capo d’imputazione penale) il dott. Tosti non svolge attività giudiziaria. Alla sua sostituzione ha provveduto il presidente del tribunale di Camerino, designando se stesso e altri magistrati del tribunale, per l’impossibilità di procedere ad applicazioni di magistrati del distretto (si veda in proposito il decreto del presidente della corte d’appello di Ancona del 27 maggio 2005).
Quanto alle motivazioni dell’astensione, il dott. Tosti ha sempre dedotto che la presenza del crocifisso nelle aule d’udienza, non prevista da alcuna norma vigente, dovendo ritenersi superata la circolare del ministro della giustizia del 29 maggio 1926 (con la quale il ministro di grazia e giustizia dispose: “Prescrivo che nelle aule di udienza sopra il banco dei giudici e accanto all'effige di Sua Maestà il Re, sia restituito il Crocifisso, secondo la nostra antica tradizione. Il simbolo venerato sia solenne ammonimento di verità e di giustizia. I capi degli uffici giudiziari vorranno prendere accordi con le amministrazioni comunali affinché quanto ho disposto sia eseguito con sollecitudine e con decoro di arte, quale si conviene all’altissima funzione della giustizia.”) costituiva lesione del principio di laicità della Stato, della sua libertà di coscienza e di religione, ma ha mutato nel tempo l’oggetto delle sue richieste. Nella nota del 31 marzo 2003, infatti, ha chiesto che il crocifisso fosse rimosso da tutte le aule del tribunale; nella nota del 16 dicembre dello stesso anno ha aggiunto la richiesta di autorizzazione ad esporre “il simbolo della propria religione” per tutto il tempo dell’esercizio delle proprie funzioni; il 26 aprile 2004, come risulta dal decreto del presidente del tribunale del giorno successivo, ha affisso in alcune aule d’udienza un cartello dell’Unione degli atei e agnostici razionalisti italiani; il 1° maggio 2005 ha chiesto che fosse rimosso da tutte le aule d’udienza italiane il crocifisso, e, in via subordinata, che fosse consentita l’esposizione della menorah; il 7 agosto 2005 (in risposta alla nota del presidente del tribunale del 19 luglio, con la quale era stato invitato a riprendere servizio anche in considerazione del fatto che si stava apprestando una nuova aula d’udienza a disposizione di tutti i magistrati dell’ufficio nella quale non sarebbe stato apposto il crocifisso) ha chiesto che in tutte le aule in cui era esposto il crocifisso, lo stesso venisse sostituito con la menorah, ferma la non apposizione di alcun simbolo nella sola nuova aula in allestimento.
Tuttavia, al di là delle indicate modificazioni, per così dire, del petitum il nucleo essenziale della posizione del dott. Tosti può identificarsi nella richiesta di rimozione del crocifisso da tutte le aule d’udienza italiane e nella richiesta di autorizzazione ad esporre la menorah.
In relazione a tali richieste si pone il problema, se la sezione disciplinare debba valutarne o non la fondatezza. La risposta deve essere affermativa, nei limiti che saranno precisati.
E’ vero, infatti, che la richiesta di provvedimento cautelare è motivata con il rilievo che il protrarsi dell’inadempimento ai doveri d’ufficio non potrebbe mai essere giustificato dalla pretesa alla rimozione del crocifisso e all’autorizzazione all’esposizione della menorah, anche se le stesse fossero fondate, ed è vero altresì che nel capo d’incolpazione disciplinare espressamente si afferma che la fondatezza di tale pretesa è all’esame del giudice amministrativo davanti al quale è stato impugnato il provvedimento del presidente del tribunale di rigetto dell’istanza di rimozione del crocifisso dalle aule d’udienza. In entrambi i casi, cioè, il procuratore generale ha ritenuto espressamente di dovere prescindere dalla valutazione della fondatezza delle tesi dell’incolpato. Peraltro, come si è già osservato, in questa sede forma oggetto di valutazione anche la sentenza penale di condanna che si fonda sull’affermazione del carattere “indebito” del rifiuto del dott. Tosti di adempiere ai propri doveri d’ufficio e che a tal fine analizza il rapporto tra i predetti doveri e la tutela dei diritti invocata dal magistrato. L’azione disciplinare, inoltre, se direttamente non investe la fondatezza delle posizioni espresse dall’incolpato, tuttavia si basa anche sull’affermazione che la pretesa dell’incolpato è stata esasperata, fino al limite della “pretestuosità”, e pertanto, in qualche modo, esige una valutazione quanto meno della plausibilità, se non della fondatezza, della pretesa stessa.
