SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE - VI SEZIONE PENALE
Udienza discussione del 18.11.2008
Memoria difensiva
per Luigi Tosti, imputato ricorrente
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Qui di seguito si riassume sinteticamente il ricorso.
F A T T O
Nell’ottobre del 2003, durante lo svolgimento di un’udienza civile, alcuni avvocati del foro di Camerino si lamentavano col magistrato Luigi Tosti per l’affissione di un vistoso crocifisso in una parete dell’aula, adombrando l’ipotesi che fosse stato collocato per polemica reazione contro il provvedimento col quale, alcuni giorni prima, il dott. Mario Montanaro del tribunale dell’Aquila aveva ordinato la rimozione dei crocifissi dalle scuole di Ofena.
Ritenendo fondata la lamentela, il dr. Luigi staccava il crocifisso dalla parete laterale dell’aula, adagiandolo sul carrello dei fascicoli.
Il Cancelliere che lo assisteva in udienza, di fede cattolica, lo riapponeva però sulla parete, giustificando il suo gesto col fatto che a suo dire “esisteva una legge che prevedeva la presenza obbligatoria dei crocifissi in aula”: a nulla valeva che il dr. Tosti obiettasse che non tutti erano cattolici e che tutti i cittadini erano eguali ed avevano pari dignità e diritti, senza distinzione di religione.
Il magistrato Luigi Tosti chiedeva l’intervento del Presidente del Tribunale ma questi, di fede cattolica, condivideva il gesto del Cancelliere.
Nei giorni successivi, dopo aver accertato che l’ostensione dei crocifissi nelle aule di giustizia era imposta soltanto da una circolare dell’Era fascista, che la IV Sezione della Cassazione penale aveva espressamente ritenuto abrogata, ex art. 15 disp. prel. cod. civ., perché incompatibile col principio supremo di laicità (sent. 1.3.2000 n. 4273, imp. Montagnana) e perché lesiva del diritto di libertà religiosa e di eguaglianza religiosa dei cittadini, il dr. Tosti inoltrava al Ministro di Giustizia ed al Presidente del Tribunale una motivata richiesta di rimozione dei crocifissi da tutte le aule di giustizia.
Nessuna risposta perveniva da parte del Ministro. Il Presidente del Tribunale, di fede cattolica, la respingeva asserendo, in spregio a quanto deciso dalla Cassazione penale nella sentenza 4273/2000, che “la circolare doveva ritenersi ancora in vigore in quanto non espressamente abrogata”.
Il Ministro di Giustizia Roberto Castelli, appresa la notizia del “distacco sacrilego” del crocifisso dalla parete, disponeva un’immediata ispezione ai danni del giudice Luigi Tosti, che era costretto a recarsi a Roma, presso l’Ispettorato del Ministero di Giustizia, per rispondere ad un serrato interrogatorio nel corso del quale veniva indagato anche sui suoi convincimenti religiosi.
Ritenendo di godere degli stessi diritti e della stessa dignità di cui godono, in Italia, i cattolici, il dr. Luigi Tosti esponeva nelle aule giudiziarie del Tribunale Camerte i propri simboli ideologici religiosi: questi, però, venivano immediatamente rimossi e “sequestrati” perché ritenuti indegni di stazionare a fianco del “crocifisso”.
Il dr. Tosti proponeva allora, nell’aprile 2004, un ricorso al TAR delle Marche chiedendo, anche in via di urgenza, la rimozione dei crocifissi o, in subordine, l’autorizzazione ad esporre la menorà ebraica a fianco del crocifisso, rivendicando in tale modo il diritto degli ebrei ad avere la stessa dignità e gli stessi diritti religiosi degli appartenenti alla “Razza cattolica”.
L’Avvocatura di Stato si opponeva alle istanze giudiziarie del giudice ebreo, affermando che “l’ostensione dei crocifissi nelle aule giudiziarie era legittima perché integrava (si badi bene: ndr) un atto di “professione di fede” da parte dello Stato (laico!) italiano che, come tale, era del tutto legittimo ai sensi dell’art. 19 della Costituzione.”
L’istanza cautelare del dr. Tosti, volta ad ottenere la cessazione immediasta degli atti di patente discriminazione religiosa ai suoi danni, e cioè a rimuovere i crocifissi o, in alternativa, ad autorizzarlo ad esporre la menorà ebraica al loro fianco, veniva respinta dal TAR delle Marche perché “non si ravvisava pericolo nel ritardo”.
A causa di queste iniziative giudiziarie il dr. Luigi Tosti cominciava ad essere bersagliato da lettere anonime contenenti minacce di morte e insulti di contenuto razzistico contro gli ebrei e la religione ebraica.
Essendo divenuti intollerabili gli atti di criminale discriminazione religiosa, perpetrati ai suoi danni dall’Amministrazione Giudiziaria italiana e condivisi da questi anonimi razzisti cattolici, il dr. Luigi Tosti inoltrava al Ministro di Giustizia una lettera “ultimatum” del 1°.5.05 con la quale ribadiva, in via principale, la richiesta di immediata rimozione dei crocifissi o, in subordine, di essere autorizzato ad esporre la sua menorà a fianco del crocifisso cattolico, rivendicando in tal modo il diritto all’eguaglianza e alla non discriminazione religiosa.
Con questa lettera, prodotta nel fascicolo di parte come documento n. 18, il dr. Luigi Tosti preannunciava che, in caso di mancato accoglimento delle sue richieste, sarebbe stato costretto ad astenersi dal tenere le udienze a partire dal 9.5.2005: e questo sia per evitare di subire gli atti di discriminazione religiosa da parte dellAmministrazione giudiziaria, sia per “libertà di coscienza”, cioè per tutelare da un lato il diritto dei cittadini italiani di essere giudicati da giudici imparziali (art. 111 Cost.) e, dall’altro, per tutelare i suoi diritti inviolabili alla libertà religiosa e all’eguaglianza religiosa (art. 3 e 19 Cost.).
Con la lettera del 1.5.2005 il dr. Luigi Tosti invitava anche il Presidente del Tribunale a provvedere alla sua sostituzione, dal 9 maggio in poi, per garantire la prosecuzione del servizio.
Non essendo stata esaudita nessuna delle due richieste, il dr. Luigi Tosti si asteneva dalla trattazione delle udienze a far data dal 9 maggio 2005.
In seguito a questo rifiuto al dr. Tosti veniva proposto l’invito a tenere le udienze nel suo studio o in altra aula senza crocifisso. L’invito veniva respinto, non solo perché contraddittorio e inutile, ma anche per le sue criminali connotazioni di segregazione, ghettizzazione e discriminazione religiosa, che ledevano in modo macroscopico la dignità del dr. Tosti e i suoi diritti di eguaglianza religiosa e razziale.
Nonostante ciò, al dr. Tosti veniva indirizzata un’ulteriore “proposta”, ancora più indecente, più offensiva e più contraddittoria della prima: cioè quella di riprendere le udienze in un’ “aula-ghetto”, allestita in tutta fretta “senza crocifisso” per il giudice ebreo. Ovviamente il dr. Tosti la respingeva, evidenziandone le connotazioni razzistiche e discriminatorie.
In seguito al rifiuto di tenere le udienze, la Procura dell’Aquila apriva alcuni procedimenti penali per omissione di atti di ufficio, accusando il dr. Luigi Tosti di “essersi astenuto dal tenere le udienze, indebitamente motivandola espressamente per la presenza in aula del crocifisso”.
Il dr. Tosti contestava, immediatamente, questa incolpazione, facendo notare al P.M. aquilano che il suo rifiuto scaturiva, innanzitutto, da un atto di criminale discriminazione religiosa, cioè dal fatto che il Ministro di Giustizia gli imponeva di tenere le udienze in presenza dei crocifissi ma gli vietata di esporre la menorà ebraica. Il dr. Tosti rappresentava al P.M. aquilano che questo comportamento discriminatorio violava l’art. 3 della Costituzione, gli artt. 9 e 14 della Convenzione sui diritti dell’Uomo, ed integrava, altresì, gli estremi del reato di cui all’art. 3 della legge 13.10.1975, a mente del quale è punito con la reclusione sino a tre anni “chi commette atti di discriminazione per motivi...religiosi”: reclamava, pertanto, anche la scriminante della legittima difesa contro gli atti di delittuosa discriminazione religiosa. Chiedeva pertanto che il P.M. integrasse il capo di imputazione, facendo risultare la verità, e cioè che il suo rifiuto di tenere le udienze scaturiva, in prima battuta, dall’imposizione del crocifisso e dal contestuale divieto di esporre la sua menorà ebraica.
La richiesta non veniva accolta e il P.M. chiedeva ed otteneva il rinvio a giudizio immediato del dr. Tosti dinanzi al Tribunale dell’Aquila.
Con sentenza del 18.11.2005 Luigi Tosti veniva condannato alla pena di sette mesi di reclusione.
Contro la condanna veniva proposto appello che la Corte dell’Aquila, con sentenza del 23.5.2007, respingeva.
Veniva interposto il presente ricorso per cassazione, con impugnazioni autonome dell’imputato e dei suoi difensori presentate col rispetto del termine decadenziale di 45 giorni, tenuto conto della sospensione feriale dei termini processuali, che va dal 1° agosto al 15 settembre di ciascheduno anno.
Qui di seguito si sintetizzano i motivi principali del ricorso, esponendoli peraltro nell’ordine di priorità logica, piuttosto che nell’ordine numerico.
NONO MOTIVO
Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 328 del Codice Penale.
Col nono motivo si è eccepito che l’imputato doveva essere assolto perché non sussiste il fatto-reato nella sua materialità, cioè perché non esiste alcuna udienza che sia stata omessa o ritardata.
Il dr. Tosti, infatti, ha preannunciato con largo anticipo che si sarebbe astenuto dalla trattazione delle udienze, invitando l’Amministrazione a sostituirlo, dal 9.5.2005 in poi, se non fossero stati rimossi i crocifissi dalle aule o non fosse stata autorizzata l’esposizione delle sue menorà. In seguito all’astensione, poi, il dr. Tosti è stato sempre sostituito dai colleghi: NON esiste, dunque, alcun atto d’ufficio (cioè udienza) che risulti essere stato omesso o ritardato ai sensi dell’art. 328 del codice penale.
Il dr. Luigi Tosti doveva essere pertanto assolto in base al principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione penale nella sentenza 25.5.1985/3.7.1985 n. 6670 (Candus).
Con questa sentenza le SS.UU. sono state chiamate a dirimere il conflitto tra queste due concezioni: “l'una, incentrata sul dovere di fedeltà del funzionario verso lo Stato, che individua la fattispecie in ogni volontario inadempimento dei doveri del pubblico ufficiale; l'altra che, muovendo da una prospettiva più sostanziale, dà rilievo non tanto all'inadempimento quanto alla sua conseguenza, dell'essere cioè mancato l'atto dell'ufficio che la pubblica amministrazione aveva il dovere di emanare.”
Dirimendo questo conflitto, le Sezioni Unite hanno optato per la seconda soluzione, affermando che “l'art. 328 c.p. si riferisce testualmente non ad un generico dovere di fedeltà e di zelo del pubblico ufficiale, ma al mancato o ritardato compimento di un atto dell'ufficio”. Pertanto, “il reato di omissione di atti di ufficio si perfeziona non in seguito ad ogni ingiustificato inadempimento dei doveri del pubblico ufficiale e, in particolare, dell’obbligo della prestazione dell’attività lavorativa, ma soltanto se dall’inadempimento sia conseguita l’omissione o il ritardo dell’atto dovuto."
In altre parole, se un chirurgo, dopo aver vanamente lamentato che nella sala operatoria vi sono radiazioni ionizzanti che pregiudicano la salute sua e dei pazienti, invia un ultimatum al Direttore sanitario col quale lo invita ad eliminarle immediatamente e gli preannuncia che, in caso contrario, sarà costretto ad astenersi dal lavoro a far data dal 9.5.2005, e se il Direttore sanitario -da parte sua- fa eseguire gli interventi operatori dai chirurghi “supplenti”, anziché eliminare le radiazioni, non si potrà ipotizzare che sia stato perpetrato il delitto di cui all’art. 328 C.P., e cioè che “sia stato omesso o ritardato un qualche intervento chirurgico”. Semmai si potrà disquisire -ma solo in sede di contenzioso amministrativo- se l’astensione dalla prestazione lavorativa sia o meno giustificata e se, dunque, possa assumere rilievi disciplinari.
La Corte di appello dell’Aquila ha disatteso questo indirizzo giurisprudenziale delle Sezioni Unite, contrapponendo ad esso la giurisprudenza della Cassazione penale che afferma che “il delitto di rifiuto d’ufficio è un reato di pericolo” e che, pertanto, esso si perfeziona “ogni qual volta venga denegato un atto non ritardabile....prescindendosi dal concreto esito dell’omissione” (Cass. pen., Sez. VI, 18.4.1997, n. 3599).
Questa motivazione è palesemente erronea, perché la giurisprudenza citata -pur essendo esatta e condivisibile- non è pertinente.
Le massime citate dalla Corte di Appello, infatti, partono dal presupposto che il reato di rifiuto di atto di ufficio si sia perfezionato -e cioè che vi sia stato realmente un rifiuto o un ritardo ingiustificato di un atto di ufficio- e sanciscono poi che in questo caso non ha alcun rilievo la circostanza che non si sia realizzato alcun danno a carico di terzi: il delitto di rifiuto di atti di ufficio è infatti un “reato di pericolo”.
Nel caso del dr. Tosti, però, è evidente che difetta il presupposto sul quale si fonda la giurisprudenza menzionata dalla Corte di Appello, dal momento che non esiste, nella realtà, alcuna udienza che sia stata omessa o ritardata e, pertanto, non esiste, nella materialità, alcun “reato di pericolo” al quale possa applicarsi il principio enunciato dalla Cassazione.
E la riprova inconfutabile dell’errore commesso dalla Corte di Appello aquilana la si ricava dal passo della sent. n. 6670/1985 delle SS.UU. penali, dove si puntualizza che, “se è vero che la norma incriminatrice ignora gli eventuali effetti dannosi dell'atto omesso, rifiutato o ritardato (Cass. sez. VI^, 3 luglio 1967, Cicchirillo), non può negarsi che il pregiudizio all'ufficio “insito nella condotta illegittima del pubblico ufficiale” (sez. VI^, 30 marzo 1981, Vitone) si identifica, realisticamente, nell'inadempimento della pubblica amministrazione rispetto al dovere di emanazione dell'atto di ufficio.
L’indirizzo giurisprudenziale utilizzato dalla Corte aquilana appare dunque assolutamente privo di pertinenza, sicché il dr. Tosti va assolto con la formula perché il fatto non sussiste, in base al principio di diritto enucleato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 6670/1985.
L’assurdità della condanna emerge peraltro anche dalla stessa impostazione accusatoria del P.M. Questi, infatti, non potendo contestare al dr. Tosti il reato, meno grave, di interruzione di pubblico ufficio (art. 340) -e questo perché “il giudice Tosti era stato sempre sostituito da altro magistrato.....e quindi le udienze erano state tenute”- ha ritenuto di doverlo incriminare per il reato di “rifiuto di atti d’ufficio” che, però, è ben più grave.
Questa impostazione accusatoria è inaccettabile perché implica che, se il dr. Luigi Tosti si fosse rifiutato di tenere le udienze ex abrupto, senza dare alcun preavviso e creando, così, un reale disservizio, egli avrebbe perpetrato un reato..... meno grave. Questa incongruenza mette in luce l’errore di fondo che è stato commesso dai Giudici aquilani, allorché hanno ritenuto che non abbia alcun rilievo la circostanza che le udienze sono state in realtà tutte tenute da altri supplenti. Al contrario, sulla base del principio affermato dalle SS. UU. penali, il reato di rifiuto di atti di ufficio può perfezionarsi solo se l’atto di ufficio è stato materialmente omesso, e non per “sanzionare penalmente” chi sia venuto meno, per motivazioni magari poi risultate infondate, all’obbligo sinallagmatico di prestare l’attività lavorativa.
In quest’ultimo caso -così si legge nella sentenza delle SS.UU.- non potendo neppure configurarsi la fattispecie più lieve di cui all’art. 333 C.P., oramai abrogata, il rifiuto può assumere soltanto rilievi disciplinari.
In via cautelare -e cioè per l’ipotesi che si voglia ritenere che i fatti contestati all’imputato ricadano nella fattispecie astratta del reato di interruzione di pubblico ufficio (art. 340 c.p.)- si censura l’illegittimità dell’irrogazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, perché all’imputato non è stata mai contestata l’aggravante di cui all’art. 61 n. 9 C.P. (Cass. Pen., II Sez., 12.2.1998, n. 3394, Sabella).
Secondo motivo
Erronea applicazione dell’art. 52 del codice penale in relazione alla prospettata scriminante della legittima difesa.
Con la lettera del 3.5.2005 il dr. Luigi Tosti ha chiesto che venissero eliminati i crocifissi da tutte le aule o che, in subordine, egli fosse autorizzato ad esporre la menorà ebraica a fianco del Crocifisso: con questa richiesta ha rivendicato, come aderente all’ebraismo ex art. 4 L. 101/1989, gli stessi diritti e la stessa dignità che la Repubblica Italiana riserva ai Cattolici.
Il Ministro di Giustizia non ha accolto nessuna delle due istanze: il dr. Luigi Tosti si è pertanto rifiutato di tenere le udienze dal 9 maggio 2005, e questo per sottrarsi ad atti di discriminazione religiosa che assumono, nella fattispecie, anche connotazioni criminali. L’art. 3 della legge 13.10.1975 n. 654, infatti, punisce con la reclusione sino a tre anni “chi...commette atti di discriminazione per motivi...RELIGIOSI”: e se il divieto agli ebrei di entrare nei locali pubblici integra un atto di criminale discriminazione razziale, non può non essere considerato un atto di criminale discriminazione vietare alle menorà ebraiche di entrare ed essere esposte nelle aule di giustizia, visto che ai crocifissi cattolici è consentita la pubblica affissione, addirittura a spese della collettività, “grazie” ad una circolare di un regime fascista e razzista.
Secondo il dr. Tosti, infatti, “anche” gli ebrei possono vantare la stessa dignità e gli stessi diritti accordati ai cattolici: ed è assolutamente irrilevante il dato numerico degli aderenti alla confessione cattolica, trattandosi di diritto all’eguaglianza religiosa che compete al singolo individuo e che, pertanto, non può essere prevaricato da alcuna “maggioranza” (Corte Costituzionale oramai costante).
Risulta poi pacifico -e comunque acclarato per tabulas dalle lettere prodotte in giudizio- che i Superiori del dr. Tosti, al fine di farlo desistere dall’astensione dalle udienze, hanno pensato bene -non già di autorizzarlo ad esporre la menorà ebraica, soluzione improponibile perché gli ebrei sono evidentemente considerati dal Ministro di Giustizia esseri “immondi” che si sono macchiati del crimine di “deicidio”- bensì di allestirgli un’ “aula-ghetto”, “ovviamente” priva della “sacrilega” menorà ebraica che tanto offende e tanto turba la “sensibilità” dei cattolici italiani.
Nell’ottica dei Superiori del Tosti, dunque, l’odierno imputato avrebbe dovuto seguitare a lavorare, isolato come un appestato e in regime di apartheid, in un’ “aula-ghetto” sino al.... suo pensionamento!
Il giudice ebreo, però, anziché subire questi ulteriori atti di criminale ghettizzazione, ha persistito nel suo rifiuto. Questo comportamento ha determinato l’apertura del presente procedimento penale che, anziché essere indirizzato contro gli amministratori che hanno criminalmente discriminato e tentato di ghettizzare il dr. Tosti, è stato grottescamente promosso contro la vittima della discriminazione.
Il dr. Tosti si è difeso in questo processo sostenendo, in primis, che il suo comportamento di rifiuto di tenere le udienze integrava una reazione di legittima difesa per sottrarsi alla criminale discriminazione religiosa perpetrata ai suoi danni dai Ministri di Giustizia e dai suoi Superiori.
Ebbene, in esito al processo penale di primo grado il dr. Luigi Tosti è stato condannato alla pena di sette mesi di reclusione e ad un anno di interdizione dai pubblici uffici, senza che l’estensore della sentenza spendesse una parola per giustificare l’esclusione della scriminante della legittima difesa.
Interposto gravame, la Corte di Appello ha respinto la censura relativa alla mancata applicazione della scriminante della legittima difesa richiamando il principio affermato dalla Cassazione penale nelle sentenze della Sez. I, 7.3.1995 n. 2554, della Sez. I, 29.7.1999 n. 9695 e della Sez. IV, 29.9.2006 n. 32282, e cioè che la reazione posta in essere dall’imputato -ovverosia il rifiuto di tenere le udienze- “non era l’unica possibile”, potendo essere sostituita con un’altra “meno dannosa, ma ugualmente idonea ad assumere la tutela del diritto aggredito”.
Per la precisione, la Corte ha affermato che “per la salvaguardia della lesione dei suoi diritti di rango costituzionale” il dr. Luigi Tosti avrebbe dovuto attendere l’esito del ricorso che aveva attivato dinanzi al TAR delle Marche per ottenere la rimozione dei crocifissi o l’autorizzazione ad esporre la sua menorà. Se l’esito del ricorso giurisdizionale fosse stato “positivo” -ha chiosato la Corte aquilana- il dr. Tosti avrebbe conseguito un “risultato del tutto equivalente a quello perseguito con la condotta omissiva incriminata”, cioè avrebbe visto cessare i criminali atti di discriminazione ai suoi danni.
Questa motivazione non è soltanto erronea, ma è anche grottesca.
E’ di lampante evidenza, infatti, che la circostanza che il dr. Luigi Tosti avesse adito l’autorità giudiziaria per ottenere la rimozione dei crocifissi o l’esposizione della menorà ebraica non aveva avuto il magico effetto di far cessare gli atti di criminale discriminazione che erano stati perpetrati ai suoi danni, e che continuavano ad essere tranquillamente perpetrati ai suoi danni: “nonostante” l’attivazione del ricorso dinanzi al TAR delle Marche, infatti, il dr. Luigi Tosti era costretto, ogni qualvolta doveva tenere un’udienza, a subire atti di discriminazione religiosa, che avevano anche connotazioni criminali.
Dunque, l’UNICO modo per sottrarsi alla criminale discriminazione religiosa e, comunque, per preservare i suoi diritti inviolabili di eguaglianza e di libertà religiosa, era quello di non tenere le udienze: e non quello -a dir poco grottesco- di seguitare a tenere le udienze per altri 15-20 anni, in attesa dell’esito del ricorso che, se positivo, avrebbe determinato la cessazione della discriminazione religiosa ai suoi danni.
Se il dr. Tosti avesse seguito questo consiglio, dispensato dalla Corte dell’Aquila, avrebbe seguitato a subire, ancora oggi, gli atti di criminale discriminazione religiosa: e questo, peraltro, in attesa di una sentenza che si profilava -e che si profila- del tutto irrilevante ai fini dell’esimente della legittima difesa. Infatti, un ipotetico accoglimento del ricorso -che potrà avvenire tra 15 o 20 anni, visti i tempi della “Giustizia”- non servirebbe ad un bel nulla, dal momento che nel frattempo il dr. Tosti avrebbe subìto la lesione irreversibile dei suoi diritti inviolabili. Anche il rigetto del ricorso, però, si profilerebbe del tutto irrilevante, dal momento che il dr. Tosti si troverebbe comunque nella necessità di attuare la stessa forma di autotutela, cioè di astenersi dalla trattazione delle udienze, per sottrarsi alla criminale discriminazione religiosa.
Concludendo, la motivazione addotta dalla Corte di Appello, ad avviso della quale il dr. Luigi Tosti avrebbe dovuto optare per la “soluzione alternativa di attendere l’esito dei suoi ricorsi, perché ugualmente idonea ad assumere la tutela dei suoi diritti aggrediti”, è palesemente erronea, oltreché grottesca.
In ogni caso, si ribadisce che è ingiustificabile, sotto il profilo squisitamente giuridico, che si imponga, a chi sta subendo l’ingiusta aggressione dei propri diritti, l’onere di intraprendere un’azione giudiziaria -ed attenderne poi l’esito favorevole- come valida alternativa alla “legittima difesa contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta”: un siffatto onere, infatti, finirebbe per vanificare l’istituto stesso della legittima difesa, previsto dall’art. 52 del c.p.
La legittima difesa, infatti, è una forma di “autotutela” che prescinde, necessariamente, dall’onere di ricorrere preventivamente al giudice per ottenere un’ “autorizzazione” alla reazione. Se si opinasse come ha opinato la Corte di Appello di L’Aquila, la legittima difesa non sarebbe più una forma di “autotutela”, bensì una forma di tutela ordinaria ottenuta attraverso l’esecuzione di sentenze favorevoli dei giudici: il che equivarrebbe, però, a cancellare e annichilire dal codice penale l’art. 52.
Così si è invece pronunciato il Tribunale di Bolzano in una sentenza del 28.3.1979: “Il principio dell’autotutela è uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, dipanantesi attraverso le norme del codice civile e del codice penale. Ogni cittadino, di fronte ad un atto illecito che lo danneggi ha il diritto di adottare tutti i mezzi adeguati al fine di ottenere che l’illecito in suo danno cessi per impedire il ripetersi di consimili illeciti”.
Va peraltro rimarcato che l’art. 52 del C.P. contempla una forma di “autotutela”, cioè autorizza il cittadino a reagire contro le aggressioni ingiuste con comportamenti che integrano gli estremi di reato: la giurisprudenza, però, privilegia il comportamento di chi, pur potendo reagire per legittima difesa, preferisce sottrarsi all’ingiusta aggressione col commodus discessus, cioè preferisce “sottrarsi all’ingiusta aggressione quando ciò è possibile ed il fatto non è ritenuto vile e disonorevole”.
Ebbene, il dr. Tosti null’altro ha fatto che sottrarsi ad atti di criminale discriminazione religiosa e, comunque, all’ingiusta aggressione dei suoi diritti inviolabili di libertà religiosa e di eguaglianza religiosa: non si giustifica, dunque, che sia stato ritenuto responsabile del delitto di “omissione di atti di ufficio”.
E che il dr. Tosti sia stato oggetto di atti di discriminazione religiosa è circostanza inoppugnabile, oltre che non contestata dalla Corte di Appello.
Basta ricordare che:
- l’art. 3 della Costituzione sancisce che “tutti i cittadini -quindi anche gli ebrei- “hanno pari dignità e sono uguali dinanzi alla legge, senza distinzione di religione”;
- l’art. 8 della Costituzione sancisce che “tutte le confessioni religiose -e quindi anche l’ebraismo- sono egualmente libere davanti alla legge”;
- l’art. 19 della Costituzione sancisce che “tutti -e quindi anche gli ebrei- hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, di farne propaganda e di esercitarne il culto anche in pubblico”;
- l’art. 9 della Convenzione internazionale sui diritti dell’Uomo sancisce che “ogni persona -e quindi anche l’ebreo- ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; questo diritto importa la libertà di cambiare religione o di pensiero, come anche la libertà di manifestare la propria religione o il proprio pensiero individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, per mezzo del culto, dell’insegnamento, di pratiche e di compimento di riti”;
- l’art. 14 della medesima convenzione, titolato “Divieto di discriminazione”, sancisce che “il godimento dei diritti civili e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere garantito a tutti -quindi anche agli ebrei- senza alcuna distinzione, fondata sulla... religione”;
- l’art. 58 del regolamento penitenziario (D.P.R. 30.6.2000 n. 230) accorda a tutti i detenuti -e quindi anche agli ebrei- il diritto di esporre, nella propria camera o nel proprio spazio di appartenenza, immagini e simboli della propria confessione religiosa, evitando così qualsiasi possibile discriminazione tra i credenti o assurdi “privilegi” a favore dei cattolici;
- l’art. 43 del D. L.vo n. 286/1998, titolato “Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” sanziona come atto discriminatorio “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulle........ convinzioni e pratiche religiose” e stabilisce che “compie un atto di discriminazione... il pubblico ufficiale ..... che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino.... che, soltanto a causa della sua condizione....... di appartenente ad una determinata..... religione lo discriminino ingiustamente” nonché “il datore di lavoro che....... compia qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una.............confessione religiosa”;
- l’art. 43 del D.L.vo 286/1998 sancisce che “Quando il comportamento....... della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi..... religiosi, il giudice può......... ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione”;
- la convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, sipulata a Strasburgo il 1° febbraio 1995 e ratificata con Legge 28 agosto 1997, n. 302, sancisce all’art. 6 che “Le Parti incoraggeranno lo spirito di tolleranza ed un dialogo inter-culturale, ed adotteranno misure effettive per promuovere il rispetto e la comprensione reciproca, nonché la cooperazione tra tutte le persone che vivono sul loro territorio, a prescindere dalla loro identità ......religiosa....... e si s’impegnano ad adottare ogni misura appropriata per proteggere le persone che potrebbero essere vittime ..... di atti di discriminazione...... religiosa”;
- l’art. 2, parte I^, della L. 8.3.1989 n. 101 sancisce che “in conformità ai principi della Costituzione, è riconosciuto il diritto di professare e praticare liberamente la religione ebraica in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto e i riti”, che “é assicurata in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa, senza discriminazione tra i cittadini e tra i culti”;
- la Corte Costituzionale, con sent. n. 195/1993, ha affermato che “qualsiasi DISCRIMINAZIONE in danno dell'una o dell'altra fede è COSTITUZIONALMENTE INAMMISSIBILE in quanto contrasta con il diritto di libertà di religione e con il principio di eguaglianza”;
- l’art. 3 della legge 13.10.1975, infine, punisce con la reclusione sino a tre anni “chi commette atti di discriminazione per motivi...religiosi”.
Alla luce di tutta questa normativa, che stigmatizza e sanziona chi compie atti di dicriminazione religiosa, è sconcertante constatare che sia stato condannato il dr. Luigi Tosti -cioè la vittima della criminale discriminazione- piuttosto che gli artefici della discriminazione. E’ sconcertante constatare che i Ministri di Giustizia, dopo aver privilegiato i cattolici attraverso l’esposizione dei loro crocifissi a spese dello Stato, abbiano negato ad un dipendente ebreo di esporre, a proprie spese, la menorà a fianco del crocifisso: un’autorizzazione, questa, assolutamente possibile, ma che è stata negata perché i Ministri di Giustizia italiani sono “razzisti” e ritengono che gli ebrei siano indegni di affiancare i loro simboli a quello della “Superiore Razza Cattolica”.
Concludendo: nella denegata ipotesi che si voglia ritenere che il rifiuto del dr. Luigi Tosti concretizzi il reato di “omissione di atti di ufficio” (ma questo deve essere escluso alla luce della citata sent. 3.7.1985 n. 6670 delle SS.UU.), si dovrà comunque affermare che il rifiuto del dr. Tosti non è punibile perché integra una legittima reazione di difesa per sottrarsi ad atti di discriminazione religiosa che assumono, nella fattispecie, anche connotazioni criminali.
Terzo motivo
Erronea applicazione dell’art. 328 codice penale ed omessa motivazione del terzo motivo di appello (art. 606, lett. c) ed e) del C.P.P.
Col terzo motivo si è dedotto che il Tribunale dell’Aquila aveva condannato il dr. Luigi Tosti perché aveva ritenuto che i principi affermati dalla IV Sezione della Cassazione Penale nella sentenza 1.3.2000 n. 4372, imp. Marcello Montagnana, non erano applicabili al “caso” del dr. Luigi Tosti, trattandosi di fattispecie “diverse”.
Per la precisione il Tribunale aveva affermato che, mentre la norma violata dal Montagnana -cioè l’art. 108 D.P.R. 30.3.1957 n. 361- prevedeva per lo scrutatore la possibilità di rifiutarsi di espletare l’incarico “se ricorreva un giustificato motivo”, la norma violata dal Tosti -cioè l’art. 328 del codice penale- non prevedeva che il pubblico ufficiale potesse rifiutare un atto del suo ufficio “per giustificato motivo”: da questa differenza normativa aveva poi dedotto che il dr. Luigi Tosti aveva l’obbligo di tenere le udienze, dal momento che “non assumevano alcun rilievo le esigenze discendenti dalla legittima tutela della libertà di religione o di coscienza ovvero del principio di laicità dello stato.”
Questa motivazione è stata fatto oggetto di esplicito motivo di gravame, ma la Corte di Appello ha omesso di pronunciarsi.
L’imputato ha dunque proposto ricorso per cassazione lamentando, in primis, l’omessa pronuncia e deducendo, in ogni caso, l’erronea intepretazione ed applicazione dell’art. 328 del codice penale.
E, in effetti, l’art. 328 del codice penale sancisce che la punibilità del reato è subordinata alla circostanza che il rifiuto del compimento dell’atto da parte del pubblico ufficiale sia “indebito”, e cioè che non sussista un giustificato motivo di rifiuto: è dunque evidente che le due fattispecie penali (art. 108 D.P.R. 30.3.1957 n. 361 ed art. 328 C.P.) sono esattamente identiche dal punto di vista lessicale. Pertanto, il principio sancito dalla Cassazione penale nella sentenza n. 4273/2000 (costituisce giustificato motivo di rifiuto dell’ufficio di scrutatore la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo di laicità dello Stato e l’adempimento dell’incarico, a causa della presenza dei crocifissi nei seggi elettorali”) doveva necessariamente applicarsi anche al caso del dr. Luigi Tosti.
Ma c’è di più. L’interpretazione restrittiva del Tribunale dell’Aquila è infatti smentita e sconfessata dalla Cassazione penale, Sez. VI, che nella sentenza 20.6.2000 (6.4.2000) n. 7281, Lo Presti ed altri (conforme a Cass. pen., Sez. VI, 11.2.1999), ha statuito che “in tema di rifiuto di atti di ufficio, di cui al primo comma dell’art. 328 C.P., il carattere indebito del rifiuto non è ravvisabile quando il compimento dell’atto determini la lesione di diritti costituzionalmente garantiti del soggetto agente. Nel bilanciamento fra l’interesse al buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) ed il diritto soggettivo alla difesa, tutelato dall’art. 24 della Costituzione, la prevalenza non può che essere attribuita a quest’ultimo. L’esigibilità del compimento dell’atto di ufficio non può, infatti, sacrificare il diritto alla difesa, anche come tutela avanzata nel senso di non assoggettamento ad atti che possano comportare l’incriminazione del pubblico ufficiale”.
Si sottolinea che il caso esaminato dalla VI Sez. penale della Cassazione riguardava due funzionari di polizia che si erano rifiutati di ricevere una denuncia penale a loro carico: i funzionari sono stati assolti perché, “se avessero ricevuto quella denuncia a loro carico, l’Autorità giudiziaria li avrebbe poi indagati e, quindi, avrebbero agevolato il corso della giustizia contro se stessi, ledendo il loro diritto soggettivo alla difesa, tutelato dall’art. 24 della Costituzione”. In sostanza, la Cassazione ha ritenuto che sia addirittura legittimo che un pubblico ufficiale, per impedire che si proceda penalmente a proprio carico per un reato commesso in precedenza, possa rifiutarsi di ricevere la denuncia penale che la parte offesa intende presentare contro di lui.
Il rifiuto è stato ritenuto “giustificato”, anche se aveva per oggetto un atto -cioè la ricezione di una denuncia penale- che di per sé era legittimo. A maggior ragione, dunque, si imponeva l’applicazione di questo stesso identico principio al caso del dr. Tosti: il suo rifiuto è infatti addirittura motivato dalla illiceità del comportamento dello Stato che, omettendo di rimuovere i crocifissi dalle aule, cagiona in modo intenzionale la lesione del principio di laicità (cioè dell’obbligo costituzionale del magistrato Luigi Tosti di essere e apparire imparziale) e, altresì, la lesione dei suoi diritti costituzionali alla libertà di religione e all’eguaglianza e non discriminazione.
Né si può lontanamente sostenere che il principio enunciato dalla Cassazione nella sentenza 7281/2000 NON si applica ai “magistrati” perché essi -come afferma la Corte di Appello- sono SEMPRE tenuti ad “obbedir tacendo”, perché così disporrebbe l’art. 54, comma 2°, della Costituzione: infatti, al di là della circostanza che l’art. 54 della Costituzione si riferisce, genericamente, ai “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche” e, quindi, “anche” ai funzionari di polizia (i quali sarebbero dunque tenuti a ricevere le denunce, anche quando ciò leda il loro diritto di difesa), è incontestabile che la ricezione delle denunce penali rientri nei compiti del pubblici ministeri, ex art. 333 c.p.p., sicché il principio enucleato dalla Cassazione penale nella sentenza 7281/2000 si applica “anche” ai “magistrati”, con buona pace della “tesi”, affermata dalla Corte di Appello, secondo cui i “magistrati sono sempre obbligati ad obbedir tacendo”.
Concludendo, si chiede che la VI Sezione della Corte di Cassazione faccia corretta applicazione del principio di diritto enucleato nella sentenza n. 7281/2000, assolvendo l’imputato con questa motivazione:
“In tema di rifiuto di atti di ufficio di cui al primo comma dell’art. 328 C.P., il carattere indebito del rifiuto non è ravvisabile quando il compimento dell’atto determina la lesione di diritti costituzionalmente garantiti del soggetto agente. Pertanto, alla luce dei principi sanciti dalla IV Sezione Penale della Cassazione nella sentenza n. 4273 del 1.3.2000 (Montagnana), applicabili al reato in questione anche per stretta analogia lessicale col reato di cui all’art. 108 D.P.R. 30.3.1957 n. 361, non è indebito il rifiuto di un giudice di tenere le udienze a causa dell’esposizione generalizzata dei crocifissi nelle aule giudiziarie, dal momento che la circolare del Ministero di Grazia e Giustizia, Div. III, del 29.5.1926 n. 2134/1867, che ne impone l’esposizione quale “simbolo venerato” e “solenne ammonimento di verità e giustizia”, deve ritenersi non solo tacitamente abrogata ex art. 15 delle preleggi per contrasto col principio supremo di laicità delineato dalla Costituzione repubblicana, ma anche lesiva del dovere costituzionale di imparzialità del giudice, prescritto dall’art. 111 della Costituzione e dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo, nonché dei diritti di libertà religiosa e di eguaglianza e non discriminazione religiosa dell’agente, garantiti, rispettivamente, dagli artt. 19 Cost. e 9 Conv. e dagli artt. 3 Cost. e 14 Convenzione.”
QUARTO MOTIVO e UNDICESIMO motivo
Inosservanza e/o erronea applicazione degli articoli 1, primo comma, 2, 3, 4, secondo comma, 8, 19, 21, 54, 97, 98, 101, 104, 111 della Costituzione, degli articoli 1, 6, 9, 13, 14 e 17 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con legge 4.8.1955 n. 848, e degli artt. 2934 e 2968 codice civile (art. 606, lett. C, c.p.p.).
I. Le motivazioni del “rifiuto” di tenere le udienze.
Il dr. Tosti ha chiesto al Ministro di Giustizia di rimuovere i crocifissi dalle aule di giustizia per questi motivi.
A) Il crocifisso, impostogli come “simbolo venerato, ammonimento di verità e giustizia”, lede in modo eclatante il “principio supremo di laicità” e, dunque, il suo “obbligo” primario di Giudice di essere e apparire imparziale nei confronti di TUTTI i cittadini durante l’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali (art. 111 e 97 Cost.).
B) La presenza del crocifisso lede anche il suo diritto inviolabile di libertà religiosa (art. 19 Cost. e 9 Conv. dir. uomo), dal momento che gli viene imposta la presenza pubblica di un simbolo religioso nelle aule dove è costretto ad esercitare le sue funzioni: e questo, tra l’altro, in spregio alla sua radicata avversione verso qualsiasi forma di “idolatria”. Dal momento che le ostensioni dei crocifissi nelle case, nelle chiese, nei conventi e al collo delle persone non sono -e non possono essere- considerate atti “anodini”, bensì sono atti di inequivoca e pubblica manifestazione di appartenenza ad una determinata confessione religiosa, nonché di “fede” e di “venerazione” di un determinato “dio”, il dr. Luigi Tosti non tollera che lo Stato italiano lo costringa ad espletare le sue funzioni lavorative in un ambiente che sfoggia, per plateale “scelta confessionale” dell’Amministrazione Giudiziaria (simbolo “venerato”, ammonimento di Verità e giustizia”), una manifestazione di “fede” verso la religione cattolica ed un atto di “venerazione” verso il “dio” dei cattolici. Il dr. Luigi Tosti giammai si sognerebbe di imporre l’esposizione delle sue menorà nelle chiese cattoliche e nelle case altrui: dunque, egli pretende che lo Stato italiano si astenga dall’esporre i simulacri del dio dei cattolici nelle aule giudiziarie, le quali appartengono a tutti gli italiani -e non ai soli cattolici- e debbono dunque apparire neutrali e imparziali, in rispettoso ossequio del principio supremo di laicità.
C) La presenza del crocifisso, infine, lede anche il suo diritto primario all’eguaglianza e alla non discriminazione religiosa (art. 3 Cost. e 14 Conv. dir. uomo), dal momento che gli viene negato il pari diritto di esporre i propri simulacri, parimenti “venerati” e parimenti idonei ad “ammonire Verità e Giustizia” nelle aule giudiziarie italiane.
Non avendo il Ministro ottemperato alle sue richieste, il dr. Luigi Tosti ha posto in essere una reazione di legittima autotutela, cioè si è rifiutato di tenere le udienze per libertà di coscienza, ovverosia per non essere costretto a calpestare il suo obbligo costituzionale di imparzialità e per non subire, poi, la lesione, immediata e irreversibile, dei suoi diritti inviolabili all’eguaglianza e alla libertà religiosa.
Con questo comportamento di rifiuto il dr. Tosti si è conformato, pedissequamente, ai principi di diritto affermati dalla Cassazione penale, nella sentenza n. 4273/2000, e dalla Corte Costituzionale nelle sentenze nn. 117/1979 e 334/1996.
Per la precisione, con la sentenza n. 4273/2000 la Cassazione penale ha ritenuto che “la presenza di un simbolo o immagine religiosa in ogni seggio elettorale (indipendentemente da quello di destinazione) costituisce giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di scrutatore, in quanto determina un conflitto interiore tra il dovere civile di svolgere un ufficio pubblico e il diritto a rivendicare il rispetto del principio di laicità dello Stato e di libertà di coscienza garantito dalla Costituzione a ciascun individuo”. In sostanza la Cassazione ha ritenuto che il rifiuto di un pubblico funzionario di adempiere l'ufficio per libertà di coscienza -cioè per preservare il suo obbligo costituzionale di imparzialità ed i suoi diritti inviolabili di eguaglianza e libertà religiosa- sia "giustificato", trattandosi di una "reazione" resa necessaria dal comportamento illegittimo del Ministero dell'Interno, che è venuto meno all'obbligo di rimuovere da TUTTI i seggi elettorali il simbolo del crocifisso, pregiudicando in tal modo il rispetto del principio supremo della laicità dello stato e il rispetto dei diritti primari del funzionario.
Parimenti, con la sentenza n. 117/1979 la Corte Costituzionale ha sancito la legittimità del rifiuto di un teste di prestare il giuramento, trattandosi anche qui di un rifiuto per libertà di coscienza, cioè necessitato dall’illegittimità costituzionale della formula del giuramento: contenendo infatti riferimenti espliciti a Dio, essa finisce per ledere il diritto inviolabile di libertà religiosa del testimone.
Infine, con la sentenza n. 334/1996 la Corte Costituzionale ha sancito la legittimità del rifiuto di una parte di prestare il giuramento decisorio: e non soltanto perché lesivo del diritto di libertà di coscienza del giurante a causa dei riferimenti a “dio” contenuti nella formula dell’art. 328 del c.p.c., ma anche perché “l’intervento dello Stato nelle pratiche aventi significato religioso è sempre escluso, in conseguenza dell’appartenenza della religione a una dimensione che NON è quella dello Stato e del suo ordinamento giuridico, al quale spetta soltanto il compito di garantire le condizioni che favoriscono l’espansione delle libertà di TUTTI e, in questo ambito, della libertà di religione”, sicché è inammissibile che “un giudice possa ammonire il giurante sull’importanza religiosa del giuramento” e che “la parte debba esprimere la propria consapevolezza circa la responsabilità che col giuramento assume davanti a Dio”. Dunque, è altrettanto inammissibile che il Ministro di Giustizia imponga al personale dipendente e a tutti gli utenti, che sono costretti a frequentare i Tribunali, la presenza dell’idolo dei Cattolici, che viene addirittura proposto come “simbolo venerato, ammonimento di Verità e Giustizia.
E che l’ostensione del crocifisso, sopra la testa dei giudici, integri un “atto di intervento dello Stato con significato religioso”, lo si argomenta, in modo inoppugnabile, dalla circostanza che l’attuale Pontefice ha “ammonito” la sua “Colonia”, cioè l’Italia, a non rimuovere i crocifissi, dichiarando che “Dio deve essere presente nei Tribunali e nelle scuole”. D’altro canto, se la rubrica dell’art. 58 del regolamento penitenziario (D.P.R. 30.6.2000 n. 230) qualifica come “manifestazione di libertà religiosa” “l’esposizione da parte dei detenuti, nella propria camera individuale o nel proprio spazio di appartenenza, delle immagini e dei simboli della propria confessione religiosa”, non si vede come non si debba attribuire all’esposizione obbligatoria dei crocifissi nei Tribunali lo stesso identico valore di “manifestazione religiosa”: una manifestazione di fede confessionale che, provenendo dallo Stato, calpesta in modo eclatante il principio supremo di laicità, il quale vieta allo Stato e a qualsiasi altro organo della Pubblica Amministrazione di professare e/o manifestare una qualsiasi fede.
Né varrebbe sostenere l’assurda tesi che il crocifisso è un “simbolo culturale”: “anche a poter condividere la tesi del significato meramente culturale del crocifisso -ha chiarito il CSM nella delibera con la quale ha disposto la sospensione cautelare del dr. Tosti- il problema della libertà di coscienza e del pluralismo si sposterebbe dal terreno esclusivamente religioso a quello appunto culturale, ma non sarebbe risolto, in quanto dai principi costituzionali in precedenza individuati deriva che l'amministrazione pubblica non può scegliere di privilegiare un aspetto della tradizione e della cultura nazionale, sia pure largamente maggioritaria, a discapito di altri minoritari, in contrasto con il progetto costituzionale di una società “in cui hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse” (Corte Cost., n. 440 del 1995)”.
II. Le motivazioni della condanna.
La Corte d’Appello -contrariamente a quanto fatto dalla Cassazione penale nella sentenza “Montagnana”- ha ritenuto di poter eludere la questione relativa all’illegittimità dei crocifissi nelle aule giudiziarie: la circostanza che la loro presenza possa ledere il principio supremo di laicità e i diritti inviolabili del dr. Luigi Tosti, è stata infatti ritenuta del tutto irrilevante.
L’iter motivazionale della Corte si sviluppa con questi passaggi.
1°) I diritti inviolabili, e in particolare il diritto di libertà di coscienza garantito dall’art. 2 della Costituzione, competono innegabilmente anche i magistrati: tuttavia sono ammissibili dei “limiti”, “purché questi siano posti dalla legge e trovino fondamento in precetti costituzionali espressamente fissati o desumibili dalla Carta Costituzionale”.
2°) Nel caso di specie vanno applicate le argomentazioni sviluppate dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 149/1995, laddove si è affermato che “il legislatore, in tema di libertà di coscienza, può operare per bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e graduarne la possibilità di realizzazione in modo da non arrecare pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi di interesse generale”.
3°) Di decisiva rilevanza, infine, sono state ritenute le argomentazioni su cui si fonda la sentenza n. 196 del 1987 della C. Cost., relativa al caso di un giudice tutelare che, ritenendo che l’aborto fosse contrario ai suoi personali convincimenti religiosi, aveva sollevato l’eccezione di incostituzionalità degli articoli 9 e 12 della legge n. 194 del 1978 che gli imponevano di autorizzare una minorenne ad abortire, reclamando così il riconoscimento del “diritto di rifiutarsi, per obiezione di coscienza, di autorizzare la minorenne ad abortire”. La Corte Costituzionale ha respinto l’eccezione del giudice tutelare, rimarcando che “il conflitto tra l'adempimento dei doveri del giudice e l'imperativo contrario, espressione della propria coscienza, poteva essere superato solo dando la prevalenza all'indeclinabile e primaria realizzazione della esigenza di giustizia, che discende dall'art. 54 e dall’art. 107 della Costituzione”.
Questo principio -ha chiosato la Corte d’Appello- deve essere applicato al caso del dr. Tosti, sussistendo una sostanziale identità col caso del giudice tutelare: il “rifiuto” del dr. Tosti deve essere dunque considerato “indebito”, dal momento che i diritti di libertà di coscienza del magistrato “non possono che cedere il passo all’indeclinabile e primaria realizzazione dell’esigenza di giustizia, sul cui rilievo costituzionale ex art. 54, comma 2°, Cost. non è lecito dubitare”.