Infine, mentre certamente un giudizio di fondatezza della pretesa non sarebbe decisivo, dovendosi comunque valutare le modalità di esercizio di tale pretesa e la compatibilità con i doveri nascenti dal rapporto di impiego, una valutazione di infondatezza avrebbe comunque un rilievo negativo non secondario ai fini dell’accertamento dei presupposti del provvedimento richiesto dal p.g.
Tuttavia la natura cautelare del presente procedimento impone che ogni valutazione debba essere svolta sul piano della summaria cognitio dei profili fattuali e giuridici, essendo riservato al giudice del merito l’accertamento funditus della sussistenza dei presupposti della responsabilità dell’incolpato.
3. La sezione disciplinare non ignora che le tesi sostenute dall’incolpato si inseriscono in una problematica molto più ampia e di estrema delicatezza, come quella dell’esposizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, vivacemente dibattuta non solo in Italia ma anche in altri Paesi dell’Unione europea nei quali sono state adottate soluzioni diverse a livello normativo (rifiuto di adottare una qualsiasi disciplina, come in Gran Bretagna e in Belgio; art. 28 della legge francese 9 dicembre 1905, ribadito con la legge 17 marzo 2004 n. 228, che ha vietato agli studenti di portare all’interno delle scuole pubbliche segni o vestiti che manifestano “ostensibilmente” un’appartenenza religiosa; riconoscimento di poteri di decisione agli utenti degli spazi pubblici - come in Austria e Baviera - ovvero alle istituzioni amministrative centrali, come in Spagna). Sono anche note le decisioni del tribunale federale svizzero (sentenza 26 settembre 1990), che ha affermato che l’esposizione del crocifisso nelle aule della scuola elementare pubblica viola l’obbligo della neutralità confessionale dello Stato, e del tribunale costituzionale federale tedesco che, con sentenza del 16 maggio 1995, ha dichiarato l’incostituzionalità di una norma di una legge scolastica bavarese che imponeva l’esposizione del crocifisso, per non avere il legislatore del Lana ricercato l’equa composizione tra libertà positiva e libertà negativa, sul piano della tolleranza e della garanzia del pluralismo religioso.
In Italia il problema si è posto con riferimento all’esposizione nelle aule scolastiche e nei seggi elettorali e ha avuto soluzioni contrastanti. Sul primo aspetto il consiglio di Stato (sezione II), con parere del 27 aprile 1988, ha affermato che l’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965 e l’allegato C al r.d. 26 aprile 1928, n. 1297, che impongono l’esposizione del crocifisso nella aule, rispettivamente, delle scuole medie e delle scuole elementari, sono tuttora in vigore, ma in senso contrario si è espresso il tribunale dell’Aquila, con ordinanza ex art. 700 c.p.c. del 23 ottobre 2003, che ha ritenuto tacitamente abrogate le predette disposizioni regolamentari perché incompatibili con il quadro normativo risultante, da un lato, dalla garanzia costituzionale del pluralismo religioso, della libertà di coscienza e di religione, e dall’altro dall’abrogazione del principio della religione cattolica come religione di Stato (art. 1 del protocollo addizionale agli accordi di modifica del Concordato, reso esecutivo con legge 25 marzo 1985, n. 121). Peraltro tale provvedimento è stato revocato da trib. L’Aquila 29 novembre 2003, per il rilievo che la giurisdizione sulla controversia spetterebbe al giudice amministrativo. Sul punto è intervenuto il t.a.r. del Veneto, con ordinanza del 14 gennaio 2004 che ha sollevato questione di legittimità costituzionale delle norme regolamentari indicate e, dopo che la corte costituzionale ha dichiarato la questione manifestamente inammissibile per la non riconducibilità delle norme secondarie impugnate ad alcuna norma primaria (ord. 15 dicembre 2004, n. 389), lo stesso t.a.r., con sentenza 22 marzo 2005, n. 1110, ha ritenuto legittimo l’obbligo di esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, trattandosi di “simbolo di una particolare storia, cultura e identità nazionale...oltre che .espressione di alcuni principi laici della comunità” e pertanto “non solo non contrastante ma addirittura affermativo e confermativo del principio della laicità dello Stato.”