4°) La Corte d’Appello ha invece ritenuto che non si applicano al caso del dr. Tosti i principi che sono stati affermati dalla Cassazione penale nella sentenza n. 4273/2000, e questo perché si tratterebbe di due fattispecie diverse.
Due i motivi della “diversità”. Il primo è che l’incarico di scrutatore era obbligatorio ex lege, mentre il rapporto d’impiego del dr. Tosti era volontario, avendo egli accettato la nomina a magistrato ed avendo poi mantenuto in vita tale rapporto: dunque, se proprio non gradiva l’imposizione dei crocifissi, il dr. Tosti aveva l’alternativa di non entrare in magistratura oppure di dimettersi.
Secondariamente, poi, il reato contestato al Montagnana -cioè l’art. 108 del DPR 361/1957- prevede expressis verbis l’esimente del “rifiuto per giustificato motivo”; per i “magistrati”, invece, le uniche ipotesi di “legittima astensione dall’attività giurisdizionale” sono quelle contemplate dagli artt. 51 e 52 del c.p.c. e dagli artt. 36 e 37 del c.p.p., sicché qualsiasi rifiuto di atto di ufficio -che non rientri nella previsione di queste norme processuali- integra il delitto di cui all’art. 328 del C.P.
5°) L’illiceità del rifiuto del dr. Tosti scaturiva -ad avviso della Corte- anche dalla circostanza che al dr. Luigi Tosti era stata allestita un’aula-ghetto nella quale esercitare le sue funzioni di giudice sino alla definizione del suo ricorso giurisdizionale.
6°) Infine, il dr. Luigi Tosti, anziché ricorrere ad un’esasperata forma di “autotutela” -che provocava uno sbilanciamento economico nel rapporto sinallagmatico con l’Amministrazione- poteva optare per l’alternativa di collocarsi in aspettativa sino alla definizione del ricorso giurisdizionale.
III. In estrema sintesi, con questa sentenza la Corte d’Appello ha affermato il principio giuridico che i giudici debbono sempre “obbedire, tacendo”, anche quando l’obbedienza determina la lesione di doveri e/o di diritti di rango costituzionale, propri o altrui: i diritti inviolabili dei magistrati (e dei terzi) divengono infatti “recessivi” -cioè si “annichiliscono”- di fronte ai doveri che nascono dal rapporto d’impiego, come sarebbe sancito dal comma 2° dell’art. 54 della Costituzione.
Questo principio di diritto -oltre che foriero di conseguenze aberranti- appare inficiato da un errore a dir poco ciclopico: la Corte di Appello, infatti, ha applicato al caso del dr. Tosti -che è un caso di “diritto inviolabile di libertà di coscienza”- i principi di diritto che sono stati invece enucleati dalla Corte Costituzionale per il caso del giudice tutelare, cioè per un caso di “obiezione di coscienza”, dando concreta dimostrazione di non aver percepito le abissali differenze che corrono tra questi due istituti.
A) Il “DIRITTO DI LIBERTA' DI COSCIENZA”: fonti normative e contenuto.
I. Per scongiurare il ripetersi degli orrori dell'ultimo conflitto mondiale, olocausto in testa, è stata stipulata nell’immediato dopoguerra la Convenzione internazionale per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, con la quale sono stati riconosciuti ai singoli individui diritti inviolabili quali quello alla vita, quello a non essere sottoposti a torture, quello ad un equo processo, quello alla libertà di pensiero, alla libertà di religione e via dicendo, la cui sussistenza non può essere messa in discussione -né tantomeno violata e/o limitata- dagli Stati contraenti, se non nelle ipotesi e nei limiti fissati dalla stessa Convenzione.
L'art. 1 della Convenzione, titolato “Obbligo di rispettare i diritti dell'uomo”, dispone che “le Alte Parti contraenti riconoscono ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà indicate nel titolo I della presente Convenzione”: i diritti inviolabili, dunque, sono diritti che vengono riconosciuti ad ogni persona, in contrapposizione agli Stati cui le persone appartengono.
Scriveva Norberto Bobbio: “Tutti gli uomini hanno per natura ......... alcuni diritti fondamentali, come il diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza, che lo Stato... deve rispettare, non invadendoli, e deve garantire nei riguardi di ogni possibile invasione da parte degli altri”.
Del tutto analoga è la tutela primaria accordata ai diritti inviolabili dalla Costituzione repubblicana che, all’art. 2, dispone che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo”.
Da queste premesse normative discende che i diritti inviolabili non possono subire limitazioni, violazioni o deroghe superiori a quelle previste dalla Convenzione e/o dalla Costituzione né subire, in caso di conflitto con altri valori primari, un “bilanciamento” che determini restrizioni superiori a quelle consentite.
Il che è mirabilmente espresso nella sentenza n. 11432/1997 delle Sezioni Unite della Cassazione civile: “Le situazioni enunciate come diritto assoluto alla libertà di coscienza e di religione, diritto assoluto all'eguaglianza ed alla non discriminazione, diritto di vedere rispettato come attori cittadini il principio fondamentale della laicità dello Stato e della Scuola, diritto alla salute anche psichica delineano la violazione di diritti primari, derivanti dallo stesso disposto costituzionale, rispetto ai quali nessun potere di sacrificio può individuarsi da parte della pubblica amministrazione. Non esiste alcun organo dello Stato (eccezion fatta per il Parlamento con le modalità e la procedura di modifica costituzionale) che possa incidere in maniera pregiudizievole sui diritti assoluti in cui si esprimono le libertà fondamentali costituzionalmente garantite. Se neppure al legislatore ordinario è consentito derogare ai principi costituzionali, a maggior ragione detta deroga non è consentita, neppure in via provvisoria, alla pubblica amministrazione”.
II. E’ d’uopo segnalare, a questo punto, un’apparente lacuna, contenuta sia nella Convenzione sui diritti dell’uomo che nella Carta Costituzionale: in nessuna delle due, infatti, esiste una norma che riconosca esplicitamente a qualsiasi persona il “diritto di rifiutarsi di ledere i diritti inviolabili altrui”, cioè di “disobbedire a leggi o ad altri atti normativi che impongano, magari dietro comminatoria di sanzioni penali, amministrative, disciplinari o civili, di ledere i diritti di terze persone”.
Questa lacuna normativa potrebbe indurre a ritenere che, se da un lato ad ogni persona è riconosciuto -ad esempio- il diritto alla vita (art. 2) ed il diritto a non essere torturati (art. 3), dall’altro lato qualsiasi Stato contraente potrebbe “legittimamente” imporre ai suoi funzionari ed ai suoi dipendenti pubblici, oppure agli stessi privati, l’obbligo di sterminare o torturare o rinchiudere nei lager gli ebrei e i rom, magari dietro comminatoria di sanzioni penali o di altro genere, senza che ai destinatari di tali “obblighi” competa il “diritto di far prevalere l’imperativo morale del ripudio di atti che sono lesivi dei diritti inviolabili altrui”, cioè di “disobbedire” ad atti normativi e di imperio che impongono di violare diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione.
Si tratterebbe, ovviamente, di una gravissima incongruenza, che vanificherebbe la ratio e l’efficacia della Convenzione, facendo sì che possano ripetersi gli orrori dell’ultimo conflitto mondiale, quando militari e funzionari furono costretti a perpetrare crimini contro i diritti umani con cieca remissività, cioè ad “obbedir tacendo”.
Questa ipotesi interpretativa deve essere però ripudiata, alla luce dei seguenti riferimenti normativi.
A) In primo luogo sia dall’art. 1 della Convenzione che dall’art. 2 della Costituzione italiana si ricava che lo Stato italiano deve garantire il rispetto dei diritti inviolabili: dal momento, poi, che ogni Stato agisce necessariamente attraverso i suoi funzionari (cd. rapporto di rappresentanza organica), si deve ritenere che i funzionari hanno l’obbligo di rifiutarsi di applicare norme illegittime che cagionano la lesione di diritti inviolabili altrui.
B) Argomento altrettanto univoco si trae dall’art. 13 della Convenzione, che sancisce che “ogni persona, i cui diritti e libertà riconosciuti nella presente convenzione fossero violati, ha diritto di presentare un ricorso avanti ad una magistratura nazionale, anche quando la violazione fosse stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio di funzioni ufficiali”.
Dal tenore di questa norma si arguisce che la violazione dei diritti fondamentali da parte dei “funzionari” deve ritenersi, di regola, un'eccezione patologica e che, per converso, i funzionari hanno l’obbligo di applicare le norme della Convenzione con priorità rispetto alle norme interne: e dal momento che gli Stati membri non possono violare i diritti fondamentali dell’individuo, è giocoforza dedurre che i funzionari possano legittimamente “disobbedire” a leggi o ad altri atti di imperio che provocano la violazione dei diritti umani.
C) Risolutivo è infine il testo dell'art. 17 della Convenzione, che sancisce che “nessuna disposizione della Convenzione può essere interpretata come contenente per uno Stato, un raggruppamento, o un individuo, un diritto a....compiere un atto che mira alla sospensione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o ad una limitazione di questi diritti e libertà maggiore di quella prevista dalla Convenzione”.
Dal tenore di questa disposizione si evince che gli Stati contraenti non possono OBBLIGARE i funzionari, magari dietro comminatoria di sanzioni penali e/o disciplinari, a compiere atti che provocano la lesione di diritti fondamentali, cioè ad “obbedire, tacendo”, ad atti normativi che violano diritti umani: se agli Stati fosse infatti consentita una siffatta facoltà, la tutela dei diritti inviolabili sarebbe non soltanto sospesa, ma addirittura annichilita!!!
III. Concludendo, da tutte le norme sopra citate si ricava il principio di diritto che nessuna persona -sia essa un soggetto privato o un pubblico funzionario- può essere costretta -sotto comminatoria di sanzioni penali, disciplinari, amministrative o civili- a ledere diritti “inviolabili” altrui.
IV. Ma c’è di più. L’art. 9 della Convenzione, infatti, riconosce ad ogni persona (e quindi anche ai funzionari) il diritto inviolabile alla libertà di coscienza, sicché non si può disconoscere che, per libertà di coscienza legata al rispetto dei diritti umani altrui, chiunque sia autorizzato a disobbedire a qualsiasi legge o atto normativo che determini la lesione di questi diritti inviolabili.
V. E se il diritto di libertà di coscienza, espressamente riconosciuto dall’art. 9 della Convenzione, compete a chi non intende ledere i diritti inviolabili altrui, a maggior ragione deve essere riconosciuto ai titolari dei diritti inviolabili, ai quali, dunque, giammai potrà essere negato il diritto di “disobbedire, lecitamente, a qualsiasi legge o atto normativo od ordine che determini la lesione dei diritti inviolabili propri”!
VI. Il contenuto del “diritto inviolabile di libertà di coscienza”, dunque, consiste nella “facoltà di rifiutarsi di compiere atti doverosi, motivata dalla necessità di evitare la lesione di diritti inviolabili, propri o altrui, che inevitabilmente conseguirebbe dall'adempimento dell'attività doverosa”.
Quindi, chi rifiuta l'atto doveroso pone necessariamente in essere una forma di “autotutela” di questa portata: “io mi rifiuto deliberatamente di adempiere l'atto doveroso perché, se lo facessi, subirei la lesione di diritti inviolabili miei, oppure lederei i diritti inviolabili di altri soggetti”.
Il diritto di libertà di coscienza assume un valore fondamentale per l’efficacia della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, perché rappresenta lo strumento giuridico indispensabile per evitare che si ripetano gli orrori dell'ultimo conflitto mondiale, quando molti funzionari e molti militari degli Stati belligeranti furono costretti ad “obbedire, tacendo, ad atti normativi e/o d'imperio lesivi di diritti fondamentali degli esseri umani” (si pensi, in particolare, alle torture ed allo sterminio degli ebrei e dei rom).
VII. Dalle considerazioni sopra esposte emerge che il “diritto di libertà di coscienza” ricalca, in sostanza, il paradigma della legittima difesa prevista dall'art. 52 C.P., con l'unica peculiarità che si tratta di una forma di autotutela contro atti normativi primari (leggi) o secondari (regolamenti, circolari etc.), di cui si deduce e si denuncia l'illegittimità costituzionale, cioè la lesività di DIRITTI PRIMARI.
Ogni qualvolta ricorra un'ipotesi di “libertà di coscienza” -ovverosia sussista il diritto di disubbidire per preservare diritti inviolabili propri o altrui- non vi può essere mai la necessità di procedere ad alcun cervellotico giudizio di “bilanciamento di interessi costituzionali contrapposti”, perché non vi può mai essere un “contestuale” interesse di rango costituzionale che possa rischiare di essere pregiudicato dall'esercizio del diritto di libertà di coscienza e che, dunque, possa “giustificare” il sacrifico del diritto inviolabile. Chi si rifiuta per libertà di coscienza, infatti, non entra in conflitto con altri valori costituzionali, ma denuncia, al contrario, che l’attività che gli viene imposta contrasta con canoni costituzionali (o convenzionali) che la rendono illecita e, dunque, lesiva di diritti inviolabili, cioè denuncia che il Legislatore ordinario o la Pubblica Amministrazione hanno travalicato i limiti imposti loro dalla Costituzione e/o dalla Convenzione e, pertanto, pretende il ripristino della LEGALITA’.
Dalla particolare natura del diritto di libertà di coscienza -che implica il “diritto alla non costrizione”- scaturisce il corollario che esso inerisca a tutti i diritti inviolabili o, come affermano la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale, “ne sia una particolare declinazione”.
Ad esempio, il diritto di libertà religione non implica soltanto il diritto di credere o non credere, di manifestare la propria religione o credo e di farne propaganda, ma anche quello di non essere costretti a compiere atti di culto o a partecipare ad atti con significato religioso: prova ne è che è stata ritenuta lecita la violazione dell’art. 366 del codice penale, cioè la “disobbedienza” del teste all’obbligo di giurare impostogli dalla norma penale, perché necessitata dall’esigenza di tutelare la propria “libertà di coscienza in relazione all’esperienza religiosa” (C. Cost., sentenze n. 117/1979 e n. 334/1996).
Alla stessa stregua, nessuno potrebbe essere costretto ad iscriversi a sindacati (libertà di coscienza legata al diritto di libertà di associazione) o a partiti politici (libertà di coscienza legata al diritto di libertà di associazione politica) o a sposarsi (libertà di coscienza legata al diritto di libertà di matrimonio) o a suicidarsi (libertà di coscienza legata al diritto alla vita) o a torturare (libertà di coscienza legata al divieto di infliggere torture) e via dicendo.
B) L' OBIEZIONE DI COSCIENZA
L’obiettore di coscienza è invece una sorta di “kamikaze fuori-legge”, che pretende di sottrarsi agli obblighi e ai precetti normativi perché li ritiene “contrari” ai SUOI personali convincimenti morali, religiosi o filosofici, senza però prospettarne o denunciarne alcun vizio di incostituzionalità.
Ad esempio, un medico si rifiuta di praticare le trasfusioni di sangue o l'aborto terapeutico, perché li ritiene contrari ai precetti della sua religione; un testimone di Geova e un protestante evangelico si rifiutano di “giurare”, perché le loro religioni glielo vietano; un soldato si rifiuta di partecipare alla guerra, perché aborre uccidere altri uomini; un veterinario si rifiuta di abbattere mucche infettate da un malattia contagiosa, perché le considera animali sacri; un giudice si rifiuta di autorizzare una minorenne ad abortire, perché la sua religione glielo vieta.
In tutti questi casi appare evidente che l’obiettore, pretendendo di sottrarsi all’osservanza di norme di legge, senza però addurre la violazione di alcun precetto primario delle norme, finisce per “contestare” le scelte discrezionali operate dal Legislatore, al quale imputa di aver legiferato in modo contrastante con le SUE opinioni e coi SUOI convincimenti personali. E’ come se dicesse: “tu, Legislatore, non potevi legiferare nel modo in cui hai legiferato, perché la scelta che hai operato contrasta con i MIEI personali convincimenti, di cui dovevi tenere conto. Pertanto, dal momento che gli artt. 19 e 21 della Costituzione tutelano la mia libertà di religione e di opinione, io mi rifiuto di obbedire ad un comando che viola questi miei diritti”.
Questa pretesa è però viziata da un palese e macroscopico errore giuridico, che la rende assolutamente infondata.
Per un elementare e basilare principio Costituzionale, infatti, la potestà di legiferare non compete ai “cittadini”, ma al Legislatore, il quale la esercita con assoluta discrezionalità e col solo limite dell’osservanza dei precetti costituzionali e delle Convenzioni internazionali.
Nessun cittadino, dunque, può pretendere che il Legislatore emani norme che siano rispettose delle SUE peculiari credenze religiose, filosofiche, morali ed ideologiche: non solo perché sarebbe impossibile salvaguardarle tutte, ma anche perché le leggi sono il frutto della “mediazione” delle ideologie che si confrontano in sede parlamentare e, quindi, essendo approvate dalla maggioranza, sono obbligatorie per tutti.
D’altro canto, se neppure alla Corte Costituzionale è consentito interferire nelle scelte discrezionali del legislatore, è assurdo ipotizzare che una simile facoltà possa competere ai singoli cittadini!!!!
E' per questi motivi, pertanto, che la Corte Costituzionale ha costantemente escluso che l’ “obiezione di coscienza” possa avere una qualche rilevanza giuridica, cioè possa rendere “legittimo” il rifiuto di adempiere un obbligo giuridico: salvo che, ovviamente, una specifica legge non autorizzi in modo espresso l'obiezione di coscienza.
Ma questa è tutta un’altra storia che presuppone, peraltro, che il legislatore, nella sua assoluta discrezionalità, operi un “bilanciamento della libertà di coscienza degli obiettori con i contrapposti doveri o beni di rilievo costituzionale”: in caso contrario, infatti, si correrebbe il rischio che nessuno adempia le attività doverose o che, comunque, si creino disservizi ai danni delle strutture pubbliche o degli utenti (cfr. C.Cost. 467/91, 422/93, 149/95).
Questo è quanto accaduto, ad esempio, per effetto della legge n. 772 del 1972, con la quale il Legislatore ha consentito una deroga al dovere di prestare il servizio militare, sancito dall'art. 52 della Costituzione a carico di tutti i cittadini, esonerando coloro che sono contrari all'uso delle armi per motivi ideologici ma accettano, tuttavia, di espletare servizi civili o militari alternativi.
E' quanto accaduto, altresì, per l'interruzione volontaria della gravidanza, laddove si è accordato ai sanitari il diritto di rifiutare quella prestazione medica per obiezione di coscienza.
Tutte le considerazioni sin qui esposte trovano puntuale conferma nell'art. 10 della Carta di Nizza che, dopo aver ribadito al primo comma il riconoscimento del “diritto fondamentale alla libertà di coscienza, di pensiero e di religione” -peraltro nella stessa identica accezione prevista dall'art. 9 della Convenzione sui diritti dell'uomo- ha aggiunto al secondo comma la nuova figura del “diritto all'obiezione di coscienza”, al quale ha però accordato tutela solo se e in quanto “riconosciuto secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio”.
Per rendere ancor più evidenti le differenze tra i due istituti, si propone questa casistica comparata.
PRIMO CASO - Se un medico si rifiuta di fare una trasfusione di sangue, perché la sua religione glielo vieta, ricorre un’ipotesi di obiezione di coscienza, dal momento che non deduce alcun vizio di incostituzionalità della normativa che gli impone di dispensare quel rimedio terapeutico ai cittadini. Tuttavia, se lo stesso medico si rifiuta di effettuare le trasfusioni di sangue perché lo Stato, magari dietro comminatoria di sanzioni penali o di altro genere, gli impone di trasfondere sangue infettato dal virus dell’ AIDS, ricorre un’ipotesi di legittimo esercizio del diritto di libertà di coscienza, dal momento che il suo rifiuto è motivato dalla necessità di preservare il diritto inviolabile alla salute dei pazienti.
SECONDO CASO - Se un soldato si rifiuta di partecipare ad operazioni belliche, perché la sua “coscienza” gli impone di non uccidere altri esseri umani, ricorre un’ipotesi di obiezione di coscienza, che non lo scrimina dalle sanzioni collegate alla sua disobbedienza. Però, se lo stesso soldato, sempre in tempo di guerra, si rifiuta di obbedire a leggi o regolamenti che gli impongono, sotto comminatoria di sanzioni, di rinchiudere nei lager gli ebrei e i rom, di torturarli e/o di sterminarli, il suo rifiuto è legittimo, perché motivato dalla libertà di coscienza legata al rispetto dei diritti inviolabili alla libertà, alla non tortura ed alla vita altrui.
TERZO CASO - Se un giudice tutelare si rifiuta di autorizzare una minorenne ad abortire, perché la religione cattolica ripudia l’aborto, ricorre un caso di obiezione di coscienza, che non lo scrimina da responsabilità. Se lo stesso giudice, però, si rifiuta di autorizzare la minorenne ad abortire, perché la normativa impone che l’aborto debba essere eseguito con la sterilizzazione e l’infibulazione mutilante, ricorre un’ipotesi di libertà di coscienza legata al ripudio della violazione dei diritti inviolabili all’integrità fisica e sessuale della minorenne.
QUARTO CASO - Se uno scrutatore si rifiuta di accettare l’incarico perché l’Amministrazione autorizza gli elettori ad esibire sulla propria persona simboli religiosi, ricorre un’ipotesi di obiezione di coscienza. Tuttavia, se lo stesso scrutatore si rifiuta perché l’Amministrazione gli impone di fare lo scrutatore sotto l’incombenza di crocifissi o con crocifissi appesi al collo -magari radioattivi- o tatuati sulla fronte, ricorre un’ipotesi di libertà di coscienza.
QUINTO CASO - Se un seguace di Geova si rifiuta di pronunciare la formula di giuramento perché la sua religione gli vieta di “giurare”, ricorre un caso di obiezione di coscienza. Se lo stesso testimone si rifiuta di pronunciare la formula di giuramento, perché essa contiene riferimenti a Dio, ricorre un’ipotesi di libertà di coscienza legata al rispetto della sua libertà religiosa.
Chiusa la disamina delle differenze che intercorrono tra il diritto di libertà di coscienza e l’ obiezione di coscienza, è possibile evidenziare, con agevolezza, la lunga sequela di errori di diritto che sono stati commessi dalla Corte d’Appello.
1° ERRORE: Erronea applicazione alla fattispecie del dr. Tosti, che è un caso di “diritto inviolabile di libertà di coscienza”, dei principi di diritto che sono stati enucleati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 196/1987 per un caso di “obiezione di coscienza” e, dunque, erronea affermazione del principio secondo cui il rifiuto di un atto di ufficio, attuato da un magistrato per salvaguardare il diritto inviolabile di libertà di coscienza o altri diritti primari di rango costituzionale, è da ritenere sempre indebito, dal momento che l’art. 54, 2° comma, della Costituzione dispone che i cittadini cui sono affidate pubbliche funzioni hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore.
Il caso del giudice tutelare che pretese di sottrarsi all’obbligo di legge di autorizzare una minorenne ad abortire, perché lo riteneva contrario ai SUOI convincimenti religiosi, integra una chiara fattispecie di “obiezione di coscienza”: e tale è stata peraltro qualificata in modo espresso dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 196/1987. E, in effetti, quel giudice tutelare non dedusse che gli artt. 9 e 12 della L. 194/1978 contrastavano con diritti inviolabili o con principi costituzionali, ma si limitò a dedurre che gli obblighi impostigli dalle due norme “contrastavano” col “SUO modo di pensare”, pretendendo dunque di ottenere dalla Corte Costituzionale il “privilegio personale” di essere “esonerato” dal loro adempimento.
I principi affermati dalla Corte Costituzionale per “quel” caso sono dunque esattissimi, ma la Corte d’Appello ha errato ad applicarli al caso del dr. Tosti: il suo rifiuto non scaturisce infatti da un’obiezione di coscienza. Il dr. Tosti non si è rifiutato di tenere le udienze perché questa incombenza contrastava con suoi contrapposti convincimenti ideologici ma, al contrario, si è astenuto per la necessità di preservare obblighi e diritti di rango primario, denunciando, con puntuali riferimenti normativi, i vizi di illegittimità costituzionale che inficiavano le “modalità” con le quali gli veniva imposto di tenere le udienze.