Quanto all’esposizione del crocifisso nei seggi elettorali, Cass. 1° marzo 2000, Montagnana, più volte richiamata dal dott. Tosti a conferma della fondatezza della sua pretesa, ha affermato che “costituisce giustificato motivo di rifiuto dell’ufficio di presidente, scrutatore o segretario, ove non sia stato l’agente a domandare di essere ad esso designato, la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo di laicità dello stato e l’adempimento dell’incarico a causa dell’organizzazione elettorale, in relazione alla presenza nella dotazione obbligatoria di arredi dei locali destinati a seggi elettorali, pur se casualmente non di quello di specifica destinazione, del crocifisso o di altre immagini religiose.”
Deve peraltro rilevarsi che sul tema dell’esposizione del crocifisso nei seggi elettorali opposta soluzione è stata accolta in alcuni provvedimenti cautelari con i quali sono state rigettate le richieste di rimozione (trib. Bologna, 24 marzo 2005, trib. L’Aquila 31 marzo 2005, trib. Napoli 26 marzo 2005).
4. Pur nei limiti della sommarietà delle valutazioni da compiere in sede cautelare, la sezione disciplinare ritiene che la richiesta di rimozione del crocifisso dalle aule d’udienza avanzata dal dott. Tosti non sia manifestamente infondata.
Si deve in primo luogo rilevare che, come è pacifico (si veda in proposito la nota del ministero degli interni del 5 ottobre 1984, n. 5160/M/l, citata da cass. 1° marzo 2000), la circolare del ministro della giustizia del 29 maggio 1926 n. 2134/1867 è un atto amministrativo generale, privo di fondamento normativo e quindi contrastante con il principio di legalità dell’azione amministrativa, desumibile dagli articoli 97 e 113 Cost., dal quale deriva che l’attività della pubblica amministrazione deve sempre svolgersi nel rispetto della Costituzione, delle norme comunitarie e delle leggi, con l’ulteriore conseguenza che ogni atto amministrativo deve essere espressione di un potere riconosciuto all’amministrazione da una norma (Cons. Stato, sez. II, 3 novembre 1999, n. 1401; sez. VI, 17 febbraio 1999, n. 173; sez. V, 8 giugno 1994, n. 614; sez. VI, 3 marzo 1993, n. 214). In conformità con questo principio il legislatore ha disciplinato l’esposizione dei simboli non religiosi nei luoghi pubblici (legge 5 febbraio 1998, n. 22 sull’uso della bandiera della Repubblica italiana e di quella dell’Unione europea; l’art. 38 del d.lgs. n. 267 del 2000, che disciplina la stessa materia con riferimento all’ordinamento degli enti locali).
In secondo luogo, anche a poter ritenere non decisivo questo profilo, resta poi che la predetta circolare appare in contrasto con il principio costituzionale di laicità dello Stato e con la garanzia della libertà di coscienza e di religione, essendo pacifico (v. in tal senso cass. sez. unite 18 novembre 1997, n. 11432 e sez. disciplinare 15 settembre 2004, Sansa) che nessun provvedimento amministrativo può limitare diritti fondamentali di libertà, al di fuori degli spazi eventualmente consentiti da una legge ordinaria conforme a costituzione.
Come è noto la corte costituzionale, con sentenza n. 203 del 1989 (nonché con le sentenze n. 259 del 1990 e 195 del 1993), ha affermato che il principio di laicità (o di aconfessionalità) dello Stato, pur non essendo esplicitamente menzionato (come invece avviene nell’art. 1 della Costituzione francese del 1958), è certamente desumibile dagli articoli 2,3,7,8,19 e 20 Cost. e ha trovato un importante conferma, a livello di legge ordinaria, nell’art. 1 del Protocollo addizionale degli Accordi con la Santa sede di cui alla legge n. 121 del 1985 (abrogazione della regola secondo la quale la religione cattolica è la sola religione dello Stato). Tale principio, inoltre, è uno delle caratteristiche della nostra forma di Stato e appartiene al novero dei principi supremi dell’ordinamento che, secondo un costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, hanno valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale.
Quanto al contenuto del principio di laicità la giurisprudenza costituzionale ha affermato che lo stesso non implica irrilevanza o indifferenza rispetto all’esperienza religiosa, secondo l’impostazione dello Stato liberale classico, ma garanzia per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale e, in senso più ampio, possibilità di convivenza in condizioni uguaglianza non solo di fedi, ma anche di culture e tradizioni diverse (corte cost. n. 440 del 1995). Ne consegue, da un lato, che in materia religiosa, lo Stato deve essere equidistante, imparziale (sentenze nn. 329 del 1997, 508 del 2000, 327 del 2002) e neutrale (sentenza n. 235 del 1997) e, dall’altro, che l’ordine delle questioni religiose e quello delle questioni civili debbono rimanere separati, con la conseguenza che “in nessun caso il compimento di atti appartenenti, nella loro essenza, alla sfera della religione possa essere l’oggetto di prescrizioni obbligatorie derivanti dall’ordinamento giuridico dello Stato e (il) divieto di ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei precetti statali;... la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo alfine dello Stato” (sentenza n. 334 del 1996).
Per quanto riguarda la libertà di coscienza - espressamente riconosciuta anche dall’art. 9 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 (ratificata con legge n. 848 del 1955) e dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sottoscritta dai Presidenti del parlamento europeo, del consiglio e della commissione in occasione del Consiglio europeo di Nizza il 7 dicembre 2000 - la corte costituzionale ha ripetutamente affermato (sentenza n. 149/1995, n. 422/1993, n. 467 del 1991, 409 del 1989) che la coscienza individuale ha rilievo costituzionale “quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo” e che “specie se correlata all’espressione dei propri convincimenti morali o filosofici (art. 21 Cost.) ovvero... alla propria fede o credenza religiosa (art. 19 Cost.), dev’essere protetta in misura proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essa riconosciuta nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana”. Libertà di coscienza e libertà religiosa che, alla luce del principio di eguaglianza, debbono essere lette come affermazione non solo positiva, di tutela delle convinzioni o della fede professata, ma anche in senso negativo, come tutela di chi rifiuti di avere una fede, e che, pertanto, deve essere garantita sia ai credenti che ai non credenti, siano essi atei o agnostici (sentenza n. 117 del 1979 e n. 334 del 1996). Dal carattere “fondante” della libertà di coscienza deriva anche che nelle vantazioni costituzionali relative ai profili dell’eguaglianza in materia religiosa il dato quantitativo, l’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa, non può essere rilevante (sentenza n. 925 del 1988 e n. 440 del 1995, n. 508 del 2000), “il richiamo alla coscienza sociale... è...vietato là dove la Costituzione, nell’art. 3 primo comma stabilisce espressamente il divieto di discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l’appunto la religione...Diversamente ragionando, si finirebbe per rendere cedevole la garanzia costituzionale dell’uguaglianza rispetto a mutevoli e imprevedibili atteggiamenti della società” (sentenza n. 329 del 1997).