Pertanto, il principio enucleato dalla sentenza n. 196/87, secondo cui “il conflitto tra l'adempimento dei propri doveri e l'imperativo contrario della propria coscienza poteva essere superato solo dando la prevalenza all'indeclinabile e primaria realizzazione della esigenza di giustizia, che discende dall'art. 54 e dall’art. 107 della Costituzione”, non poteva essere applicato al caso del dr. Tosti, che integra una chiara fattispecie di diritto di libertà di coscienza.
E la riprova inconfutabile dell’esattezza di queste conclusioni la si ricava dalle sentenze n. 85/1963 e n. 117/1979 della Corte Costituzionale, che hanno per oggetto “due” differenti casi di “rifiuto” di prestare il giuramento: il primo, motivato da una semplice “obiezione di coscienza”; il secondo, motivato dall’esercizio del “diritto di libertà di coscienza”.
La prima sentenza (la n. 85/1963) riguarda il caso di due testimoni che si rifiutarono di prestare il giuramento in quanto la “religione pentecostale”, da essi professata, vietava di prestare il giuramento sotto qualsiasi forma, conformemente all’insegnamento di San Matteo, capitolo V, 34-37, e che furono pertanto processati per il reato di cui all’art. 366 C.P.
Ebbene, la Corte Costituzionale, trattandosi di un evidentissimo caso di “obiezione di coscienza”, ritenne ingiustificato il loro rifiuto e, dunque, respinse l’eccezione di incostituzionalità con una motivazione che ricalca quella formulata per il giudice tutelare nella sentenza n. 196/1987: affermò cioè che “la libertà religiosa...non può essere intesa in guisa da contrastare e soverchiare l'ordinamento giuridico dello Stato, tutte le volte in cui questo imponga ai cittadini obblighi che, senza violare la libertà religiosa, si assumano vietati dalla fede dei destinatari della norma: tanto più, poi, quando, come nel caso in esame, l'obbligo ha la sua fonte in un precetto costituzionale, quale quello contenuto nel secondo comma dell'art. 54 della Costituzione, il quale stabilisce che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi previsti dalla legge”.
Con la seconda sentenza, la n. 117/1979, la Corte Costituzionale affrontò il caso del teste che si rifiutò anch’egli di giurare, questa volta però a causa dei riferimenti alla “divinità” contenuti nella formula di rito, subendo anch’egli un processo per il delitto previsto dall’art. 366 del C.P.
La Consulta, trattandosi in questo caso di un’evidente ipotesi di “rifiuto per libertà di coscienza”, cioè necessitato dall’esigenza di non subire la lesione del diritto di libertà religiosa, pervenne ad una pronuncia diametralmente opposta, e cioè dichiarò l’incostituzionalità dell’art. 251 del doc. di proc. civile, senza dunque attribuire, in questo caso, la benché minima rilevanza giuridica alla circostanza che i testimoni sono cittadini che esercitano “funzioni pubbliche” e che, inoltre, debbono “prestare giuramento per obbligo di legge”, ex art. 54 Costituzione.
Pertanto, il principio di diritto che è stato applicato al dr. Tosti risulta smentito e annichilito da queste due pronunce della Corte Costituzionale: da esse si evince infatti un principio diametralmente opposto, e cioè che l' “obbligo di adempiere le funzioni pubbliche con disciplina ed onore”, sancito dall’art. 54, comma 2°, a carico dei “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche”, non impedisce il legittimo esercizio del “diritto di libertà di coscienza” -cioè la facoltà di rifiutarsi di adempierle- ogniqualvolta ne derivi la lesione di diritti primari propri o altrui”.
Dunque, è palesemente erronea la petizione di principio secondo cui i giudici (anzi: tutti i funzionari, visto che l’art. 54 si riferisce a tutti “i cittadini cui sono affidate pubbliche funzioni”) hanno l’obbligo incondizionato di “obbedir tacendo”, anche quando ciò determina la lesione di diritti inviolabili.
Questo principio risulta smentito anche:
a) dalla citata sentenza della Corte di Cass. penale n. 7281/2000, che ha ritenuto giustificato il rifiuto di compiere un atto di ufficio, se ciò determina il “sacrificio” di un diritto primario del funzionario;
b) dalla citata sent. 11432/1997 delle SS.UU. civili, che hanno sancito che nessun organo dello Stato -e neppure il Legislatore- può derogare ai principi costituzionali o incidere in maniera pregiudizievole sui diritti e sulle libertà fondamentali dell’individuo;
c) dalla citata sentenza n. 4273/2000 (Montagnana) che, stante la sostanziale identità della fattispecie, doveva essere applicata al caso del dr. Luigi Tosti.
Il principio di diritto affermato dalla Corte di Appello, secondo cui ai magistrati compete sì il diritto di libertà di coscienza, ma esso diviene recessivo -cioè si annichilisce- di fronte all’obbligo dell’art. 54 della Costituzione di “adempiere le funzioni pubbliche con disciplina ed onore”, non può essere condiviso per altri due motivi.
1) Il primo è di ordine logico-giuridico: affermare infatti che ai magistrati compete il diritto di rifiutarsi di compiere attività doverose per libertà di coscienza, ma che questo diritto non può essere esercitato perché l’art. 54, comma 2° della Costituzione, lo vieta, è un vero e proprio ossimoro, dal momento che la conclusione nega la premessa da cui si è partiti.
2) Il secondo motivo è rappresentato dalla circostanza che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo stabilisce, agli articoli 15, 17 e 18, che non possono essere imposte ai diritti fondamentali dell’uomo deroghe o restrizioni maggiori di quelle previste dalla Convenzione: nel caso di specie dal tenore degli artt. 9, 13, 15 e 17 della Convenzione si ricava che non può essere imposto alcun limite o restrizione al “diritto di libertà di coscienza” di chicchessia. Dunque è contra ius ipotizzare che l’art. 54 della Costituzione -che si riferisce indistintamente a tutti i funzionari pubblici- imponga alla categoria dei magistrati una restrizione del diritto di libertà di coscienza che, peraltro, si risolverebbe addirittura in una vera e propria deroga ablativa.
La condivisione del principio affermato dalla Corte d’Appello conduce infine a conseguenze grottesche: ad esempio, i magistrati che fossero costretti da una circolare ministeriale a torturare gli imputati, non avrebbero alcuna possibilità di rifiutarsi, adducendo la libertà di coscienza legata al ripudio della tortura.
2° ERRORE: Erronea applicazione dei principi di diritto affermati dalla sentenza n. 149/1995 della Corte Costituzionale che, in realtà, si riferisce ai casi di “obiezione di coscienza”.
La Corte di Appello ha commesso lo stesso identico errore interpretativo, allorché ha affermato che è applicabile alla fattispecie del dr. Luigi Tosti il principio, estrapolato dalla sentenza della C. Cost. n. 149/1995, secondo cui “in tema di libertà di coscienza il legislatore può intervenire per “bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne la possibilità di realizzazione in modo da non arrecare pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi di interesse generale”.
In realtà, questo principio si riferisce all’ “obiezione di coscienza”, e non al diritto di libertà di coscienza.
Per la precisione, con la sent. 149/1995 la Corte Costituzionale ha affermato che non è costituzionalmente censurabile la scelta del Legislatore di accordare a determinati soggetti il “privilegio” di sottrarsi, per “obiezione di coscienza”, all’obbligo di adempiere attività doverose: e questo perché il Legislatore può operare un bilanciamento della “libertà di coscienza” degli obiettori -cioè delle motivazioni ideologiche che li inducono a rifiutarsi- con i contrapposti doveri o beni di rango costituzionale, in modo da far prevalere la prima senza arrecare pregiudizio al buon funzionamento dell’amministrazione.
Dunque, la “necessità di bilanciare la libertà di coscienza con contrastanti doveri o beni costituzionali” -cui allude la Corte Costituzionale- si riferisce esclusivamente al Legislatore e riguarda esclusivamente l’ipotesi in cui esso intenda accordare esenzioni privilegiate a determinate categorie di cittadini, cioè all’ipotesi dell’ “obiezione di coscienza”.
Giammai tale “necessità di bilanciamento” può ipotizzarsi per la diversa fattispecie del “diritto di libertà di coscienza”, perché chi si rifiuta per libertà di coscienza non entra mai in conflitto con altri valori costituzionali e non intende sottrarsi all’osservanza di precetti costituzionali ma, al contrario, denuncia che l’attività che gli viene imposta è contraria a canoni costituzionali (o convenzionali) che la rendono illecita e lesiva di diritti inviolabili, cioè denuncia che il Legislatore ordinario o la Pubblica Amministrazione hanno travalicato i limiti imposti loro dalla Costituzione e/o dalla Convenzione e reclama il ripristino della LEGALITA’.
3° ERRORE: Erronea affermazione del principio secondo cui le uniche ipotesi di “legittima astensione dall’attività giurisdizionale sono quelle disciplinate dai codici di rito agli artt. 51 e 52 c.p.c. e 36 e 37 c.p.p.”, sicché qualsiasi “rifiuto di atto di ufficio” da parte di un magistrato, che non rientri nella previsione di queste norme processuali, è da ritenere “indebito” ex art. 328 C.P.
Questa interpretazione restrittiva dell’art. 328 del codice penale è stata formulata dalla Corte di Appello per giustificare la supposta differenza del “caso” Tosti dal “caso” Montagnana.
L’erroneità della petizione di principio risulta dalle seguenti considerazioni giuridiche.
A) Le “ipotesi disciplinate nei codici di rito dagli artt. 51 e 52 c.p.c. e 36 e 37 c.p.p.” non integrano casi di “esercizio del diritto di legittima astensione dall’attività giurisdizionale” -come erroneamente affermato dalla Corte di Appello- bensì dei casi in cui i magistrati hanno l’OBBLIGO di astenersi dalla trattazione degli affari per osservare il loro dovere costituzionale di imparzialità (art. 111): dunque non esiste alcun collegamento o pertinenza tra l’OBBLIGO di astensione e il DIRITTO di “libertà di coscienza”.
B) Asserire poi che un magistrato, che si trovi nelle necessità di rifiutarsi di compiere un atto d’ufficio per salvaguardare diritti inviolabili propri o altrui, possa rifiutarsi “soltanto” nelle ipotesi contemplate dai codici di rito per i casi di obbligo di “astensione”, significa assoggettare il “diritto di libertà di coscienza” dei magistrati ad una deroga e ad una restrizione che non è prevista dall’art. 328 del C.P. e che, comunque, viola la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo di cui alla legge 848/1955, dal momento che l’art. 9 della Convenzione non autorizza alcuna deroga o restrizione del diritto di libertà di coscienza. E dal momento che l’art. 117 della Costituzione richiama la Convenzione in oggetto, la Cassazione avrebbe l’onere di sollevare eccezione di incostituzionalità dell’art. 328 del C.P., nell’ipotesi in cui dovesse aderire all’interpretazione restrittiva della Corte di Appello.
C) Infine, E’ FALSO che gli articoli 51 e 52 c.p.c. e 36 e 37 c.p.p. esauriscano il ventaglio delle ipotesi nelle quali i magistrati possono legittimamente astenersi dal tenere le udienze, dal momento che:
1°) i magistrati si rifiutano di tenere le udienze in occasione degli scioperi;
2°) i magistrati si astengono dal tenere le udienze quando sono malati: e nessuno li processa, nonostante i codici di rito non prevedano tale ipotesi di astensione;
3°) i magistrati non tengono le udienze quando sono in congedo: anche qui nessuno li incrimina;
4°) i magistrati si astengono dal tenere le udienze quando sono in maternità: e nessuno li processa e li condanna;
5°) i magistrati possono rifiutarsi di tenere le udienze se il palazzo di giustizia è pericolante: anche qui l’ipotesi di un processo è grottesca, perché il rifiuto, pur non essendo contemplato dal codice di rito, è giustificato dalla necessità di tutelare il proprio diritto inviolabile alla salute e alla vita.
A chi voglia obiettare che in questi casi il rifiuto di tenere le udienze non è “indebito”, perché attuato nell’esercizio di diritti o per cause giustificatrici, contemplate IN VIA GENERALE dalla legge, è facile obiettare che anche per il rifiuto del dr. Tosti va applicata l’esimente dell'esercizio del diritto di libertà di coscienza, prevista IN VIA GENERALE dalla legge.
Ma c’è molto di più.
Come documentalmente provato, infatti, il Consiglio Superiore della Magistratura, con delibera 14.2.2007 ha ritenuto che sia del tutto legittimo il rifiuto di un magistrato di tenere le udienze a causa della mancata assistenza del Cancelliere.
Il caso trattato dal CSM si riferisce ad un magistrato che, pur avendo tenuto da sempre le udienze senza Cancelliere (come avviene per la pressoché totale generalità dei magistrati italiani), ha iniziato ex abrupto ad astenersi dalle udienze per protestare contro un provvedimento del Presidente del Tribunale che accordava l’assistenza solo ad alcuni magistrati.
Ebbene, non solo nessuno ha processato il magistrato in questione per rifiuto di atti d’ufficio, ma risulta anche che il CSM, dopo aver giustificato il suo “rifiuto”, ha addirittura redarguito il Ministro di Giustizia, invitandolo a colmare le carenze di personale. Questo caso “concreto” dimostra che il principio affermato dalla Corte d’Appello, secondo cui le uniche ipotesi di legittima astensione dalle udienze sono quelle conseguenti all’obbligo di astensione, è assolutamente infondato.
4° ERRORE: Erronea affermazione del principio secondo cui il diritto di libertà di coscienza, previsto dall’art. 9 della Convenzione e dall’art. 2 della Costituzione, può essere esercitato solo se una norma di legge lo contempla attraverso la clausola del “giustificato motivo”.
Per giustificare la mancata applicazione dei principi affermati dalla Corte di Cassazione nella sent. n. 439 del 1.3.2000, la Corte di Appello ha affermato che l’art. 328 del C.P. non contempla, expressis verbis, la clausola del “giustificato motivo” contemplata dall’art. 108 del D.P.R. 30.3.1957 n. 361: da questa supposta differenza ne ha tratto poi la conseguenza che qualsiasi rifiuto di atto di ufficio, motivato dall’esercizio del diritto di libertà di coscienza, deve ritenersi “indebito” ex art. 328 C.P.
Questa petizione di principio è assolutamente erronea.
Questi i motivi.
1° MOTIVO - Come sopra evidenziato, non esiste in realtà alcuna differenza tra le due fattispecie penali, dal momento che anche l'art. 328 del codice penale sancisce che la punibilità del reato di rifiuto di atti di ufficio sia subordinata alla circostanza che il rifiuto non sia “indebito”, cioè non sussista un giustificato motivo di rifiuto.
2° MOTIVO - L’esercizio del diritto inviolabile di libertà di coscienza non può dipendere dalla previsione, expressis verbis, della clausola del “giustificato motivo”: trattandosi di un diritto inviolabile, riconosciuto e garantito sia dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo che dalla Costituzione italiana, esso può essere esercitato “ANCHE” se la norma penale incriminatrice non contempla tale clausola, o clausole analoghe. E la prova inconfutabile è fornita dal caso del teste che si rifiutò di giurare a causa dei riferimenti alla divinità contenuti nella formula del giuramento: ebbene, nonostante l’art. 366 del codice penale non prevedesse (e non preveda) alcuna clausola di rifiuto di giurare per “giustificato motivo”, questo teste venne assolto dall’incriminazione perché la Corte Costituzionale dichiarò l’incostituzionalità dell’obbligo di giurare con quella formula.
L’interpretazione della Corte d’Appello è dunque da ripudiare, anche perché essa risulterebbe affetta da palese incostituzionalità per violazione dell’art. 117: il diritto di libertà di coscienza, infatti, è un diritto inviolabile, riconosciuto dalla Convenzione internazionale per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo, sicché non può esserne inibito il legittimo esercizio, addirittura dietro comminatoria di sanzioni penali o di altra natura. Sul punto si richiama la sentenza CEDU, 25.5.1993, Kokkinakis, che ha condannato la Grecia perché, ricorrendo addirittura alla comminazione di sanzioni penali, civili e amministrative, ha limitato il diritto di libertà religiosa dei cittadini, nonché altra sentenza della CEDU che ha escluso che il diritto di libertà di coscienza, legato alla libertà di associazione, possa essere violato o limitato attraverso la comminatoria di sanzioni civili (nella specie: licenziamento).
3° MOTIVO - Non è affatto vero che la Cassazione penale ha attribuito un rilievo scriminante alla “libertà di coscienza” dello scrutatore Montagnana soltanto perché l’art. 108 contemplava la clausola del “giustificato motivo”. In realtà, la Corte di Cassazione ha affermato l’esatto contrario (punto 9 della motivazione), e cioè: “la libertà di coscienza.... va tutelata nella massima estensione compatibile con altri beni costituzionalmente rilevanti e di analogo carattere fondante, come si ricava dalle declaratorie di illegittimità costituzionale delle formule del giuramento...: ma, nel caso, non si pongono problemi a livello costituzionale, giacché il bilanciamento degli interessi è già assicurato nella previsione della clausola penale del giustificato motivo”.
Dal che, argomentando a contrario, si traggono queste due conseguenze:
A) la prima è che la Cassazione ha ritenuto che l'esposizione del solo crocifisso lede i diritti inviolabili di libertà di coscienza dello scrutatore (e, quindi, necessariamente di qualsiasi altro funzionario e dipendente pubblico, ivi incluso il “magistrato” Tosti Luigi);
B) la seconda è che, se l'art. 108 del DPR n. 361/1957 non avesse contemplato la clausola del “giustificato motivo”, la Corte sarebbe stata costretta a valutare la necessità di sollevare un eccezione di incostituzionalità della norma (o di disapplicarla), in quanto lesiva dei diritti inviolabili dello scrutatore.
5° ERRORE: Erronea affermazione del principio, desunto dalla sentenza Montagnana (n. 4273/200), secondo cui l’esimente dell’esercizio del diritto di libertà di coscienza si applica soltanto ai pubblici ufficiali assunti con rapporto di impiego “OBBLIGATORIO”, sicché è “indebito” il rifiuto di un atto ufficio da parte di un funzionario assunto con rapporto “volontario”.
Per giustificare la mancata applicazione della sentenza Montagnana al caso del dr. Tosti, la Corte di Appello ha affermato che, mentre “il Montagnana era stato chiamato a svolgere le funzioni di scrutatore..... senza che egli avesse inteso volontariamente e per sua scelta svolgere quel pubblico ufficio....il Tosti si trovava sottoposto all’adempimento delle sue doverose funzioni istituzionali in forza di un rapporto di pubblico impiego VOLONTARIAMENTE accettato e altrettanto VOLONTARIAMENTE mantenuto per sua libera scelta”. Solo il Montagnana, dunque, si trovava nella “necessità” di rifiutarsi di adempiere l’incarico pubblico per libertà di coscienza: il dr. Tosti, viceversa, aveva la possibilità di “non accettare il posto di magistrato”, oppure quella di “dimettersi dalla magistratura”, se proprio non gradiva subire la lesione dei suoi diritti primari. In ogni caso, poi, poteva mettersi in aspettativa.
Questa “petizione di principio” non è soltanto infondata, ma è anche grottesca. Questi i motivi.
PRIMO MOTIVO - I diritti inviolabili dell’uomo sono IRRINUNCIABILI, INDISPONIBILI, IMPRESCRITTIBILI e NON ASSOGGETTABILI A DECADENZA, perché così dispongono gli articoli 1 della Convenzione, 2 della Costituzione, 2934 e 2968 del codice civile.
Dunque è grottesco sostenere -come ha sostenuto la Corte di Appello- che gli impiegati che accettano “volontariamente” di assumere un impiego pubblico “perdono”, AUTOMATICAMENTE, il diritto di far valere la libertà di coscienza legata alla lesione della libertà religiosa, alla lesione del diritto alla vita, alla lesione del diritto alla salute, alla lesione del diritto alla libertà di associazione, alla lesione del diritto alla non tortura, alla lesione del diritto all’eguaglianza e alla non discriminazione razziale e religiosa e via dicendo. Semmai si deve affermare il principio esattamente opposto: e cioè che, trattandosi di diritti “inviolabili, irrinunciabili e imprescrittibili”, a nessuno -tanto meno allo Stato- è concesso di recarvi attentato o di violarli.
Se si dovesse ritenere lecita un’interpretazione così restrittiva dell’art. 328 del codice penale, e cioè che il rifiuto di un atto d’ufficio per libertà di coscienza legata al rispetto di diritti inviolabili, propri o altrui, può ritenersi “giustificato” solo per i pubblici ufficiali che sono legati all’amministrazione da un rapporto di impiego “obbligatorio”, mentre deve ritenersi “indebito” per i pubblici ufficiali legati da un rapporto di pubblico impiego “volontario”, sarebbe palese l’illegittimità costituzionale dell’art. 328 del C.P., per violazione degli articoli 3, 18 e 117 della Costituzione, in relazione agli articoli 9 e 14 della Convenzione che tutelano il diritto di libertà di coscienza in modo pieno e incondizionato. Senza considerare, poi, che si creerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento nella fase di accesso agli impieghi pubblici, dal momento che coloro che subiscono la lesione di diritti inviolabili sarebbero costretti o a non partecipare ai concorsi o a rinunciare all’impiego, dopo aver vinto il concorso.
SECONDO MOTIVO - La IV Sezione penale della Cassazione non si è mai sognata, poi, di affermare questo singolarissimo principio, congetturato dalla Corte di Appello dell’Aquila.
Se si ha cura di leggere con attenzione la sentenza Montagnana, infatti, ci si accorgerà che la Corte di Cassazione ha affermato, al punto 3 della sentenza, che sussisteva un “rapporto di causalità immediata tra il contenuto dell’ufficio di scrutatore e il motivo del rifiuto”, in quanto il prof. Marcello Montagnana si era rifiutato di essere inserito come pubblico ufficiale in una amministrazione che, non provvedendo a rimuovere i simboli religiosi da tutti i seggi elettorali, non garantiva il rispetto della libertà di coscienza e il principio supremo della laicità dello Stato.
Al successivo punto 4, poi, la Cassazione si è limitata a “rafforzare” questa conclusione, affermando che “l'immediatezza......del rapporto tra il rifiuto motivato ed il contenuto dell'ufficio imposto emergeva da ALTRE due considerazioni”, la prima delle quali, per l’appunto, era quella che il Montagnana non aveva il potere di impedire previamente l'insorgenza del conflitto, dal momento che l’adempimento del munus pubblicum gli era stato imposto.
Alla stregua di questa corretta lettura della sentenza, dunque, è ben chiaro che l’ ulteriore “considerazione” che è stata esposta dalla Cassazione nessun altro scopo aveva, se non quello di rafforzare la prima considerazione, che era però di per sé già esaustiva.
Peraltro, non è necessario spendere ulteriori parole sul punto, dal momento che la tesi interpretativa della Corte di Appello è smentita apertamente dalla citata sentenza 7281/2000 della Cassazione penale, con la quale è stato ritenuto “debito” il rifiuto di atti di ufficio da parte di un ufficiale di polizia, cioè da parte di un soggetto che è legato alla P.A. da un rapporto di impiego “volontario”.
6° ERRORE: Erronea affermazione della “pretestuosità” del rifiuto di tenere le udienze, perché “analogo comportamento potrebbe essere tenuto da ciascuno dei novemila magistrati italiani, con conseguente paralisi della “giustizia”, non altrimenti eliminabile se non attraverso la generalizzata rimozione dei crocifissi dalle aule giudiziarie”.
Si ribadisce, innanzitutto, che “adducere inconvenientem, non est solvere argumentum”, ovverosia la circostanza che si realizzi l'inconveniente della paralisi della Giustizia, nell'ipotesi in cui tutti i magistrati seguano l’esempio del dr. Tosti, non dimostra l'illiceità delle motivazioni del rifiuto, e cioè che esso non sia stato dettato dalla necessità di preservare obblighi e diritti di rango costituzionale dell’agente.
D’altro canto, se tutti i componenti dei seggi elettorali si rifiutassero di adempiere il munus pubblicum per le stesse motivazioni addotte dal Montagnana, le operazioni elettorali si bloccherebbero, con pregiudizi ancor più gravi di quelli paventati per la Giustizia.
Alla Cassazione penale non è passato però per la mente di condannare il Montagnana con l'assurda motivazione che è stata adottata per il Tosti.
7° ERRORE: Erronea qualificazione del rifiuto come “indebito”, ex art. 328 C.P., perché attuato senza attendere l’esito delle azioni giudiziarie intraprese.
Il dr. Tosti non aveva l’onere di intraprendere azioni legali per chiedere la rimozione dei crocifissi né di attenderne l’esito: infatti, il diritto di obiezione di coscienza è una forma di autotutela e, dunque, esso prescinde necessariamente da una preventiva pronuncia favorevole del giudice perché, altrimenti, non sarebbe nemmeno una forma di autotutela, bensì un'ipotesi di ordinaria esecuzione di una pronuncia di un giudice.
Il riscontro inconfutabile della bontà di questa affermazione proviene dalla giurisprudenza menzionata e dallo stesso CSM.
Il Montagnana, infatti, non è stato condannato, nonostante egli avesse la possibilità di adire l’autorità giudiziaria ed attendere l’esito del ricorso, quale “valida alternativa” al rifiuto di adempiere il suo munus obbligatorio
La stessa identica considerazione vale per il teste che si rifiutò di testimoniare a causa dei riferimenti a Dio contenuti nella formula di giuramento: anche questo teste, infatti, poteva promuovere una causa contro l’Amministrazione, eccependo in via preliminare l’eccezione di incostituzionalità della norma e chiedendo, con ricorso d’urgenza, la sospensiva.
Ma c’è molto di più. Come sopra detto, infatti, il CSM ha addirittura ritenuto legittimo il rifiuto di un giudice di tenere le udienze a causa della mancata assistenza da parte del Cancelliere. Anche in questo caso il magistrato aveva la “valida alternativa” di ricorrere contro il Ministro di Giustizia per ottenere che gli venisse assegnata l’assistenza del Cancelliere e di attendere, poi, l’esito favorevole di questa sua azione giudiziaria. Nonostante ciò non sia mai avvenuto, però, nessuno lo ha mai incriminato per il reato di cui all’art. 328 del C.P.!!!!
Concludendo, da quanto sopra esposto emerge che al caso del dr. Luigi Tosti dovevano essere applicate le motivazioni della sentenza n. 4273/2000 della IV Sezione Penale, la cui pertinenza è eclatante. E per rendersene conto basta adattare la motivazione al “caso” del giudice Tosti nel modo che segue:
“Il contenuto dell'ufficio di giudice consiste solo indirettamente nei compiti o nelle prestazioni ad esso connessi, ma direttamente ed immediatamente nella funzione di pubblico ufficiale che con la nomina egli viene ad assumere. Una volta designato, infatti, il giudice svolge una pubblica funzione, un'attività, cioè, che è diretta manifestazione di pubbliche potestà o - in senso enfatico - dell'autorità dello Stato per la presenza dei poteri tipici della potestà giurisdizionale, come indicati dal secondo comma dell'art. 357 cod. proc. pen. novellato dalle leggi n. 86 del 1990 e n. 181 del 1992 (cfr. Cass. sez. un. 24-09-1998, n. 10086, ced 211190). Il contenuto dell'ufficio di giudice è, quindi, quello di formare e manifestare la volontà dell’ amministrazione della Giustizia (Cass. sez. un. 27-03-1992, n. 7958, ced. 191173): e, quindi, innanzitutto la “inserzione nell'ufficio” (Cass. 5-5-1992, n. 5332, ced 189972).
È in relazione a questo immediato contenuto dell'ufficio di giudice che va quindi valutata l'esistenza del rapporto di causalità immediata con il motivo del rifiuto: ed essa, se pur dubbia o non appariscente in relazione ai singoli compiti assegnati al giudice, riemerge allora con immediatezza. Infatti, il dott. Tosti ha rifiutato di “svolgere la funzione di giudice”, piuttosto che i compiti ad essa connessi, e cioè l'inserzione come pubblico ufficiale in una amministrazione della Giustizia che, non provvedendo “affinché venga rimosso qualsiasi simbolo o immagine religiosa da tutte le aule di giustizia”, non garantisce, contro il suo convincimento, “il rispetto della irrinunciabile libertà di coscienza garantita dalla Costituzione a ciascun cittadino” e del “supremo principio costituzionale della laicità dello Stato”.
4. - L'immediatezza, e non la strumentalità, del rapporto tra il rifiuto motivato ed il contenuto dell'ufficio di giudice scaturisce dalla portata dell'invocato principio di laicità dello Stato, che con quel contenuto ha in comune la nota dell'imparzialità del giudice (art. 111 Cost.), in funzione della quale vanno organizzate le aule di giustizia, in cui il giudice è inserito, in particolare per garantire sotto i molteplici aspetti formali previsti dalla legge la libera formulazione del giudizio.
Il principio indicato implica un “regime di pluralismo confessionale e culturale” (corte cost. 12.4.1989, n. 203) e presuppone, quindi, innanzitutto l'esistenza di una pluralità di sistemi di senso o di valore, di scelte personali riferibili allo spirito o al pensiero, che sono dotati di pari dignità e, si potrebbe dire, nobiltà. Ne consegue una pari tutela della libertà di religione e di quella di convinzione, comunque orientata: infatti, anche “la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici” è garantita in connessione con la tutela della “sfera intima della coscienza individuale” (corte cost. 19.12.1991, n. 467), conformemente all'interpretazione dell'art. 19 Cost (che tutela la libertà di religione, non solo positiva ma - come riconosciuto dalla corte fin dalla sentenza 10.10.1979, n. 117, e ribadito da quella 8.10.1996, n. 334 - anche negativa: vale a dire, anche la professione di ateismo o di agnosticismo) e all'art. 9 della convenzione europea dei diritti dell'uomo, resa esecutiva con l. 4.8.1955, n. 848 (che tutela la libertà di manifestare “la propria religione o il proprio credo”).
Il detto principio, inoltre, si pone come condizione e limite del pluralismo, nel senso di garantire che le aule di giustizia deputate al conflitto tra i sistemi indicati siano neutrali e tali permangano nel tempo: impedendo, cioè, che il sistema contingentemente affermatosi getti le basi per escludere definitivamente gli altri sistemi......
6. - La rimozione del simbolo religioso del crocifisso da ogni aula di giustizia, che è la condizione a cui il dott. Luigi Tosti aveva subordinato l'espletamento della funzione di giudice = pubblico ufficiale imparziale, si muove lungo questo solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale in termini di laicità e pluralismo, reciprocamente implicantisi........
In particolare, l'imparzialità della funzione del giudice-pubblico ufficiale è strettamente correlata alla neutralità (altro aspetto della laicità, evocato sempre in materia religiosa da corte cost. 15.7.1997, n. 235) delle aule di giustizia deputate alla formazione dei processi decisionali nelle cause civili e penali, che non sopporta esclusivismi e condizionamenti sia pure indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del contenuto di fede, che ogni immagine religiosa simboleggia..........
Anche per tal via, quindi, si conferma l'immediatezza del rapporto tra motivo del rifiuto e contenuto dell'ufficio imposto. Ma se ne ricava pure l'attuabilità della condizione posta dal dr. Tosti, non impossibile in quanto non estranea agli ordinari poteri del Ministro di Giustizia perché richiedente, per esempio, solo un intervento legislativo. Il crocifisso, infatti, è ricompreso tra gli arredi delle aule giudiziarie in virtù di una circolare ministeriale del 1926 che, peraltro, deve ritenersi caducata e, comunque, modificabile e revocabile dal Ministro.
Sta di fatto, tuttavia, che la condizione apposta dal dott. Tosti non si è verificata e che egli ne ha tratto motivo per non ritenere garantito il principio di laicità dello stato e quindi - con un rapporto tra causa ed effetto - di imparzialità della propria funzione di giudice, inducendolo ad un'azione di rifiuto adeguata a tali principi costituzionali.........
Ora la libertà di coscienza, prospettata per dir così a tutto tondo, non è divisibile in modo da ritenerla esercitabile solo se riguardi l’aula utilizzata dall'agente come giudice e non la totalità delle aule e cioè l'intera amministrazione della Giustizia........... Ogni violazione del principio di laicità nel modo indicato in qualsivoglia aula giudiziaria non può non essere avvertita da una coscienza informata a quel principio come violazione di quel bene nella sua interezza, indipendentemente dal luogo in cui si verifichi, cosicché non è possibile attribuire rilevanza al fatto che casualmente la violazione non si verifichi nell’aula di destinazione.
Costituisce, pertanto, giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di giudice la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo di laicità dello Stato e l'adempimento dell'incarico a causa dell'organizzazione della Giustizia in relazione alla presenza obbligatoria nelle aule giudiziarie, pur se casualmente non in quella di specifica destinazione, del crocifisso o di altre immagini religiose.”
QUINTO MOTIVO
Inosservanza e/o erronea applicazione degli art. 97 e 101 Cost., art. 3 L. 654/1975, art. 14 L. 654/1975, art. 328 C.P., per aver qualificato come “indebito” il rifiuto di tenere le udienze nell’ “aula-ghetto”, allestita senza crocifisso dal Presidente del Tribunale di Camerino, dietro sollecitazione del Presidente della Corte di Appello di Ancona, in attesa della definizione del ricorso amministrativo (606, lett. b, C.P.P.).
La Corte di Appello ha ritenuto che il rifiuto del dr. Tosti di tenere le udienze sia da ritenere “indebito” alla luce della circostanza che gli fu allestita un’aula-ghetto, senza crocifisso, dove “riprendere il suo lavoro”.
Questa motivazione non è soltanto erronea, ma è anche grottesca ed offensiva. Questi i motivi.
1°) L’allestimento dell’aula-ghetto integra gli estremi del delitto previsto e punito dall’art. 3 della legge n. 654/1975, oltre che costituire una violazione del diritto di rango primario del dr. Tosti all’eguaglianza e alla non discriminazione, garantitogli dall’art. 3 della Cost. e dall’art. 14 della Convenzione: il rifiuto di tale indecente proposta, dunque, è più che legittimo.
2°) La proposta dell’aula-ghetto non era accoglibile perché irrilevante: la IV Sez. Penale della Cassazione ha infatti statuito nella sentenza n. 4273/2000 che “la libertà di coscienza...non è divisibile a tutto tondo in modo da ritenerla esercitabile solo se riguardi il seggio di destinazione dell’agente come scrutatore e non la totalità dei seggi e cioè l’intera amministrazione....Ogni violazione del principio di laicità...non può non essere avvertita da una coscienza informata a quel principio come violazione di quel bene nella sua interezza, indipendentemente dal luogo in cui si verifichi, cosicché non è possibile attribuire rilevanza al fatto che casualmente la violazione non si verifichi nel seggio di destinazione”.
3°) La “proposta” che è stata fatta al dr. Tosti non poteva essere accolta perché viola il principio di legalità sancito dagli artt. 97 e 101 della Costituzione: se è infatti vero quanto sostenuto dalla P.A. -e cioè che la circolare fascista del ministro Rocco è ancora vigente- non si giustificavano e non si giustificano “deroghe” di favore per il dr. Luigi Tosti, dal momento che la legge è uguale per tutti.
Pertanto, delle due l'una: o il Crocifisso è legittimo, e quindi non è legittimo fare un'aula apposta per Tosti, oppure è illegittimo e dunque vanno rimossi tutti.
La Cassazione penale, Sez. III, ha peraltro affermato, con l'ordinanza n. 41.571, pubblicata il 18.11.2005, che “è da escludere che un giudice, di qualsivoglia ordine e grado, possa prendere una decisione in contrasto con la circolare ministeriale Rocco”: la regola, dunque, vale anche per i “Superiori” del dr. Tosti, che non avevano alcuna legittimazione a disporre la rimozione del Crocifisso dall’aula-ghetto.
4°) La proposta dell’aula-ghetto era inutile, sia perché le funzioni di GIP del dr. Tosti dovevano essere espletate in un’aula attrezzata per la registrazione, nella quale permaneva la presenza del crocifisso, sia perché il dr. Tosti espletava abitualmente anche funzioni collegiali.
Egli, inoltre, veniva applicato in altre sedi, in ipotesi anche al di fuori del distretto della Corte di Appello, sicché il regime di apartheid era ingiurioso e lesivo dei suoi diritti di eguaglianza e di libertà religiosa: in ogni nuova sede, infatti, sarebbe stato costretto ad esternare i propri convincimenti religiosi per l’allestimento di altre “aula-ghetto”.
OTTAVO MOTIVO
Contraddittorietà della motivazione nella parte in cui fa discendere la natura “indebita” del rifiuto dalla mancata adozione del rimedio dell’ “aspettativa facoltativa”.
Per supportare la natura “indebita” del rifiuto di tenere le udienze, la Corte di Appello (pag. 21-22) ha sostenuto che il dr. Tosti avrebbe potuto chiedere “la sospensione momentanea del rapporto (ad esempio un periodo di aspettativa facoltativa”, evitando così di “recare un radicale pregiudizio al doveroso imperativo di satisfacere officio”: il che avrebbe anche evitato il “grave danno per gli utenti” e lo “sbilanciamento del rapporto sinallagmatico in danno della Pubblica Amministrazione che....era comunque tenuta ad adempiere -e in concreto ha puntualmente adempiuto- l’obbligo di corrispondergli la retribuzione”.
Questa motivazione è censurabile in quanto:
A) Il “rimedio ordinamentale alternativo”, suggerito dalla Corte di Appello, era impraticabile, dal momento che un dipendente pubblico non può chiedere l’aspettativa di 20 anni, in attesa che la Giustizia-lumaca italiana definisca un ricorso giurisdizionale amministrativo.
B) Il “rimedio” poi, non poteva conseguire il risultato preconizzato dalla Corte, cioè quello di evitare la disertazione delle udienze, dal momento che l’assenza dal servizio del dr. Tosti, per aspettativa, avrebbe comunque cagionato la sua astensione dalle udienze.
DECIMO MOTIVO
Erronea applicazione art. 62 n. 1 C.P.
La Corte di Appello ha escluso l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 1 del C.P. (aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale) con questa motivazione: “il ricorso ad una forma estrema di asserita “autotutela” da parte di un rappresentante del potere giudiziario, ossia di chi istituzionalmente è chiamato a garantire il rispetto e l’applicazione delle leggi, secondo le forme ed i modi che l’ordinamento stesso appresta per la tutela dei diritti di ciascuno, sottrae al generale apprezzamento nel comune sentire il fatto contestato, tanto più che sussistevano percorsi alternativi, peraltro parzialmente sperimentati, utili per la salvaguardia della sua libertà di coscienza”.
Questa motivazione è erronea, perché la Corte di Appello ha attribuito valenze negative al rifiuto senza però decidere, in via preliminare ed incidentale, la questione relativa alla lesione del principio supremo di laicità e dei diritti inviolabili del magistrato. Dunque, il giudizio negativo circa la sussistenza dei “motivi di particolare valore morale” è viziato, oltre che essere contraddetto dalla sent. Montagnana, dove invece si è asserito che “non è dubitabile ...il particolare valore morale e sociale, riconosciuto con l’attenuante di cui all’art. 62 n. 1 c.p.- del motivo del rifiuto”.
Concludendo, l’iniqua condanna che è stata inflitta al dr. Luigi Tosti scaturisce dalla circostanza che i Giudici aquilani:
1°) hanno disapplicato la sentenza delle SS.UU. della Cassazione penale n. 6670/1985, che rende evidente l’insussistenza materiale del reato di rifiuto di atti di ufficio, dal momento che le udienze sono state tenute dai supplenti;
2°) hanno disapplicato la sentenza della Cassazione penale 20.6.2000 n. 7281, che sancisce che “il carattere indebito del rifiuto non è ravvisabile quando il compimento dell’atto determini la lesione di diritti costituzionalmente garantiti del soggetto agente”;
3°) hanno disapplicato la pertinentissima sentenza della Cassazione penale 1.3.2000 n. 4273, che ha sancito che “la presenza del crocifisso nel seggio elettorale costituisce giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di scrutatore, in quanto determina un conflitto interiore tra il dovere civile di svolgere un ufficio pubblico e il diritto a rivendicare il rispetto del principio di laicità dello Stato e di libertà di coscienza garantito dalla Costituzione a ciascun individuo”;
4°) hanno disapplicato la circolare del Consiglio Superiore della Magistratura del 14.2.2007, che autorizza il rifiuto di tenere le udienze financo nell’ipotesi di assenza del cancelliere;
5°) hanno erroneamente applicato la sentenza della Corte Costituzionale n. 196/1987, che è assolutamente impertinente perché si riferisce ad un caso di “obiezione di coscienza”;
6°) hanno infine disapplicato le sentenze n. 117 del 1979 e n. 85/1963 della Corte Costituzionali, dalle quali si evince che qualsiasi pubblico funzionario -giudice incluso- può sottrarsi per libertà di coscienza all’obbligo di compiere atti d’ufficio lesivi di diritti inviolabili altrui o propri.
Pertanto, quanto sopra premesso, si insiste per l’accoglimento delle seguenti
CONCLUSIONI
Piaccia all’Ecc.ma Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso, mandare assolto l’imputato perché il fatto non esiste o perché non costituisce reato. In subordine voglia annullare la sentenza con rinvio alla Corte di Appello per il nuovo giudizio.
Roma-Camerino, 21 ottobre 2008
Avv. Fabio Pierdominici
Udienza discussione del 18.11.2008
Memoria difensiva
per Luigi Tosti, imputato ricorrente
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Qui di seguito si riassume sinteticamente il ricorso.
F A T T O
Nell’ottobre del 2003, durante lo svolgimento di un’udienza civile, alcuni avvocati del foro di Camerino si lamentavano col magistrato Luigi Tosti per l’affissione di un vistoso crocifisso in una parete dell’aula, adombrando l’ipotesi che fosse stato collocato per polemica reazione contro il provvedimento col quale, alcuni giorni prima, il dott. Mario Montanaro del tribunale dell’Aquila aveva ordinato la rimozione dei crocifissi dalle scuole di Ofena.
Ritenendo fondata la lamentela, il dr. Luigi staccava il crocifisso dalla parete laterale dell’aula, adagiandolo sul carrello dei fascicoli.
Il Cancelliere che lo assisteva in udienza, di fede cattolica, lo riapponeva però sulla parete, giustificando il suo gesto col fatto che a suo dire “esisteva una legge che prevedeva la presenza obbligatoria dei crocifissi in aula”: a nulla valeva che il dr. Tosti obiettasse che non tutti erano cattolici e che tutti i cittadini erano eguali ed avevano pari dignità e diritti, senza distinzione di religione.
Il magistrato Luigi Tosti chiedeva l’intervento del Presidente del Tribunale ma questi, di fede cattolica, condivideva il gesto del Cancelliere.
Nei giorni successivi, dopo aver accertato che l’ostensione dei crocifissi nelle aule di giustizia era imposta soltanto da una circolare dell’Era fascista, che la IV Sezione della Cassazione penale aveva espressamente ritenuto abrogata, ex art. 15 disp. prel. cod. civ., perché incompatibile col principio supremo di laicità (sent. 1.3.2000 n. 4273, imp. Montagnana) e perché lesiva del diritto di libertà religiosa e di eguaglianza religiosa dei cittadini, il dr. Tosti inoltrava al Ministro di Giustizia ed al Presidente del Tribunale una motivata richiesta di rimozione dei crocifissi da tutte le aule di giustizia.
Nessuna risposta perveniva da parte del Ministro. Il Presidente del Tribunale, di fede cattolica, la respingeva asserendo, in spregio a quanto deciso dalla Cassazione penale nella sentenza 4273/2000, che “la circolare doveva ritenersi ancora in vigore in quanto non espressamente abrogata”.
Il Ministro di Giustizia Roberto Castelli, appresa la notizia del “distacco sacrilego” del crocifisso dalla parete, disponeva un’immediata ispezione ai danni del giudice Luigi Tosti, che era costretto a recarsi a Roma, presso l’Ispettorato del Ministero di Giustizia, per rispondere ad un serrato interrogatorio nel corso del quale veniva indagato anche sui suoi convincimenti religiosi.
Ritenendo di godere degli stessi diritti e della stessa dignità di cui godono, in Italia, i cattolici, il dr. Luigi Tosti esponeva nelle aule giudiziarie del Tribunale Camerte i propri simboli ideologici religiosi: questi, però, venivano immediatamente rimossi e “sequestrati” perché ritenuti indegni di stazionare a fianco del “crocifisso”.
Il dr. Tosti proponeva allora, nell’aprile 2004, un ricorso al TAR delle Marche chiedendo, anche in via di urgenza, la rimozione dei crocifissi o, in subordine, l’autorizzazione ad esporre la menorà ebraica a fianco del crocifisso, rivendicando in tale modo il diritto degli ebrei ad avere la stessa dignità e gli stessi diritti religiosi degli appartenenti alla “Razza cattolica”.
L’Avvocatura di Stato si opponeva alle istanze giudiziarie del giudice ebreo, affermando che “l’ostensione dei crocifissi nelle aule giudiziarie era legittima perché integrava (si badi bene: ndr) un atto di “professione di fede” da parte dello Stato (laico!) italiano che, come tale, era del tutto legittimo ai sensi dell’art. 19 della Costituzione.”
L’istanza cautelare del dr. Tosti, volta ad ottenere la cessazione immediasta degli atti di patente discriminazione religiosa ai suoi danni, e cioè a rimuovere i crocifissi o, in alternativa, ad autorizzarlo ad esporre la menorà ebraica al loro fianco, veniva respinta dal TAR delle Marche perché “non si ravvisava pericolo nel ritardo”.
A causa di queste iniziative giudiziarie il dr. Luigi Tosti cominciava ad essere bersagliato da lettere anonime contenenti minacce di morte e insulti di contenuto razzistico contro gli ebrei e la religione ebraica.
Essendo divenuti intollerabili gli atti di criminale discriminazione religiosa, perpetrati ai suoi danni dall’Amministrazione Giudiziaria italiana e condivisi da questi anonimi razzisti cattolici, il dr. Luigi Tosti inoltrava al Ministro di Giustizia una lettera “ultimatum” del 1°.5.05 con la quale ribadiva, in via principale, la richiesta di immediata rimozione dei crocifissi o, in subordine, di essere autorizzato ad esporre la sua menorà a fianco del crocifisso cattolico, rivendicando in tal modo il diritto all’eguaglianza e alla non discriminazione religiosa.
Con questa lettera, prodotta nel fascicolo di parte come documento n. 18, il dr. Luigi Tosti preannunciava che, in caso di mancato accoglimento delle sue richieste, sarebbe stato costretto ad astenersi dal tenere le udienze a partire dal 9.5.2005: e questo sia per evitare di subire gli atti di discriminazione religiosa da parte dellAmministrazione giudiziaria, sia per “libertà di coscienza”, cioè per tutelare da un lato il diritto dei cittadini italiani di essere giudicati da giudici imparziali (art. 111 Cost.) e, dall’altro, per tutelare i suoi diritti inviolabili alla libertà religiosa e all’eguaglianza religiosa (art. 3 e 19 Cost.).
Con la lettera del 1.5.2005 il dr. Luigi Tosti invitava anche il Presidente del Tribunale a provvedere alla sua sostituzione, dal 9 maggio in poi, per garantire la prosecuzione del servizio.
Non essendo stata esaudita nessuna delle due richieste, il dr. Luigi Tosti si asteneva dalla trattazione delle udienze a far data dal 9 maggio 2005.
In seguito a questo rifiuto al dr. Tosti veniva proposto l’invito a tenere le udienze nel suo studio o in altra aula senza crocifisso. L’invito veniva respinto, non solo perché contraddittorio e inutile, ma anche per le sue criminali connotazioni di segregazione, ghettizzazione e discriminazione religiosa, che ledevano in modo macroscopico la dignità del dr. Tosti e i suoi diritti di eguaglianza religiosa e razziale.
Nonostante ciò, al dr. Tosti veniva indirizzata un’ulteriore “proposta”, ancora più indecente, più offensiva e più contraddittoria della prima: cioè quella di riprendere le udienze in un’ “aula-ghetto”, allestita in tutta fretta “senza crocifisso” per il giudice ebreo. Ovviamente il dr. Tosti la respingeva, evidenziandone le connotazioni razzistiche e discriminatorie.
In seguito al rifiuto di tenere le udienze, la Procura dell’Aquila apriva alcuni procedimenti penali per omissione di atti di ufficio, accusando il dr. Luigi Tosti di “essersi astenuto dal tenere le udienze, indebitamente motivandola espressamente per la presenza in aula del crocifisso”.