Alla luce dei rilievi ora svolti appare convincente la tesi dell’incolpato secondo la quale l’esposizione del crocifisso nella aule di giustizia, in funzione di solenne “ammonimento di verità e giustizia”, costituisce un’utilizzazione di un simbolo religioso come mezzo per il perseguimento di finalità dello Stato e, pertanto appare in contrasto con il principio supremo di laicità dello Stato. Del pari persuasiva sembra l’affermazione che l’indicazione di un fondamento religioso dei doveri di verità e giustizia ai quali i cittadini sono tenuti, può provocare nei non credenti “turbamenti, casi di coscienza, conflitti di lealtà tra doveri del cittadino e fedeltà alle proprie convinzioni” (corte cost. n. 117 del 1979) e pertanto può ledere la libertà di coscienza e di religione.
Meno convincente sembra invece l’orientamento che, per negare il rilevato contrasto, nega o quanto meno riduce fortemente il valore del crocifisso come simbolo religioso. In tal senso si sono espressi il citato parere del consiglio di Stato (sezione li, 27 aprile 1988, n. 63) - secondo cui il crocifisso “a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendente da specifica confessione religiosa” -, l’ordinanza del tribunale dell’Aquila del 31 marzo 2005 - incentrata sul carattere culturale che il crocifisso ormai avrebbe assunto - e la sentenza del t.a.r. del Veneto 22 marzo 2005, n. 1110, la quale, sulla base del rilievo della secolarizzazione della società e della posizione di minoranza assunta dai credenti e praticanti, alla quale si contrapporrebbe la larga adesione ai valori secolarizzati del cristianesimo, ha affermato che “nell’attuale realtà sociale il crocifisso debba essere considerato non solo come simbolo di un ‘evoluzione storica e culturale, e quindi dell’identità del nostro popolo, ma come simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, principi questi che innervano la nostra Carta costituzionale.”
A parte il rilievo, efficacemente espresso nella sentenza del Bundesverfassungsgericht 16 maggio 1995, secondo cui costituirebbe “una violazione dell’autonomia confessionale dei cristiani ed una sorta di profanazione della croce non considerare questo simbolo come segno di culto in collegamento con uno specifico credo” e l’evidente contraddizione logica tra l’affermazione del valore identitario e quella della portata universale del simbolo, resta il fatto che, anche a poter condividere la tesi del significato meramente culturale del crocifisso, il problema della tutela della libertà di coscienza e del pluralismo si sposterebbe dal terreno esclusivamente religioso a quello appunto culturale, ma non sarebbe risolto, in quanto dai principi costituzionali in precedenza individuati deriva che l’amministrazione pubblica non può scegliere di privilegiare un aspetto della tradizione e della cultura nazionale, sia pure largamente maggioritaria, a discapito di altri minoritari, in contrasto con il progetto costituzionale di una società in cui “hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse” (Corte cost. n. 440 del 1995).
Deve infine osservarsi che, anche a ritenere, come questa sezione ritiene, non manifestamente infondata la tesi secondo la quale, con l’entrata in vigore della Costituzione (che afferma i principi di legalità dell’azione amministrativa e di laicità dello Stato e garantisce libertà di coscienza e di religione) si è verificata un’invalidità sopravvenuta della circolare ministeriale, non ne deriverebbe che l’amministrazione della giustizia sarebbe per ciò stesso legittimata a disapplicarla, perché il potere di disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi spetta solo al giudice e non all’amministrazione che ha emesso l’atto. Tuttavia l’amministrazione, ove ritenga un proprio atto (originariamente o per circostanze sopravvenute) illegittimo ha il potere di abrogarlo o revocarlo.