Il dr. Tosti contestava, immediatamente, questa incolpazione, facendo notare al P.M. aquilano che il suo rifiuto scaturiva, innanzitutto, da un atto di criminale discriminazione religiosa, cioè dal fatto che il Ministro di Giustizia gli imponeva di tenere le udienze in presenza dei crocifissi ma gli vietata di esporre la menorà ebraica. Il dr. Tosti rappresentava al P.M. aquilano che questo comportamento discriminatorio violava l’art. 3 della Costituzione, gli artt. 9 e 14 della Convenzione sui diritti dell’Uomo, ed integrava, altresì, gli estremi del reato di cui all’art. 3 della legge 13.10.1975, a mente del quale è punito con la reclusione sino a tre anni “chi commette atti di discriminazione per motivi...religiosi”: reclamava, pertanto, anche la scriminante della legittima difesa contro gli atti di delittuosa discriminazione religiosa. Chiedeva pertanto che il P.M. integrasse il capo di imputazione, facendo risultare la verità, e cioè che il suo rifiuto di tenere le udienze scaturiva, in prima battuta, dall’imposizione del crocifisso e dal contestuale divieto di esporre la sua menorà ebraica.
La richiesta non veniva accolta e il P.M. chiedeva ed otteneva il rinvio a giudizio immediato del dr. Tosti dinanzi al Tribunale dell’Aquila.
Con sentenza del 18.11.2005 Luigi Tosti veniva condannato alla pena di sette mesi di reclusione.
Contro la condanna veniva proposto appello che la Corte dell’Aquila, con sentenza del 23.5.2007, respingeva.
Veniva interposto il presente ricorso per cassazione, con impugnazioni autonome dell’imputato e dei suoi difensori presentate col rispetto del termine decadenziale di 45 giorni, tenuto conto della sospensione feriale dei termini processuali, che va dal 1° agosto al 15 settembre di ciascheduno anno.
Qui di seguito si sintetizzano i motivi principali del ricorso, esponendoli peraltro nell’ordine di priorità logica, piuttosto che nell’ordine numerico.
NONO MOTIVO
Inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 328 del Codice Penale.
Col nono motivo si è eccepito che l’imputato doveva essere assolto perché non sussiste il fatto-reato nella sua materialità, cioè perché non esiste alcuna udienza che sia stata omessa o ritardata.
Il dr. Tosti, infatti, ha preannunciato con largo anticipo che si sarebbe astenuto dalla trattazione delle udienze, invitando l’Amministrazione a sostituirlo, dal 9.5.2005 in poi, se non fossero stati rimossi i crocifissi dalle aule o non fosse stata autorizzata l’esposizione delle sue menorà. In seguito all’astensione, poi, il dr. Tosti è stato sempre sostituito dai colleghi: NON esiste, dunque, alcun atto d’ufficio (cioè udienza) che risulti essere stato omesso o ritardato ai sensi dell’art. 328 del codice penale.
Il dr. Luigi Tosti doveva essere pertanto assolto in base al principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione penale nella sentenza 25.5.1985/3.7.1985 n. 6670 (Candus).
Con questa sentenza le SS.UU. sono state chiamate a dirimere il conflitto tra queste due concezioni: “l'una, incentrata sul dovere di fedeltà del funzionario verso lo Stato, che individua la fattispecie in ogni volontario inadempimento dei doveri del pubblico ufficiale; l'altra che, muovendo da una prospettiva più sostanziale, dà rilievo non tanto all'inadempimento quanto alla sua conseguenza, dell'essere cioè mancato l'atto dell'ufficio che la pubblica amministrazione aveva il dovere di emanare.”
Dirimendo questo conflitto, le Sezioni Unite hanno optato per la seconda soluzione, affermando che “l'art. 328 c.p. si riferisce testualmente non ad un generico dovere di fedeltà e di zelo del pubblico ufficiale, ma al mancato o ritardato compimento di un atto dell'ufficio”. Pertanto, “il reato di omissione di atti di ufficio si perfeziona non in seguito ad ogni ingiustificato inadempimento dei doveri del pubblico ufficiale e, in particolare, dell’obbligo della prestazione dell’attività lavorativa, ma soltanto se dall’inadempimento sia conseguita l’omissione o il ritardo dell’atto dovuto."
In altre parole, se un chirurgo, dopo aver vanamente lamentato che nella sala operatoria vi sono radiazioni ionizzanti che pregiudicano la salute sua e dei pazienti, invia un ultimatum al Direttore sanitario col quale lo invita ad eliminarle immediatamente e gli preannuncia che, in caso contrario, sarà costretto ad astenersi dal lavoro a far data dal 9.5.2005, e se il Direttore sanitario -da parte sua- fa eseguire gli interventi operatori dai chirurghi “supplenti”, anziché eliminare le radiazioni, non si potrà ipotizzare che sia stato perpetrato il delitto di cui all’art. 328 C.P., e cioè che “sia stato omesso o ritardato un qualche intervento chirurgico”. Semmai si potrà disquisire -ma solo in sede di contenzioso amministrativo- se l’astensione dalla prestazione lavorativa sia o meno giustificata e se, dunque, possa assumere rilievi disciplinari.
La Corte di appello dell’Aquila ha disatteso questo indirizzo giurisprudenziale delle Sezioni Unite, contrapponendo ad esso la giurisprudenza della Cassazione penale che afferma che “il delitto di rifiuto d’ufficio è un reato di pericolo” e che, pertanto, esso si perfeziona “ogni qual volta venga denegato un atto non ritardabile....prescindendosi dal concreto esito dell’omissione” (Cass. pen., Sez. VI, 18.4.1997, n. 3599).
Questa motivazione è palesemente erronea, perché la giurisprudenza citata -pur essendo esatta e condivisibile- non è pertinente.
Le massime citate dalla Corte di Appello, infatti, partono dal presupposto che il reato di rifiuto di atto di ufficio si sia perfezionato -e cioè che vi sia stato realmente un rifiuto o un ritardo ingiustificato di un atto di ufficio- e sanciscono poi che in questo caso non ha alcun rilievo la circostanza che non si sia realizzato alcun danno a carico di terzi: il delitto di rifiuto di atti di ufficio è infatti un “reato di pericolo”.
Nel caso del dr. Tosti, però, è evidente che difetta il presupposto sul quale si fonda la giurisprudenza menzionata dalla Corte di Appello, dal momento che non esiste, nella realtà, alcuna udienza che sia stata omessa o ritardata e, pertanto, non esiste, nella materialità, alcun “reato di pericolo” al quale possa applicarsi il principio enunciato dalla Cassazione.
E la riprova inconfutabile dell’errore commesso dalla Corte di Appello aquilana la si ricava dal passo della sent. n. 6670/1985 delle SS.UU. penali, dove si puntualizza che, “se è vero che la norma incriminatrice ignora gli eventuali effetti dannosi dell'atto omesso, rifiutato o ritardato (Cass. sez. VI^, 3 luglio 1967, Cicchirillo), non può negarsi che il pregiudizio all'ufficio “insito nella condotta illegittima del pubblico ufficiale” (sez. VI^, 30 marzo 1981, Vitone) si identifica, realisticamente, nell'inadempimento della pubblica amministrazione rispetto al dovere di emanazione dell'atto di ufficio.
L’indirizzo giurisprudenziale utilizzato dalla Corte aquilana appare dunque assolutamente privo di pertinenza, sicché il dr. Tosti va assolto con la formula perché il fatto non sussiste, in base al principio di diritto enucleato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 6670/1985.
L’assurdità della condanna emerge peraltro anche dalla stessa impostazione accusatoria del P.M. Questi, infatti, non potendo contestare al dr. Tosti il reato, meno grave, di interruzione di pubblico ufficio (art. 340) -e questo perché “il giudice Tosti era stato sempre sostituito da altro magistrato.....e quindi le udienze erano state tenute”- ha ritenuto di doverlo incriminare per il reato di “rifiuto di atti d’ufficio” che, però, è ben più grave.
Questa impostazione accusatoria è inaccettabile perché implica che, se il dr. Luigi Tosti si fosse rifiutato di tenere le udienze ex abrupto, senza dare alcun preavviso e creando, così, un reale disservizio, egli avrebbe perpetrato un reato..... meno grave. Questa incongruenza mette in luce l’errore di fondo che è stato commesso dai Giudici aquilani, allorché hanno ritenuto che non abbia alcun rilievo la circostanza che le udienze sono state in realtà tutte tenute da altri supplenti. Al contrario, sulla base del principio affermato dalle SS. UU. penali, il reato di rifiuto di atti di ufficio può perfezionarsi solo se l’atto di ufficio è stato materialmente omesso, e non per “sanzionare penalmente” chi sia venuto meno, per motivazioni magari poi risultate infondate, all’obbligo sinallagmatico di prestare l’attività lavorativa.
In quest’ultimo caso -così si legge nella sentenza delle SS.UU.- non potendo neppure configurarsi la fattispecie più lieve di cui all’art. 333 C.P., oramai abrogata, il rifiuto può assumere soltanto rilievi disciplinari.
In via cautelare -e cioè per l’ipotesi che si voglia ritenere che i fatti contestati all’imputato ricadano nella fattispecie astratta del reato di interruzione di pubblico ufficio (art. 340 c.p.)- si censura l’illegittimità dell’irrogazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, perché all’imputato non è stata mai contestata l’aggravante di cui all’art. 61 n. 9 C.P. (Cass. Pen., II Sez., 12.2.1998, n. 3394, Sabella).
Secondo motivo
Erronea applicazione dell’art. 52 del codice penale in relazione alla prospettata scriminante della legittima difesa.
Con la lettera del 3.5.2005 il dr. Luigi Tosti ha chiesto che venissero eliminati i crocifissi da tutte le aule o che, in subordine, egli fosse autorizzato ad esporre la menorà ebraica a fianco del Crocifisso: con questa richiesta ha rivendicato, come aderente all’ebraismo ex art. 4 L. 101/1989, gli stessi diritti e la stessa dignità che la Repubblica Italiana riserva ai Cattolici.
Il Ministro di Giustizia non ha accolto nessuna delle due istanze: il dr. Luigi Tosti si è pertanto rifiutato di tenere le udienze dal 9 maggio 2005, e questo per sottrarsi ad atti di discriminazione religiosa che assumono, nella fattispecie, anche connotazioni criminali. L’art. 3 della legge 13.10.1975 n. 654, infatti, punisce con la reclusione sino a tre anni “chi...commette atti di discriminazione per motivi...RELIGIOSI”: e se il divieto agli ebrei di entrare nei locali pubblici integra un atto di criminale discriminazione razziale, non può non essere considerato un atto di criminale discriminazione vietare alle menorà ebraiche di entrare ed essere esposte nelle aule di giustizia, visto che ai crocifissi cattolici è consentita la pubblica affissione, addirittura a spese della collettività, “grazie” ad una circolare di un regime fascista e razzista.
Secondo il dr. Tosti, infatti, “anche” gli ebrei possono vantare la stessa dignità e gli stessi diritti accordati ai cattolici: ed è assolutamente irrilevante il dato numerico degli aderenti alla confessione cattolica, trattandosi di diritto all’eguaglianza religiosa che compete al singolo individuo e che, pertanto, non può essere prevaricato da alcuna “maggioranza” (Corte Costituzionale oramai costante).
Risulta poi pacifico -e comunque acclarato per tabulas dalle lettere prodotte in giudizio- che i Superiori del dr. Tosti, al fine di farlo desistere dall’astensione dalle udienze, hanno pensato bene -non già di autorizzarlo ad esporre la menorà ebraica, soluzione improponibile perché gli ebrei sono evidentemente considerati dal Ministro di Giustizia esseri “immondi” che si sono macchiati del crimine di “deicidio”- bensì di allestirgli un’ “aula-ghetto”, “ovviamente” priva della “sacrilega” menorà ebraica che tanto offende e tanto turba la “sensibilità” dei cattolici italiani.
Nell’ottica dei Superiori del Tosti, dunque, l’odierno imputato avrebbe dovuto seguitare a lavorare, isolato come un appestato e in regime di apartheid, in un’ “aula-ghetto” sino al.... suo pensionamento!
Il giudice ebreo, però, anziché subire questi ulteriori atti di criminale ghettizzazione, ha persistito nel suo rifiuto. Questo comportamento ha determinato l’apertura del presente procedimento penale che, anziché essere indirizzato contro gli amministratori che hanno criminalmente discriminato e tentato di ghettizzare il dr. Tosti, è stato grottescamente promosso contro la vittima della discriminazione.
Il dr. Tosti si è difeso in questo processo sostenendo, in primis, che il suo comportamento di rifiuto di tenere le udienze integrava una reazione di legittima difesa per sottrarsi alla criminale discriminazione religiosa perpetrata ai suoi danni dai Ministri di Giustizia e dai suoi Superiori.
Ebbene, in esito al processo penale di primo grado il dr. Luigi Tosti è stato condannato alla pena di sette mesi di reclusione e ad un anno di interdizione dai pubblici uffici, senza che l’estensore della sentenza spendesse una parola per giustificare l’esclusione della scriminante della legittima difesa.
Interposto gravame, la Corte di Appello ha respinto la censura relativa alla mancata applicazione della scriminante della legittima difesa richiamando il principio affermato dalla Cassazione penale nelle sentenze della Sez. I, 7.3.1995 n. 2554, della Sez. I, 29.7.1999 n. 9695 e della Sez. IV, 29.9.2006 n. 32282, e cioè che la reazione posta in essere dall’imputato -ovverosia il rifiuto di tenere le udienze- “non era l’unica possibile”, potendo essere sostituita con un’altra “meno dannosa, ma ugualmente idonea ad assumere la tutela del diritto aggredito”.
Per la precisione, la Corte ha affermato che “per la salvaguardia della lesione dei suoi diritti di rango costituzionale” il dr. Luigi Tosti avrebbe dovuto attendere l’esito del ricorso che aveva attivato dinanzi al TAR delle Marche per ottenere la rimozione dei crocifissi o l’autorizzazione ad esporre la sua menorà. Se l’esito del ricorso giurisdizionale fosse stato “positivo” -ha chiosato la Corte aquilana- il dr. Tosti avrebbe conseguito un “risultato del tutto equivalente a quello perseguito con la condotta omissiva incriminata”, cioè avrebbe visto cessare i criminali atti di discriminazione ai suoi danni.
Questa motivazione non è soltanto erronea, ma è anche grottesca.
E’ di lampante evidenza, infatti, che la circostanza che il dr. Luigi Tosti avesse adito l’autorità giudiziaria per ottenere la rimozione dei crocifissi o l’esposizione della menorà ebraica non aveva avuto il magico effetto di far cessare gli atti di criminale discriminazione che erano stati perpetrati ai suoi danni, e che continuavano ad essere tranquillamente perpetrati ai suoi danni: “nonostante” l’attivazione del ricorso dinanzi al TAR delle Marche, infatti, il dr. Luigi Tosti era costretto, ogni qualvolta doveva tenere un’udienza, a subire atti di discriminazione religiosa, che avevano anche connotazioni criminali.
Dunque, l’UNICO modo per sottrarsi alla criminale discriminazione religiosa e, comunque, per preservare i suoi diritti inviolabili di eguaglianza e di libertà religiosa, era quello di non tenere le udienze: e non quello -a dir poco grottesco- di seguitare a tenere le udienze per altri 15-20 anni, in attesa dell’esito del ricorso che, se positivo, avrebbe determinato la cessazione della discriminazione religiosa ai suoi danni.
Se il dr. Tosti avesse seguito questo consiglio, dispensato dalla Corte dell’Aquila, avrebbe seguitato a subire, ancora oggi, gli atti di criminale discriminazione religiosa: e questo, peraltro, in attesa di una sentenza che si profilava -e che si profila- del tutto irrilevante ai fini dell’esimente della legittima difesa. Infatti, un ipotetico accoglimento del ricorso -che potrà avvenire tra 15 o 20 anni, visti i tempi della “Giustizia”- non servirebbe ad un bel nulla, dal momento che nel frattempo il dr. Tosti avrebbe subìto la lesione irreversibile dei suoi diritti inviolabili. Anche il rigetto del ricorso, però, si profilerebbe del tutto irrilevante, dal momento che il dr. Tosti si troverebbe comunque nella necessità di attuare la stessa forma di autotutela, cioè di astenersi dalla trattazione delle udienze, per sottrarsi alla criminale discriminazione religiosa.
Concludendo, la motivazione addotta dalla Corte di Appello, ad avviso della quale il dr. Luigi Tosti avrebbe dovuto optare per la “soluzione alternativa di attendere l’esito dei suoi ricorsi, perché ugualmente idonea ad assumere la tutela dei suoi diritti aggrediti”, è palesemente erronea, oltreché grottesca.
In ogni caso, si ribadisce che è ingiustificabile, sotto il profilo squisitamente giuridico, che si imponga, a chi sta subendo l’ingiusta aggressione dei propri diritti, l’onere di intraprendere un’azione giudiziaria -ed attenderne poi l’esito favorevole- come valida alternativa alla “legittima difesa contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta”: un siffatto onere, infatti, finirebbe per vanificare l’istituto stesso della legittima difesa, previsto dall’art. 52 del c.p.
La legittima difesa, infatti, è una forma di “autotutela” che prescinde, necessariamente, dall’onere di ricorrere preventivamente al giudice per ottenere un’ “autorizzazione” alla reazione. Se si opinasse come ha opinato la Corte di Appello di L’Aquila, la legittima difesa non sarebbe più una forma di “autotutela”, bensì una forma di tutela ordinaria ottenuta attraverso l’esecuzione di sentenze favorevoli dei giudici: il che equivarrebbe, però, a cancellare e annichilire dal codice penale l’art. 52.
Così si è invece pronunciato il Tribunale di Bolzano in una sentenza del 28.3.1979: “Il principio dell’autotutela è uno dei principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, dipanantesi attraverso le norme del codice civile e del codice penale. Ogni cittadino, di fronte ad un atto illecito che lo danneggi ha il diritto di adottare tutti i mezzi adeguati al fine di ottenere che l’illecito in suo danno cessi per impedire il ripetersi di consimili illeciti”.
Va peraltro rimarcato che l’art. 52 del C.P. contempla una forma di “autotutela”, cioè autorizza il cittadino a reagire contro le aggressioni ingiuste con comportamenti che integrano gli estremi di reato: la giurisprudenza, però, privilegia il comportamento di chi, pur potendo reagire per legittima difesa, preferisce sottrarsi all’ingiusta aggressione col commodus discessus, cioè preferisce “sottrarsi all’ingiusta aggressione quando ciò è possibile ed il fatto non è ritenuto vile e disonorevole”.
Ebbene, il dr. Tosti null’altro ha fatto che sottrarsi ad atti di criminale discriminazione religiosa e, comunque, all’ingiusta aggressione dei suoi diritti inviolabili di libertà religiosa e di eguaglianza religiosa: non si giustifica, dunque, che sia stato ritenuto responsabile del delitto di “omissione di atti di ufficio”.
E che il dr. Tosti sia stato oggetto di atti di discriminazione religiosa è circostanza inoppugnabile, oltre che non contestata dalla Corte di Appello.
Basta ricordare che:
- l’art. 3 della Costituzione sancisce che “tutti i cittadini -quindi anche gli ebrei- “hanno pari dignità e sono uguali dinanzi alla legge, senza distinzione di religione”;
- l’art. 8 della Costituzione sancisce che “tutte le confessioni religiose -e quindi anche l’ebraismo- sono egualmente libere davanti alla legge”;
- l’art. 19 della Costituzione sancisce che “tutti -e quindi anche gli ebrei- hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, di farne propaganda e di esercitarne il culto anche in pubblico”;
- l’art. 9 della Convenzione internazionale sui diritti dell’Uomo sancisce che “ogni persona -e quindi anche l’ebreo- ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; questo diritto importa la libertà di cambiare religione o di pensiero, come anche la libertà di manifestare la propria religione o il proprio pensiero individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, per mezzo del culto, dell’insegnamento, di pratiche e di compimento di riti”;
- l’art. 14 della medesima convenzione, titolato “Divieto di discriminazione”, sancisce che “il godimento dei diritti civili e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere garantito a tutti -quindi anche agli ebrei- senza alcuna distinzione, fondata sulla... religione”;
- l’art. 58 del regolamento penitenziario (D.P.R. 30.6.2000 n. 230) accorda a tutti i detenuti -e quindi anche agli ebrei- il diritto di esporre, nella propria camera o nel proprio spazio di appartenenza, immagini e simboli della propria confessione religiosa, evitando così qualsiasi possibile discriminazione tra i credenti o assurdi “privilegi” a favore dei cattolici;
- l’art. 43 del D. L.vo n. 286/1998, titolato “Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” sanziona come atto discriminatorio “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulle........ convinzioni e pratiche religiose” e stabilisce che “compie un atto di discriminazione... il pubblico ufficiale ..... che nell’esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino.... che, soltanto a causa della sua condizione....... di appartenente ad una determinata..... religione lo discriminino ingiustamente” nonché “il datore di lavoro che....... compia qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una.............confessione religiosa”;
- l’art. 43 del D.L.vo 286/1998 sancisce che “Quando il comportamento....... della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi..... religiosi, il giudice può......... ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione”;
- la convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, sipulata a Strasburgo il 1° febbraio 1995 e ratificata con Legge 28 agosto 1997, n. 302, sancisce all’art. 6 che “Le Parti incoraggeranno lo spirito di tolleranza ed un dialogo inter-culturale, ed adotteranno misure effettive per promuovere il rispetto e la comprensione reciproca, nonché la cooperazione tra tutte le persone che vivono sul loro territorio, a prescindere dalla loro identità ......religiosa....... e si s’impegnano ad adottare ogni misura appropriata per proteggere le persone che potrebbero essere vittime ..... di atti di discriminazione...... religiosa”;
- l’art. 2, parte I^, della L. 8.3.1989 n. 101 sancisce che “in conformità ai principi della Costituzione, è riconosciuto il diritto di professare e praticare liberamente la religione ebraica in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto e i riti”, che “é assicurata in sede penale la parità di tutela del sentimento religioso e dei diritti di libertà religiosa, senza discriminazione tra i cittadini e tra i culti”;
- la Corte Costituzionale, con sent. n. 195/1993, ha affermato che “qualsiasi DISCRIMINAZIONE in danno dell'una o dell'altra fede è COSTITUZIONALMENTE INAMMISSIBILE in quanto contrasta con il diritto di libertà di religione e con il principio di eguaglianza”;
- l’art. 3 della legge 13.10.1975, infine, punisce con la reclusione sino a tre anni “chi commette atti di discriminazione per motivi...religiosi”.
Alla luce di tutta questa normativa, che stigmatizza e sanziona chi compie atti di dicriminazione religiosa, è sconcertante constatare che sia stato condannato il dr. Luigi Tosti -cioè la vittima della criminale discriminazione- piuttosto che gli artefici della discriminazione. E’ sconcertante constatare che i Ministri di Giustizia, dopo aver privilegiato i cattolici attraverso l’esposizione dei loro crocifissi a spese dello Stato, abbiano negato ad un dipendente ebreo di esporre, a proprie spese, la menorà a fianco del crocifisso: un’autorizzazione, questa, assolutamente possibile, ma che è stata negata perché i Ministri di Giustizia italiani sono “razzisti” e ritengono che gli ebrei siano indegni di affiancare i loro simboli a quello della “Superiore Razza Cattolica”.
Concludendo: nella denegata ipotesi che si voglia ritenere che il rifiuto del dr. Luigi Tosti concretizzi il reato di “omissione di atti di ufficio” (ma questo deve essere escluso alla luce della citata sent. 3.7.1985 n. 6670 delle SS.UU.), si dovrà comunque affermare che il rifiuto del dr. Tosti non è punibile perché integra una legittima reazione di difesa per sottrarsi ad atti di discriminazione religiosa che assumono, nella fattispecie, anche connotazioni criminali.
Terzo motivo
Erronea applicazione dell’art. 328 codice penale ed omessa motivazione del terzo motivo di appello (art. 606, lett. c) ed e) del C.P.P.
Col terzo motivo si è dedotto che il Tribunale dell’Aquila aveva condannato il dr. Luigi Tosti perché aveva ritenuto che i principi affermati dalla IV Sezione della Cassazione Penale nella sentenza 1.3.2000 n. 4372, imp. Marcello Montagnana, non erano applicabili al “caso” del dr. Luigi Tosti, trattandosi di fattispecie “diverse”.
Per la precisione il Tribunale aveva affermato che, mentre la norma violata dal Montagnana -cioè l’art. 108 D.P.R. 30.3.1957 n. 361- prevedeva per lo scrutatore la possibilità di rifiutarsi di espletare l’incarico “se ricorreva un giustificato motivo”, la norma violata dal Tosti -cioè l’art. 328 del codice penale- non prevedeva che il pubblico ufficiale potesse rifiutare un atto del suo ufficio “per giustificato motivo”: da questa differenza normativa aveva poi dedotto che il dr. Luigi Tosti aveva l’obbligo di tenere le udienze, dal momento che “non assumevano alcun rilievo le esigenze discendenti dalla legittima tutela della libertà di religione o di coscienza ovvero del principio di laicità dello stato.”