5. A differenza di quanto osservato in merito alla pretesa del dott. Tosti relativa alla rimozione del crocifisso, quella diretta ad ottenere l’autorizzazione ad esporre nelle aule giudiziarie la menorah, simbolo della religione ebraica, sulla base del vigente quadro normativo, appare manifestamente infondata.
Tale pretesa, infatti, per potere essere accolta richiede che il legislatore compia scelte discrezionali che allo stato non sono state compiute.
Se, infatti, è vero che sul piano teorico il principio di laicità è compatibile sia con un modello di equiparazione verso l’alto (laicità per addizione), che consenta a ogni soggetto di vedere rappresentati nei luoghi pubblici i simboli della propria religione, sia con un modello di equiparazione verso il basso (laicità per sottrazione) che prevede l’assenza di qualsiasi simbolo, la scelta tra i due modelli esige che siano valutati una pluralità di profili, primo fra tutti quello della concreta praticabilità, ma anche quelli più delicati del bilanciamento tra l’esercizio della libertà religiosa da parte di alcuni utenti del luogo pubblico con l’analogo esercizio della libertà negativa da parte dell’ateo o del non credente (conflitto che, come si è osservato, non può essere risolto ricorrendo al dato quantitativo o statistico) e l’ulteriore bilanciamento tra garanzia del pluralismo e possibili conflitti tra una pluralità di identità religiose tra loro incompatibili.
6. Il riconoscimento della non manifesta infondatezza della tesi del dott. Tosti, relativa all’illegittimità della circolare 29 maggio 1926, non esaurisce tuttavia l’ambito delle valutazioni alle quali la sezione disciplinare è tenuta, dovendosi anche accertare se l’inadempimento degli obblighi derivanti dal rapporto di impiego possa ritenersi giustificato dal mancato accoglimento della pretesa alla rimozione del crocifisso. Premessa indispensabile di tale accertamento è il richiamo ai principi affermati con la sentenza della corte costituzionale del 7 maggio 1981, n. 100, secondo la quale pur dovendo “riconoscersi - e non sono possibili dubbi in proposito - che i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni cittadino...deve del pari ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica da essi rivestita non sono indifferenti e prive di effetto per l’ordinamento costituzionale.” Con specifico riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero, ma con argomentazioni che possono estendersi anche agli altri diritti costituzionalmente garantiti, la corte ha affermato che sono ammissibili limiti all’esercizio dei diritti costituzionali “purché questi siano posti dalla legge e trovino fondamento in precetti e in principi costituzionali espressamente fissati o desumibili dalla Carta costituzionale”.
Tali valori costituzionalmente tutelati sono quelli dell’indipendenza e dell’imparzialità e della credibilità della funzione giudiziaria (nella quale si concreta la nozione legislativa di “prestigio dell’ordine giudiziario”). La necessità di un equilibrato bilanciamento con altri interessi costituzionalmente tutelati, ha osservato la corte, non comprime il diritto del magistrato, ma ne vieta solo l’esercizio anomalo e cioè l’abuso, che si configura quando risultino lesi gli altri valori di rilievo costituzionale sopra menzionati. La corte ha concluso affermando che: “Dovrà l’organo chiamato a valutare i singoli comportamenti stabilire se essi possano o meno essere riprovati dalla coscienza sociale e se siano o meno conformi alla valutazione che comunque possano fare di essi gli stessi consociati in relazione alla natura e rilevanza degli interessi tutelati ed in funzione del buon andamento dell’attività giudiziaria.”.
Anche con riferimento alla libertà di coscienza, la corte costituzionale ha espressamente ribadito l’ammissibilità, e anzi la doverosità, del bilanciamento tra situazioni giuridiche soggettive di rilievo costituzionale.