Questa motivazione è stata fatto oggetto di esplicito motivo di gravame, ma la Corte di Appello ha omesso di pronunciarsi.
L’imputato ha dunque proposto ricorso per cassazione lamentando, in primis, l’omessa pronuncia e deducendo, in ogni caso, l’erronea intepretazione ed applicazione dell’art. 328 del codice penale.
E, in effetti, l’art. 328 del codice penale sancisce che la punibilità del reato è subordinata alla circostanza che il rifiuto del compimento dell’atto da parte del pubblico ufficiale sia “indebito”, e cioè che non sussista un giustificato motivo di rifiuto: è dunque evidente che le due fattispecie penali (art. 108 D.P.R. 30.3.1957 n. 361 ed art. 328 C.P.) sono esattamente identiche dal punto di vista lessicale. Pertanto, il principio sancito dalla Cassazione penale nella sentenza n. 4273/2000 (costituisce giustificato motivo di rifiuto dell’ufficio di scrutatore la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo di laicità dello Stato e l’adempimento dell’incarico, a causa della presenza dei crocifissi nei seggi elettorali”) doveva necessariamente applicarsi anche al caso del dr. Luigi Tosti.
Ma c’è di più. L’interpretazione restrittiva del Tribunale dell’Aquila è infatti smentita e sconfessata dalla Cassazione penale, Sez. VI, che nella sentenza 20.6.2000 (6.4.2000) n. 7281, Lo Presti ed altri (conforme a Cass. pen., Sez. VI, 11.2.1999), ha statuito che “in tema di rifiuto di atti di ufficio, di cui al primo comma dell’art. 328 C.P., il carattere indebito del rifiuto non è ravvisabile quando il compimento dell’atto determini la lesione di diritti costituzionalmente garantiti del soggetto agente. Nel bilanciamento fra l’interesse al buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) ed il diritto soggettivo alla difesa, tutelato dall’art. 24 della Costituzione, la prevalenza non può che essere attribuita a quest’ultimo. L’esigibilità del compimento dell’atto di ufficio non può, infatti, sacrificare il diritto alla difesa, anche come tutela avanzata nel senso di non assoggettamento ad atti che possano comportare l’incriminazione del pubblico ufficiale”.
Si sottolinea che il caso esaminato dalla VI Sez. penale della Cassazione riguardava due funzionari di polizia che si erano rifiutati di ricevere una denuncia penale a loro carico: i funzionari sono stati assolti perché, “se avessero ricevuto quella denuncia a loro carico, l’Autorità giudiziaria li avrebbe poi indagati e, quindi, avrebbero agevolato il corso della giustizia contro se stessi, ledendo il loro diritto soggettivo alla difesa, tutelato dall’art. 24 della Costituzione”. In sostanza, la Cassazione ha ritenuto che sia addirittura legittimo che un pubblico ufficiale, per impedire che si proceda penalmente a proprio carico per un reato commesso in precedenza, possa rifiutarsi di ricevere la denuncia penale che la parte offesa intende presentare contro di lui.
Il rifiuto è stato ritenuto “giustificato”, anche se aveva per oggetto un atto -cioè la ricezione di una denuncia penale- che di per sé era legittimo. A maggior ragione, dunque, si imponeva l’applicazione di questo stesso identico principio al caso del dr. Tosti: il suo rifiuto è infatti addirittura motivato dalla illiceità del comportamento dello Stato che, omettendo di rimuovere i crocifissi dalle aule, cagiona in modo intenzionale la lesione del principio di laicità (cioè dell’obbligo costituzionale del magistrato Luigi Tosti di essere e apparire imparziale) e, altresì, la lesione dei suoi diritti costituzionali alla libertà di religione e all’eguaglianza e non discriminazione.
Né si può lontanamente sostenere che il principio enunciato dalla Cassazione nella sentenza 7281/2000 NON si applica ai “magistrati” perché essi -come afferma la Corte di Appello- sono SEMPRE tenuti ad “obbedir tacendo”, perché così disporrebbe l’art. 54, comma 2°, della Costituzione: infatti, al di là della circostanza che l’art. 54 della Costituzione si riferisce, genericamente, ai “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche” e, quindi, “anche” ai funzionari di polizia (i quali sarebbero dunque tenuti a ricevere le denunce, anche quando ciò leda il loro diritto di difesa), è incontestabile che la ricezione delle denunce penali rientri nei compiti del pubblici ministeri, ex art. 333 c.p.p., sicché il principio enucleato dalla Cassazione penale nella sentenza 7281/2000 si applica “anche” ai “magistrati”, con buona pace della “tesi”, affermata dalla Corte di Appello, secondo cui i “magistrati sono sempre obbligati ad obbedir tacendo”.
Concludendo, si chiede che la VI Sezione della Corte di Cassazione faccia corretta applicazione del principio di diritto enucleato nella sentenza n. 7281/2000, assolvendo l’imputato con questa motivazione:
“In tema di rifiuto di atti di ufficio di cui al primo comma dell’art. 328 C.P., il carattere indebito del rifiuto non è ravvisabile quando il compimento dell’atto determina la lesione di diritti costituzionalmente garantiti del soggetto agente. Pertanto, alla luce dei principi sanciti dalla IV Sezione Penale della Cassazione nella sentenza n. 4273 del 1.3.2000 (Montagnana), applicabili al reato in questione anche per stretta analogia lessicale col reato di cui all’art. 108 D.P.R. 30.3.1957 n. 361, non è indebito il rifiuto di un giudice di tenere le udienze a causa dell’esposizione generalizzata dei crocifissi nelle aule giudiziarie, dal momento che la circolare del Ministero di Grazia e Giustizia, Div. III, del 29.5.1926 n. 2134/1867, che ne impone l’esposizione quale “simbolo venerato” e “solenne ammonimento di verità e giustizia”, deve ritenersi non solo tacitamente abrogata ex art. 15 delle preleggi per contrasto col principio supremo di laicità delineato dalla Costituzione repubblicana, ma anche lesiva del dovere costituzionale di imparzialità del giudice, prescritto dall’art. 111 della Costituzione e dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’uomo, nonché dei diritti di libertà religiosa e di eguaglianza e non discriminazione religiosa dell’agente, garantiti, rispettivamente, dagli artt. 19 Cost. e 9 Conv. e dagli artt. 3 Cost. e 14 Convenzione.”
QUARTO MOTIVO e UNDICESIMO motivo
Inosservanza e/o erronea applicazione degli articoli 1, primo comma, 2, 3, 4, secondo comma, 8, 19, 21, 54, 97, 98, 101, 104, 111 della Costituzione, degli articoli 1, 6, 9, 13, 14 e 17 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con legge 4.8.1955 n. 848, e degli artt. 2934 e 2968 codice civile (art. 606, lett. C, c.p.p.).
I. Le motivazioni del “rifiuto” di tenere le udienze.
Il dr. Tosti ha chiesto al Ministro di Giustizia di rimuovere i crocifissi dalle aule di giustizia per questi motivi.
A) Il crocifisso, impostogli come “simbolo venerato, ammonimento di verità e giustizia”, lede in modo eclatante il “principio supremo di laicità” e, dunque, il suo “obbligo” primario di Giudice di essere e apparire imparziale nei confronti di TUTTI i cittadini durante l’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali (art. 111 e 97 Cost.).
B) La presenza del crocifisso lede anche il suo diritto inviolabile di libertà religiosa (art. 19 Cost. e 9 Conv. dir. uomo), dal momento che gli viene imposta la presenza pubblica di un simbolo religioso nelle aule dove è costretto ad esercitare le sue funzioni: e questo, tra l’altro, in spregio alla sua radicata avversione verso qualsiasi forma di “idolatria”. Dal momento che le ostensioni dei crocifissi nelle case, nelle chiese, nei conventi e al collo delle persone non sono -e non possono essere- considerate atti “anodini”, bensì sono atti di inequivoca e pubblica manifestazione di appartenenza ad una determinata confessione religiosa, nonché di “fede” e di “venerazione” di un determinato “dio”, il dr. Luigi Tosti non tollera che lo Stato italiano lo costringa ad espletare le sue funzioni lavorative in un ambiente che sfoggia, per plateale “scelta confessionale” dell’Amministrazione Giudiziaria (simbolo “venerato”, ammonimento di Verità e giustizia”), una manifestazione di “fede” verso la religione cattolica ed un atto di “venerazione” verso il “dio” dei cattolici. Il dr. Luigi Tosti giammai si sognerebbe di imporre l’esposizione delle sue menorà nelle chiese cattoliche e nelle case altrui: dunque, egli pretende che lo Stato italiano si astenga dall’esporre i simulacri del dio dei cattolici nelle aule giudiziarie, le quali appartengono a tutti gli italiani -e non ai soli cattolici- e debbono dunque apparire neutrali e imparziali, in rispettoso ossequio del principio supremo di laicità.
C) La presenza del crocifisso, infine, lede anche il suo diritto primario all’eguaglianza e alla non discriminazione religiosa (art. 3 Cost. e 14 Conv. dir. uomo), dal momento che gli viene negato il pari diritto di esporre i propri simulacri, parimenti “venerati” e parimenti idonei ad “ammonire Verità e Giustizia” nelle aule giudiziarie italiane.
Non avendo il Ministro ottemperato alle sue richieste, il dr. Luigi Tosti ha posto in essere una reazione di legittima autotutela, cioè si è rifiutato di tenere le udienze per libertà di coscienza, ovverosia per non essere costretto a calpestare il suo obbligo costituzionale di imparzialità e per non subire, poi, la lesione, immediata e irreversibile, dei suoi diritti inviolabili all’eguaglianza e alla libertà religiosa.
Con questo comportamento di rifiuto il dr. Tosti si è conformato, pedissequamente, ai principi di diritto affermati dalla Cassazione penale, nella sentenza n. 4273/2000, e dalla Corte Costituzionale nelle sentenze nn. 117/1979 e 334/1996.
Per la precisione, con la sentenza n. 4273/2000 la Cassazione penale ha ritenuto che “la presenza di un simbolo o immagine religiosa in ogni seggio elettorale (indipendentemente da quello di destinazione) costituisce giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di scrutatore, in quanto determina un conflitto interiore tra il dovere civile di svolgere un ufficio pubblico e il diritto a rivendicare il rispetto del principio di laicità dello Stato e di libertà di coscienza garantito dalla Costituzione a ciascun individuo”. In sostanza la Cassazione ha ritenuto che il rifiuto di un pubblico funzionario di adempiere l'ufficio per libertà di coscienza -cioè per preservare il suo obbligo costituzionale di imparzialità ed i suoi diritti inviolabili di eguaglianza e libertà religiosa- sia "giustificato", trattandosi di una "reazione" resa necessaria dal comportamento illegittimo del Ministero dell'Interno, che è venuto meno all'obbligo di rimuovere da TUTTI i seggi elettorali il simbolo del crocifisso, pregiudicando in tal modo il rispetto del principio supremo della laicità dello stato e il rispetto dei diritti primari del funzionario.
Parimenti, con la sentenza n. 117/1979 la Corte Costituzionale ha sancito la legittimità del rifiuto di un teste di prestare il giuramento, trattandosi anche qui di un rifiuto per libertà di coscienza, cioè necessitato dall’illegittimità costituzionale della formula del giuramento: contenendo infatti riferimenti espliciti a Dio, essa finisce per ledere il diritto inviolabile di libertà religiosa del testimone.
Infine, con la sentenza n. 334/1996 la Corte Costituzionale ha sancito la legittimità del rifiuto di una parte di prestare il giuramento decisorio: e non soltanto perché lesivo del diritto di libertà di coscienza del giurante a causa dei riferimenti a “dio” contenuti nella formula dell’art. 328 del c.p.c., ma anche perché “l’intervento dello Stato nelle pratiche aventi significato religioso è sempre escluso, in conseguenza dell’appartenenza della religione a una dimensione che NON è quella dello Stato e del suo ordinamento giuridico, al quale spetta soltanto il compito di garantire le condizioni che favoriscono l’espansione delle libertà di TUTTI e, in questo ambito, della libertà di religione”, sicché è inammissibile che “un giudice possa ammonire il giurante sull’importanza religiosa del giuramento” e che “la parte debba esprimere la propria consapevolezza circa la responsabilità che col giuramento assume davanti a Dio”. Dunque, è altrettanto inammissibile che il Ministro di Giustizia imponga al personale dipendente e a tutti gli utenti, che sono costretti a frequentare i Tribunali, la presenza dell’idolo dei Cattolici, che viene addirittura proposto come “simbolo venerato, ammonimento di Verità e Giustizia.
E che l’ostensione del crocifisso, sopra la testa dei giudici, integri un “atto di intervento dello Stato con significato religioso”, lo si argomenta, in modo inoppugnabile, dalla circostanza che l’attuale Pontefice ha “ammonito” la sua “Colonia”, cioè l’Italia, a non rimuovere i crocifissi, dichiarando che “Dio deve essere presente nei Tribunali e nelle scuole”. D’altro canto, se la rubrica dell’art. 58 del regolamento penitenziario (D.P.R. 30.6.2000 n. 230) qualifica come “manifestazione di libertà religiosa” “l’esposizione da parte dei detenuti, nella propria camera individuale o nel proprio spazio di appartenenza, delle immagini e dei simboli della propria confessione religiosa”, non si vede come non si debba attribuire all’esposizione obbligatoria dei crocifissi nei Tribunali lo stesso identico valore di “manifestazione religiosa”: una manifestazione di fede confessionale che, provenendo dallo Stato, calpesta in modo eclatante il principio supremo di laicità, il quale vieta allo Stato e a qualsiasi altro organo della Pubblica Amministrazione di professare e/o manifestare una qualsiasi fede.
Né varrebbe sostenere l’assurda tesi che il crocifisso è un “simbolo culturale”: “anche a poter condividere la tesi del significato meramente culturale del crocifisso -ha chiarito il CSM nella delibera con la quale ha disposto la sospensione cautelare del dr. Tosti- il problema della libertà di coscienza e del pluralismo si sposterebbe dal terreno esclusivamente religioso a quello appunto culturale, ma non sarebbe risolto, in quanto dai principi costituzionali in precedenza individuati deriva che l'amministrazione pubblica non può scegliere di privilegiare un aspetto della tradizione e della cultura nazionale, sia pure largamente maggioritaria, a discapito di altri minoritari, in contrasto con il progetto costituzionale di una società “in cui hanno da convivere fedi, culture e tradizioni diverse” (Corte Cost., n. 440 del 1995)”.
II. Le motivazioni della condanna.
La Corte d’Appello -contrariamente a quanto fatto dalla Cassazione penale nella sentenza “Montagnana”- ha ritenuto di poter eludere la questione relativa all’illegittimità dei crocifissi nelle aule giudiziarie: la circostanza che la loro presenza possa ledere il principio supremo di laicità e i diritti inviolabili del dr. Luigi Tosti, è stata infatti ritenuta del tutto irrilevante.
L’iter motivazionale della Corte si sviluppa con questi passaggi.
1°) I diritti inviolabili, e in particolare il diritto di libertà di coscienza garantito dall’art. 2 della Costituzione, competono innegabilmente anche i magistrati: tuttavia sono ammissibili dei “limiti”, “purché questi siano posti dalla legge e trovino fondamento in precetti costituzionali espressamente fissati o desumibili dalla Carta Costituzionale”.
2°) Nel caso di specie vanno applicate le argomentazioni sviluppate dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 149/1995, laddove si è affermato che “il legislatore, in tema di libertà di coscienza, può operare per bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e graduarne la possibilità di realizzazione in modo da non arrecare pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi di interesse generale”.
3°) Di decisiva rilevanza, infine, sono state ritenute le argomentazioni su cui si fonda la sentenza n. 196 del 1987 della C. Cost., relativa al caso di un giudice tutelare che, ritenendo che l’aborto fosse contrario ai suoi personali convincimenti religiosi, aveva sollevato l’eccezione di incostituzionalità degli articoli 9 e 12 della legge n. 194 del 1978 che gli imponevano di autorizzare una minorenne ad abortire, reclamando così il riconoscimento del “diritto di rifiutarsi, per obiezione di coscienza, di autorizzare la minorenne ad abortire”. La Corte Costituzionale ha respinto l’eccezione del giudice tutelare, rimarcando che “il conflitto tra l'adempimento dei doveri del giudice e l'imperativo contrario, espressione della propria coscienza, poteva essere superato solo dando la prevalenza all'indeclinabile e primaria realizzazione della esigenza di giustizia, che discende dall'art. 54 e dall’art. 107 della Costituzione”.
Questo principio -ha chiosato la Corte d’Appello- deve essere applicato al caso del dr. Tosti, sussistendo una sostanziale identità col caso del giudice tutelare: il “rifiuto” del dr. Tosti deve essere dunque considerato “indebito”, dal momento che i diritti di libertà di coscienza del magistrato “non possono che cedere il passo all’indeclinabile e primaria realizzazione dell’esigenza di giustizia, sul cui rilievo costituzionale ex art. 54, comma 2°, Cost. non è lecito dubitare”.
4°) La Corte d’Appello ha invece ritenuto che non si applicano al caso del dr. Tosti i principi che sono stati affermati dalla Cassazione penale nella sentenza n. 4273/2000, e questo perché si tratterebbe di due fattispecie diverse.
Due i motivi della “diversità”. Il primo è che l’incarico di scrutatore era obbligatorio ex lege, mentre il rapporto d’impiego del dr. Tosti era volontario, avendo egli accettato la nomina a magistrato ed avendo poi mantenuto in vita tale rapporto: dunque, se proprio non gradiva l’imposizione dei crocifissi, il dr. Tosti aveva l’alternativa di non entrare in magistratura oppure di dimettersi.
Secondariamente, poi, il reato contestato al Montagnana -cioè l’art. 108 del DPR 361/1957- prevede expressis verbis l’esimente del “rifiuto per giustificato motivo”; per i “magistrati”, invece, le uniche ipotesi di “legittima astensione dall’attività giurisdizionale” sono quelle contemplate dagli artt. 51 e 52 del c.p.c. e dagli artt. 36 e 37 del c.p.p., sicché qualsiasi rifiuto di atto di ufficio -che non rientri nella previsione di queste norme processuali- integra il delitto di cui all’art. 328 del C.P.
5°) L’illiceità del rifiuto del dr. Tosti scaturiva -ad avviso della Corte- anche dalla circostanza che al dr. Luigi Tosti era stata allestita un’aula-ghetto nella quale esercitare le sue funzioni di giudice sino alla definizione del suo ricorso giurisdizionale.
6°) Infine, il dr. Luigi Tosti, anziché ricorrere ad un’esasperata forma di “autotutela” -che provocava uno sbilanciamento economico nel rapporto sinallagmatico con l’Amministrazione- poteva optare per l’alternativa di collocarsi in aspettativa sino alla definizione del ricorso giurisdizionale.
III. In estrema sintesi, con questa sentenza la Corte d’Appello ha affermato il principio giuridico che i giudici debbono sempre “obbedire, tacendo”, anche quando l’obbedienza determina la lesione di doveri e/o di diritti di rango costituzionale, propri o altrui: i diritti inviolabili dei magistrati (e dei terzi) divengono infatti “recessivi” -cioè si “annichiliscono”- di fronte ai doveri che nascono dal rapporto d’impiego, come sarebbe sancito dal comma 2° dell’art. 54 della Costituzione.
Questo principio di diritto -oltre che foriero di conseguenze aberranti- appare inficiato da un errore a dir poco ciclopico: la Corte di Appello, infatti, ha applicato al caso del dr. Tosti -che è un caso di “diritto inviolabile di libertà di coscienza”- i principi di diritto che sono stati invece enucleati dalla Corte Costituzionale per il caso del giudice tutelare, cioè per un caso di “obiezione di coscienza”, dando concreta dimostrazione di non aver percepito le abissali differenze che corrono tra questi due istituti.
A) Il “DIRITTO DI LIBERTA' DI COSCIENZA”: fonti normative e contenuto.
I. Per scongiurare il ripetersi degli orrori dell'ultimo conflitto mondiale, olocausto in testa, è stata stipulata nell’immediato dopoguerra la Convenzione internazionale per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, con la quale sono stati riconosciuti ai singoli individui diritti inviolabili quali quello alla vita, quello a non essere sottoposti a torture, quello ad un equo processo, quello alla libertà di pensiero, alla libertà di religione e via dicendo, la cui sussistenza non può essere messa in discussione -né tantomeno violata e/o limitata- dagli Stati contraenti, se non nelle ipotesi e nei limiti fissati dalla stessa Convenzione.
L'art. 1 della Convenzione, titolato “Obbligo di rispettare i diritti dell'uomo”, dispone che “le Alte Parti contraenti riconoscono ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà indicate nel titolo I della presente Convenzione”: i diritti inviolabili, dunque, sono diritti che vengono riconosciuti ad ogni persona, in contrapposizione agli Stati cui le persone appartengono.
Scriveva Norberto Bobbio: “Tutti gli uomini hanno per natura ......... alcuni diritti fondamentali, come il diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza, che lo Stato... deve rispettare, non invadendoli, e deve garantire nei riguardi di ogni possibile invasione da parte degli altri”.
Del tutto analoga è la tutela primaria accordata ai diritti inviolabili dalla Costituzione repubblicana che, all’art. 2, dispone che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo”.
Da queste premesse normative discende che i diritti inviolabili non possono subire limitazioni, violazioni o deroghe superiori a quelle previste dalla Convenzione e/o dalla Costituzione né subire, in caso di conflitto con altri valori primari, un “bilanciamento” che determini restrizioni superiori a quelle consentite.
Il che è mirabilmente espresso nella sentenza n. 11432/1997 delle Sezioni Unite della Cassazione civile: “Le situazioni enunciate come diritto assoluto alla libertà di coscienza e di religione, diritto assoluto all'eguaglianza ed alla non discriminazione, diritto di vedere rispettato come attori cittadini il principio fondamentale della laicità dello Stato e della Scuola, diritto alla salute anche psichica delineano la violazione di diritti primari, derivanti dallo stesso disposto costituzionale, rispetto ai quali nessun potere di sacrificio può individuarsi da parte della pubblica amministrazione. Non esiste alcun organo dello Stato (eccezion fatta per il Parlamento con le modalità e la procedura di modifica costituzionale) che possa incidere in maniera pregiudizievole sui diritti assoluti in cui si esprimono le libertà fondamentali costituzionalmente garantite. Se neppure al legislatore ordinario è consentito derogare ai principi costituzionali, a maggior ragione detta deroga non è consentita, neppure in via provvisoria, alla pubblica amministrazione”.
II. E’ d’uopo segnalare, a questo punto, un’apparente lacuna, contenuta sia nella Convenzione sui diritti dell’uomo che nella Carta Costituzionale: in nessuna delle due, infatti, esiste una norma che riconosca esplicitamente a qualsiasi persona il “diritto di rifiutarsi di ledere i diritti inviolabili altrui”, cioè di “disobbedire a leggi o ad altri atti normativi che impongano, magari dietro comminatoria di sanzioni penali, amministrative, disciplinari o civili, di ledere i diritti di terze persone”.
Questa lacuna normativa potrebbe indurre a ritenere che, se da un lato ad ogni persona è riconosciuto -ad esempio- il diritto alla vita (art. 2) ed il diritto a non essere torturati (art. 3), dall’altro lato qualsiasi Stato contraente potrebbe “legittimamente” imporre ai suoi funzionari ed ai suoi dipendenti pubblici, oppure agli stessi privati, l’obbligo di sterminare o torturare o rinchiudere nei lager gli ebrei e i rom, magari dietro comminatoria di sanzioni penali o di altro genere, senza che ai destinatari di tali “obblighi” competa il “diritto di far prevalere l’imperativo morale del ripudio di atti che sono lesivi dei diritti inviolabili altrui”, cioè di “disobbedire” ad atti normativi e di imperio che impongono di violare diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione.
Si tratterebbe, ovviamente, di una gravissima incongruenza, che vanificherebbe la ratio e l’efficacia della Convenzione, facendo sì che possano ripetersi gli orrori dell’ultimo conflitto mondiale, quando militari e funzionari furono costretti a perpetrare crimini contro i diritti umani con cieca remissività, cioè ad “obbedir tacendo”.
Questa ipotesi interpretativa deve essere però ripudiata, alla luce dei seguenti riferimenti normativi.