Così, con sentenza n. 149 del 1995, si è affermato che il legislatore, in tema di libertà di coscienza, può operare per “bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale” e può “graduarne le possibilità di realizzazione in modo da non arrecare pregiudizio al buon andamento delle strutture organizzative e dei servizi di interesse generale”. Del pari alla necessità di comporre il potenziale conflitto tra beni parimenti protetti si è richiamata la sentenza n. 196 del 1987 sulla quale si tornerà.
Analoghe considerazioni si leggono, inoltre, nella sentenza della corte di cassazione del 1° marzo 2000, Montagnana, la quale, richiamando anche la sentenza della corte costituzionale n. 422 del 1993, ha osservato che la libertà di coscienza in relazione all’esperienza religiosa “va tutelata nella massima estensione compatibile con altri beni costituzionalmente rilevanti e di analogo carattere fondante…”
Nella soluzione del caso di specie sono di estremo rilievo le argomentazioni sulle quali si basa la citata sentenza della corte costituzionale n. 196 del 1987, con la quale è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 9 e 12 della legge n. 194 del 1978 nella parte in cui non riconoscono il diritto all’obiezione di coscienza al giudice tutelare al quale la minore chieda di essere autorizzata a decidere l’interruzione della gravidanza senza l’assenso dei genitori. Il conflitto tra l’adempimento dei propri doveri funzionali e l’imperativo contrario, espressione della propria coscienza, in una situazione in cui il legislatore non ha previsto un criterio di soluzione è stata ritenuta superabile solo dando la prevalenza “all’indeclinabile e primaria realizzazione della esigenza di giustizia” che discende dagli articoli 54, 2° comma (sulla doverosità dell’adempimento delle funzioni pubbliche) e 107 Cost., e il cui rilievo costituzionale la corte ha ripetutamente riconosciuto (cfr. sentenza n. 1 del 1981).
A conclusioni analoghe si deve pervenire con riferimento all’attuale vicenda processuale, che si connota, rispetto al caso oggetto della sentenza della Cassazione del 1° marzo 2000, Montagnana, sia per il fatto che l’adempimento dei doveri funzionali deriva da un rapporto d’impiego volontariamente instaurato e altrettanto volontariamente mantenuto in vigore, sia per la circostanza che la stessa legge, a differenza di quanto si verifica nella specie, prevedeva anche la possibilità di non assumere l’ufficio di scrutatore in presenza di un “giustificato motivo”, consentendo in tal modo il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti.
Ora, certamente l’ordinamento riconosce al dott. Tosti il diritto di seguire la propria coscienza, ma l’esercizio di tale diritto non può avvenire con modalità tali da pregiudicare le esigenze di giustizia il cui soddisfacimento è oggetto di incontestati doveri funzionali. La pretesa del dott. Tosti di far prevalere l’imperativo della propria coscienza, rifiutando in modo deliberato e palese l’adempimento dei doveri funzionali - attuando una evidente forma di disobbedienza civile, la quale, peraltro, per sua stessa natura deve scontare l’accettazione della relativa sanzione - non può trovare riconoscimento da parte dell’ordinamento, all’interno del quale solo la legge potrebbe consentirla. Significativo è il fatto che l’art. 10 della Carta di Nizza, che costituisce la più recente affermazione dei diritti fondamentali, dopo avere riconosciuto espressamente la libertà di coscienza e di religione, aggiunge al secondo comma “Il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio.”
A parte il rilievo penalistico, infatti, dal punto di vista deontologico la pretesa alla rimozione del crocifisso non può giustificare una ripetuta e prolungata assenza dal servizio, che danneggia gravemente gli utenti e anche l’Erario su cui continua a gravare l’onere di corrispondere la retribuzione.
Ulteriore profilo di disvalore deontologico si rinviene anche nella circostanza che il dott. Tosti ha mostrato di essere ben consapevole che lo strumento per far valere la sua pretesa, a suo avviso illegittimamente negata, è il ricorso al giudice ritenuto competente, il che appare contraddittorio con la peculiare forma di “autotutela” posta in essere.
Infine, non è di scarso rilievo il fatto che il presidente del tribunale, recependo anche un suggerimento della corte costituzionale, che, nella citata sentenza n. 196 del 1987, indicava un possibile rimedio delle situazioni di conflitto tra imperativi della coscienza e adempimento dei doveri funzionali del magistrato nell’adozione di adeguate misure organizzative interne agli uffici giudiziari, ha offerto al dott. Tosti una soluzione temporanea, cioè in attesa della decisione giudiziaria, apprestando per lui e per gli altri giudici del tribunale un’aula nella quale non era esposto il crocifisso.
7. Quanto al periculum in mora, è certo che la prolungata assenza del dott. Tosti ha messo in crisi il piccolo tribunale di Camerino, anche per l’impossibilità di ricorrere ad applicazioni da altri uffici del distretto. La sua assenza, oltre a produrre ulteriore carico di lavoro sui magistrati in servizio, non può non avere provocato disservizi per gli utenti.
I fatti di cui è processo hanno avuto ampia risonanza nazionale e certamente hanno provocato sconcerto nell’opinione pubblica, non tanto per le motivazioni addotte a giustificazione della decisione di astenersi dall’adempimento di tutti i doveri funzionali, sulle quali si è verificato un legittimo contrasto di opinioni, quanto per il carattere totale e prolungato dell’inadempimento e il rifiuto di ogni soluzione di mediazione. Certamente tali fatti hanno inciso in modo profondo e radicale sulla credibilità del magistrato incolpato, il quale non potrebbe svolgere con adeguato prestigio le sue funzioni in nessun altro ufficio. Si impone pertanto la sospensione del dott. Tosti dalle funzioni.
P.Q.M.

La Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura,
Visti gli arti 30 e 31 del R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511,

dispone

la sospensione provvisoria dalle funzioni e dallo stipendio del dott. Luigi Tosti attribuendo al medesimo un assegno alimentare pari ai due terzi dello stipendio e delle altre competenze di carattere continuativo.
Roma, 31 gennaio 2006



L’ESTENSORE (Giuseppe Salmè) firma

IL PRESIDENTE (Emilio Nicola Buccico) firma

IL MAGISTRATO SEGRETARIO firma


Depositato in Segreteria
Roma , 23 nov 2006
Il Direttore della Segreteria firma

1 commento:

Guillermo Fuchslocher ha detto...

Sr. Tosti:
La libertad de conciencia, al constituir un derecho que tenemos todos por nuestra condición de seres humanos, y por tanto ser anterior y superior a los Estados, constituye la base de todos los demás derechos humanos que manifiestan nuestra condición de diferentes, sea por el color de nuestra piel, nuestro sexo, nuestra creencia o no creencia religiosa, nuestra nacionalidad de origen, nuestra opción sexual, o cualquier otra razón. Pero este derecho a ser diferentes tiene su contrapartida en la obligación del Estado de respetar y hacer respetar esas diferencias, y eso constituye la concepción moderna de Laicidad, la cual, por esta razón, es base ideológica de la Democracia, es decir del gobierno de todos los iguales ante la ley. Por consiguiente, si un Estado que se diga democrático no respeta la laicidad y, por el contrario, defienda la exclusión de los diferentes, por racismo, discriminación religiosa o cualquier forma de discriminación, por ejemplo en beneficio de una sola creencia, deja de ser democrático y se convierte no solo en autocrático sino en totalitario.
Por esta razón, que trasciende lo jurídico y las fronteras de Italia, su valiente lucha por la defensa de principios superiores y fundamentalmente de la Laicidad, es algo que beneficia a todos quienes vivimos bajo la idea de la Libertad en cualquier parte del mundo, y merece nuestra solidaridad y reconocimiento.
Con un abrazo solidario,
Guillermo Fuchslocher
Quito - Ecuador, Sudamérica.