A) In primo luogo sia dall’art. 1 della Convenzione che dall’art. 2 della Costituzione italiana si ricava che lo Stato italiano deve garantire il rispetto dei diritti inviolabili: dal momento, poi, che ogni Stato agisce necessariamente attraverso i suoi funzionari (cd. rapporto di rappresentanza organica), si deve ritenere che i funzionari hanno l’obbligo di rifiutarsi di applicare norme illegittime che cagionano la lesione di diritti inviolabili altrui.
B) Argomento altrettanto univoco si trae dall’art. 13 della Convenzione, che sancisce che “ogni persona, i cui diritti e libertà riconosciuti nella presente convenzione fossero violati, ha diritto di presentare un ricorso avanti ad una magistratura nazionale, anche quando la violazione fosse stata commessa da persone che agiscono nell'esercizio di funzioni ufficiali”.
Dal tenore di questa norma si arguisce che la violazione dei diritti fondamentali da parte dei “funzionari” deve ritenersi, di regola, un'eccezione patologica e che, per converso, i funzionari hanno l’obbligo di applicare le norme della Convenzione con priorità rispetto alle norme interne: e dal momento che gli Stati membri non possono violare i diritti fondamentali dell’individuo, è giocoforza dedurre che i funzionari possano legittimamente “disobbedire” a leggi o ad altri atti di imperio che provocano la violazione dei diritti umani.
C) Risolutivo è infine il testo dell'art. 17 della Convenzione, che sancisce che “nessuna disposizione della Convenzione può essere interpretata come contenente per uno Stato, un raggruppamento, o un individuo, un diritto a....compiere un atto che mira alla sospensione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o ad una limitazione di questi diritti e libertà maggiore di quella prevista dalla Convenzione”.
Dal tenore di questa disposizione si evince che gli Stati contraenti non possono OBBLIGARE i funzionari, magari dietro comminatoria di sanzioni penali e/o disciplinari, a compiere atti che provocano la lesione di diritti fondamentali, cioè ad “obbedire, tacendo”, ad atti normativi che violano diritti umani: se agli Stati fosse infatti consentita una siffatta facoltà, la tutela dei diritti inviolabili sarebbe non soltanto sospesa, ma addirittura annichilita!!!
III. Concludendo, da tutte le norme sopra citate si ricava il principio di diritto che nessuna persona -sia essa un soggetto privato o un pubblico funzionario- può essere costretta -sotto comminatoria di sanzioni penali, disciplinari, amministrative o civili- a ledere diritti “inviolabili” altrui.
IV. Ma c’è di più. L’art. 9 della Convenzione, infatti, riconosce ad ogni persona (e quindi anche ai funzionari) il diritto inviolabile alla libertà di coscienza, sicché non si può disconoscere che, per libertà di coscienza legata al rispetto dei diritti umani altrui, chiunque sia autorizzato a disobbedire a qualsiasi legge o atto normativo che determini la lesione di questi diritti inviolabili.
V. E se il diritto di libertà di coscienza, espressamente riconosciuto dall’art. 9 della Convenzione, compete a chi non intende ledere i diritti inviolabili altrui, a maggior ragione deve essere riconosciuto ai titolari dei diritti inviolabili, ai quali, dunque, giammai potrà essere negato il diritto di “disobbedire, lecitamente, a qualsiasi legge o atto normativo od ordine che determini la lesione dei diritti inviolabili propri”!
VI. Il contenuto del “diritto inviolabile di libertà di coscienza”, dunque, consiste nella “facoltà di rifiutarsi di compiere atti doverosi, motivata dalla necessità di evitare la lesione di diritti inviolabili, propri o altrui, che inevitabilmente conseguirebbe dall'adempimento dell'attività doverosa”.
Quindi, chi rifiuta l'atto doveroso pone necessariamente in essere una forma di “autotutela” di questa portata: “io mi rifiuto deliberatamente di adempiere l'atto doveroso perché, se lo facessi, subirei la lesione di diritti inviolabili miei, oppure lederei i diritti inviolabili di altri soggetti”.
Il diritto di libertà di coscienza assume un valore fondamentale per l’efficacia della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, perché rappresenta lo strumento giuridico indispensabile per evitare che si ripetano gli orrori dell'ultimo conflitto mondiale, quando molti funzionari e molti militari degli Stati belligeranti furono costretti ad “obbedire, tacendo, ad atti normativi e/o d'imperio lesivi di diritti fondamentali degli esseri umani” (si pensi, in particolare, alle torture ed allo sterminio degli ebrei e dei rom).
VII. Dalle considerazioni sopra esposte emerge che il “diritto di libertà di coscienza” ricalca, in sostanza, il paradigma della legittima difesa prevista dall'art. 52 C.P., con l'unica peculiarità che si tratta di una forma di autotutela contro atti normativi primari (leggi) o secondari (regolamenti, circolari etc.), di cui si deduce e si denuncia l'illegittimità costituzionale, cioè la lesività di DIRITTI PRIMARI.
Ogni qualvolta ricorra un'ipotesi di “libertà di coscienza” -ovverosia sussista il diritto di disubbidire per preservare diritti inviolabili propri o altrui- non vi può essere mai la necessità di procedere ad alcun cervellotico giudizio di “bilanciamento di interessi costituzionali contrapposti”, perché non vi può mai essere un “contestuale” interesse di rango costituzionale che possa rischiare di essere pregiudicato dall'esercizio del diritto di libertà di coscienza e che, dunque, possa “giustificare” il sacrifico del diritto inviolabile. Chi si rifiuta per libertà di coscienza, infatti, non entra in conflitto con altri valori costituzionali, ma denuncia, al contrario, che l’attività che gli viene imposta contrasta con canoni costituzionali (o convenzionali) che la rendono illecita e, dunque, lesiva di diritti inviolabili, cioè denuncia che il Legislatore ordinario o la Pubblica Amministrazione hanno travalicato i limiti imposti loro dalla Costituzione e/o dalla Convenzione e, pertanto, pretende il ripristino della LEGALITA’.
Dalla particolare natura del diritto di libertà di coscienza -che implica il “diritto alla non costrizione”- scaturisce il corollario che esso inerisca a tutti i diritti inviolabili o, come affermano la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale, “ne sia una particolare declinazione”.
Ad esempio, il diritto di libertà religione non implica soltanto il diritto di credere o non credere, di manifestare la propria religione o credo e di farne propaganda, ma anche quello di non essere costretti a compiere atti di culto o a partecipare ad atti con significato religioso: prova ne è che è stata ritenuta lecita la violazione dell’art. 366 del codice penale, cioè la “disobbedienza” del teste all’obbligo di giurare impostogli dalla norma penale, perché necessitata dall’esigenza di tutelare la propria “libertà di coscienza in relazione all’esperienza religiosa” (C. Cost., sentenze n. 117/1979 e n. 334/1996).
Alla stessa stregua, nessuno potrebbe essere costretto ad iscriversi a sindacati (libertà di coscienza legata al diritto di libertà di associazione) o a partiti politici (libertà di coscienza legata al diritto di libertà di associazione politica) o a sposarsi (libertà di coscienza legata al diritto di libertà di matrimonio) o a suicidarsi (libertà di coscienza legata al diritto alla vita) o a torturare (libertà di coscienza legata al divieto di infliggere torture) e via dicendo.
B) L' OBIEZIONE DI COSCIENZA
L’obiettore di coscienza è invece una sorta di “kamikaze fuori-legge”, che pretende di sottrarsi agli obblighi e ai precetti normativi perché li ritiene “contrari” ai SUOI personali convincimenti morali, religiosi o filosofici, senza però prospettarne o denunciarne alcun vizio di incostituzionalità.
Ad esempio, un medico si rifiuta di praticare le trasfusioni di sangue o l'aborto terapeutico, perché li ritiene contrari ai precetti della sua religione; un testimone di Geova e un protestante evangelico si rifiutano di “giurare”, perché le loro religioni glielo vietano; un soldato si rifiuta di partecipare alla guerra, perché aborre uccidere altri uomini; un veterinario si rifiuta di abbattere mucche infettate da un malattia contagiosa, perché le considera animali sacri; un giudice si rifiuta di autorizzare una minorenne ad abortire, perché la sua religione glielo vieta.
In tutti questi casi appare evidente che l’obiettore, pretendendo di sottrarsi all’osservanza di norme di legge, senza però addurre la violazione di alcun precetto primario delle norme, finisce per “contestare” le scelte discrezionali operate dal Legislatore, al quale imputa di aver legiferato in modo contrastante con le SUE opinioni e coi SUOI convincimenti personali. E’ come se dicesse: “tu, Legislatore, non potevi legiferare nel modo in cui hai legiferato, perché la scelta che hai operato contrasta con i MIEI personali convincimenti, di cui dovevi tenere conto. Pertanto, dal momento che gli artt. 19 e 21 della Costituzione tutelano la mia libertà di religione e di opinione, io mi rifiuto di obbedire ad un comando che viola questi miei diritti”.
Questa pretesa è però viziata da un palese e macroscopico errore giuridico, che la rende assolutamente infondata.
Per un elementare e basilare principio Costituzionale, infatti, la potestà di legiferare non compete ai “cittadini”, ma al Legislatore, il quale la esercita con assoluta discrezionalità e col solo limite dell’osservanza dei precetti costituzionali e delle Convenzioni internazionali.
Nessun cittadino, dunque, può pretendere che il Legislatore emani norme che siano rispettose delle SUE peculiari credenze religiose, filosofiche, morali ed ideologiche: non solo perché sarebbe impossibile salvaguardarle tutte, ma anche perché le leggi sono il frutto della “mediazione” delle ideologie che si confrontano in sede parlamentare e, quindi, essendo approvate dalla maggioranza, sono obbligatorie per tutti.
D’altro canto, se neppure alla Corte Costituzionale è consentito interferire nelle scelte discrezionali del legislatore, è assurdo ipotizzare che una simile facoltà possa competere ai singoli cittadini!!!!
E' per questi motivi, pertanto, che la Corte Costituzionale ha costantemente escluso che l’ “obiezione di coscienza” possa avere una qualche rilevanza giuridica, cioè possa rendere “legittimo” il rifiuto di adempiere un obbligo giuridico: salvo che, ovviamente, una specifica legge non autorizzi in modo espresso l'obiezione di coscienza.
Ma questa è tutta un’altra storia che presuppone, peraltro, che il legislatore, nella sua assoluta discrezionalità, operi un “bilanciamento della libertà di coscienza degli obiettori con i contrapposti doveri o beni di rilievo costituzionale”: in caso contrario, infatti, si correrebbe il rischio che nessuno adempia le attività doverose o che, comunque, si creino disservizi ai danni delle strutture pubbliche o degli utenti (cfr. C.Cost. 467/91, 422/93, 149/95).
Questo è quanto accaduto, ad esempio, per effetto della legge n. 772 del 1972, con la quale il Legislatore ha consentito una deroga al dovere di prestare il servizio militare, sancito dall'art. 52 della Costituzione a carico di tutti i cittadini, esonerando coloro che sono contrari all'uso delle armi per motivi ideologici ma accettano, tuttavia, di espletare servizi civili o militari alternativi.
E' quanto accaduto, altresì, per l'interruzione volontaria della gravidanza, laddove si è accordato ai sanitari il diritto di rifiutare quella prestazione medica per obiezione di coscienza.
Tutte le considerazioni sin qui esposte trovano puntuale conferma nell'art. 10 della Carta di Nizza che, dopo aver ribadito al primo comma il riconoscimento del “diritto fondamentale alla libertà di coscienza, di pensiero e di religione” -peraltro nella stessa identica accezione prevista dall'art. 9 della Convenzione sui diritti dell'uomo- ha aggiunto al secondo comma la nuova figura del “diritto all'obiezione di coscienza”, al quale ha però accordato tutela solo se e in quanto “riconosciuto secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio”.
Per rendere ancor più evidenti le differenze tra i due istituti, si propone questa casistica comparata.
PRIMO CASO - Se un medico si rifiuta di fare una trasfusione di sangue, perché la sua religione glielo vieta, ricorre un’ipotesi di obiezione di coscienza, dal momento che non deduce alcun vizio di incostituzionalità della normativa che gli impone di dispensare quel rimedio terapeutico ai cittadini. Tuttavia, se lo stesso medico si rifiuta di effettuare le trasfusioni di sangue perché lo Stato, magari dietro comminatoria di sanzioni penali o di altro genere, gli impone di trasfondere sangue infettato dal virus dell’ AIDS, ricorre un’ipotesi di legittimo esercizio del diritto di libertà di coscienza, dal momento che il suo rifiuto è motivato dalla necessità di preservare il diritto inviolabile alla salute dei pazienti.
SECONDO CASO - Se un soldato si rifiuta di partecipare ad operazioni belliche, perché la sua “coscienza” gli impone di non uccidere altri esseri umani, ricorre un’ipotesi di obiezione di coscienza, che non lo scrimina dalle sanzioni collegate alla sua disobbedienza. Però, se lo stesso soldato, sempre in tempo di guerra, si rifiuta di obbedire a leggi o regolamenti che gli impongono, sotto comminatoria di sanzioni, di rinchiudere nei lager gli ebrei e i rom, di torturarli e/o di sterminarli, il suo rifiuto è legittimo, perché motivato dalla libertà di coscienza legata al rispetto dei diritti inviolabili alla libertà, alla non tortura ed alla vita altrui.
TERZO CASO - Se un giudice tutelare si rifiuta di autorizzare una minorenne ad abortire, perché la religione cattolica ripudia l’aborto, ricorre un caso di obiezione di coscienza, che non lo scrimina da responsabilità. Se lo stesso giudice, però, si rifiuta di autorizzare la minorenne ad abortire, perché la normativa impone che l’aborto debba essere eseguito con la sterilizzazione e l’infibulazione mutilante, ricorre un’ipotesi di libertà di coscienza legata al ripudio della violazione dei diritti inviolabili all’integrità fisica e sessuale della minorenne.
QUARTO CASO - Se uno scrutatore si rifiuta di accettare l’incarico perché l’Amministrazione autorizza gli elettori ad esibire sulla propria persona simboli religiosi, ricorre un’ipotesi di obiezione di coscienza. Tuttavia, se lo stesso scrutatore si rifiuta perché l’Amministrazione gli impone di fare lo scrutatore sotto l’incombenza di crocifissi o con crocifissi appesi al collo -magari radioattivi- o tatuati sulla fronte, ricorre un’ipotesi di libertà di coscienza.
QUINTO CASO - Se un seguace di Geova si rifiuta di pronunciare la formula di giuramento perché la sua religione gli vieta di “giurare”, ricorre un caso di obiezione di coscienza. Se lo stesso testimone si rifiuta di pronunciare la formula di giuramento, perché essa contiene riferimenti a Dio, ricorre un’ipotesi di libertà di coscienza legata al rispetto della sua libertà religiosa.
Chiusa la disamina delle differenze che intercorrono tra il diritto di libertà di coscienza e l’ obiezione di coscienza, è possibile evidenziare, con agevolezza, la lunga sequela di errori di diritto che sono stati commessi dalla Corte d’Appello.
1° ERRORE: Erronea applicazione alla fattispecie del dr. Tosti, che è un caso di “diritto inviolabile di libertà di coscienza”, dei principi di diritto che sono stati enucleati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 196/1987 per un caso di “obiezione di coscienza” e, dunque, erronea affermazione del principio secondo cui il rifiuto di un atto di ufficio, attuato da un magistrato per salvaguardare il diritto inviolabile di libertà di coscienza o altri diritti primari di rango costituzionale, è da ritenere sempre indebito, dal momento che l’art. 54, 2° comma, della Costituzione dispone che i cittadini cui sono affidate pubbliche funzioni hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore.
Il caso del giudice tutelare che pretese di sottrarsi all’obbligo di legge di autorizzare una minorenne ad abortire, perché lo riteneva contrario ai SUOI convincimenti religiosi, integra una chiara fattispecie di “obiezione di coscienza”: e tale è stata peraltro qualificata in modo espresso dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 196/1987. E, in effetti, quel giudice tutelare non dedusse che gli artt. 9 e 12 della L. 194/1978 contrastavano con diritti inviolabili o con principi costituzionali, ma si limitò a dedurre che gli obblighi impostigli dalle due norme “contrastavano” col “SUO modo di pensare”, pretendendo dunque di ottenere dalla Corte Costituzionale il “privilegio personale” di essere “esonerato” dal loro adempimento.
I principi affermati dalla Corte Costituzionale per “quel” caso sono dunque esattissimi, ma la Corte d’Appello ha errato ad applicarli al caso del dr. Tosti: il suo rifiuto non scaturisce infatti da un’obiezione di coscienza. Il dr. Tosti non si è rifiutato di tenere le udienze perché questa incombenza contrastava con suoi contrapposti convincimenti ideologici ma, al contrario, si è astenuto per la necessità di preservare obblighi e diritti di rango primario, denunciando, con puntuali riferimenti normativi, i vizi di illegittimità costituzionale che inficiavano le “modalità” con le quali gli veniva imposto di tenere le udienze.
Pertanto, il principio enucleato dalla sentenza n. 196/87, secondo cui “il conflitto tra l'adempimento dei propri doveri e l'imperativo contrario della propria coscienza poteva essere superato solo dando la prevalenza all'indeclinabile e primaria realizzazione della esigenza di giustizia, che discende dall'art. 54 e dall’art. 107 della Costituzione”, non poteva essere applicato al caso del dr. Tosti, che integra una chiara fattispecie di diritto di libertà di coscienza.
E la riprova inconfutabile dell’esattezza di queste conclusioni la si ricava dalle sentenze n. 85/1963 e n. 117/1979 della Corte Costituzionale, che hanno per oggetto “due” differenti casi di “rifiuto” di prestare il giuramento: il primo, motivato da una semplice “obiezione di coscienza”; il secondo, motivato dall’esercizio del “diritto di libertà di coscienza”.
La prima sentenza (la n. 85/1963) riguarda il caso di due testimoni che si rifiutarono di prestare il giuramento in quanto la “religione pentecostale”, da essi professata, vietava di prestare il giuramento sotto qualsiasi forma, conformemente all’insegnamento di San Matteo, capitolo V, 34-37, e che furono pertanto processati per il reato di cui all’art. 366 C.P.
Ebbene, la Corte Costituzionale, trattandosi di un evidentissimo caso di “obiezione di coscienza”, ritenne ingiustificato il loro rifiuto e, dunque, respinse l’eccezione di incostituzionalità con una motivazione che ricalca quella formulata per il giudice tutelare nella sentenza n. 196/1987: affermò cioè che “la libertà religiosa...non può essere intesa in guisa da contrastare e soverchiare l'ordinamento giuridico dello Stato, tutte le volte in cui questo imponga ai cittadini obblighi che, senza violare la libertà religiosa, si assumano vietati dalla fede dei destinatari della norma: tanto più, poi, quando, come nel caso in esame, l'obbligo ha la sua fonte in un precetto costituzionale, quale quello contenuto nel secondo comma dell'art. 54 della Costituzione, il quale stabilisce che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi previsti dalla legge”.
Con la seconda sentenza, la n. 117/1979, la Corte Costituzionale affrontò il caso del teste che si rifiutò anch’egli di giurare, questa volta però a causa dei riferimenti alla “divinità” contenuti nella formula di rito, subendo anch’egli un processo per il delitto previsto dall’art. 366 del C.P.
La Consulta, trattandosi in questo caso di un’evidente ipotesi di “rifiuto per libertà di coscienza”, cioè necessitato dall’esigenza di non subire la lesione del diritto di libertà religiosa, pervenne ad una pronuncia diametralmente opposta, e cioè dichiarò l’incostituzionalità dell’art. 251 del doc. di proc. civile, senza dunque attribuire, in questo caso, la benché minima rilevanza giuridica alla circostanza che i testimoni sono cittadini che esercitano “funzioni pubbliche” e che, inoltre, debbono “prestare giuramento per obbligo di legge”, ex art. 54 Costituzione.
Pertanto, il principio di diritto che è stato applicato al dr. Tosti risulta smentito e annichilito da queste due pronunce della Corte Costituzionale: da esse si evince infatti un principio diametralmente opposto, e cioè che l' “obbligo di adempiere le funzioni pubbliche con disciplina ed onore”, sancito dall’art. 54, comma 2°, a carico dei “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche”, non impedisce il legittimo esercizio del “diritto di libertà di coscienza” -cioè la facoltà di rifiutarsi di adempierle- ogniqualvolta ne derivi la lesione di diritti primari propri o altrui”.
Dunque, è palesemente erronea la petizione di principio secondo cui i giudici (anzi: tutti i funzionari, visto che l’art. 54 si riferisce a tutti “i cittadini cui sono affidate pubbliche funzioni”) hanno l’obbligo incondizionato di “obbedir tacendo”, anche quando ciò determina la lesione di diritti inviolabili.
Questo principio risulta smentito anche:
a) dalla citata sentenza della Corte di Cass. penale n. 7281/2000, che ha ritenuto giustificato il rifiuto di compiere un atto di ufficio, se ciò determina il “sacrificio” di un diritto primario del funzionario;
b) dalla citata sent. 11432/1997 delle SS.UU. civili, che hanno sancito che nessun organo dello Stato -e neppure il Legislatore- può derogare ai principi costituzionali o incidere in maniera pregiudizievole sui diritti e sulle libertà fondamentali dell’individuo;
c) dalla citata sentenza n. 4273/2000 (Montagnana) che, stante la sostanziale identità della fattispecie, doveva essere applicata al caso del dr. Luigi Tosti.
Il principio di diritto affermato dalla Corte di Appello, secondo cui ai magistrati compete sì il diritto di libertà di coscienza, ma esso diviene recessivo -cioè si annichilisce- di fronte all’obbligo dell’art. 54 della Costituzione di “adempiere le funzioni pubbliche con disciplina ed onore”, non può essere condiviso per altri due motivi.
1) Il primo è di ordine logico-giuridico: affermare infatti che ai magistrati compete il diritto di rifiutarsi di compiere attività doverose per libertà di coscienza, ma che questo diritto non può essere esercitato perché l’art. 54, comma 2° della Costituzione, lo vieta, è un vero e proprio ossimoro, dal momento che la conclusione nega la premessa da cui si è partiti.
2) Il secondo motivo è rappresentato dalla circostanza che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo stabilisce, agli articoli 15, 17 e 18, che non possono essere imposte ai diritti fondamentali dell’uomo deroghe o restrizioni maggiori di quelle previste dalla Convenzione: nel caso di specie dal tenore degli artt. 9, 13, 15 e 17 della Convenzione si ricava che non può essere imposto alcun limite o restrizione al “diritto di libertà di coscienza” di chicchessia. Dunque è contra ius ipotizzare che l’art. 54 della Costituzione -che si riferisce indistintamente a tutti i funzionari pubblici- imponga alla categoria dei magistrati una restrizione del diritto di libertà di coscienza che, peraltro, si risolverebbe addirittura in una vera e propria deroga ablativa.
La condivisione del principio affermato dalla Corte d’Appello conduce infine a conseguenze grottesche: ad esempio, i magistrati che fossero costretti da una circolare ministeriale a torturare gli imputati, non avrebbero alcuna possibilità di rifiutarsi, adducendo la libertà di coscienza legata al ripudio della tortura.
2° ERRORE: Erronea applicazione dei principi di diritto affermati dalla sentenza n. 149/1995 della Corte Costituzionale che, in realtà, si riferisce ai casi di “obiezione di coscienza”.
La Corte di Appello ha commesso lo stesso identico errore interpretativo, allorché ha affermato che è applicabile alla fattispecie del dr. Luigi Tosti il principio, estrapolato dalla sentenza della C. Cost. n. 149/1995, secondo cui “in tema di libertà di coscienza il legislatore può intervenire per “bilanciarla con contrastanti doveri o beni di rilievo costituzionale e a graduarne la possibilità di realizzazione in modo da non arrecare pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi di interesse generale”.
In realtà, questo principio si riferisce all’ “obiezione di coscienza”, e non al diritto di libertà di coscienza.
Per la precisione, con la sent. 149/1995 la Corte Costituzionale ha affermato che non è costituzionalmente censurabile la scelta del Legislatore di accordare a determinati soggetti il “privilegio” di sottrarsi, per “obiezione di coscienza”, all’obbligo di adempiere attività doverose: e questo perché il Legislatore può operare un bilanciamento della “libertà di coscienza” degli obiettori -cioè delle motivazioni ideologiche che li inducono a rifiutarsi- con i contrapposti doveri o beni di rango costituzionale, in modo da far prevalere la prima senza arrecare pregiudizio al buon funzionamento dell’amministrazione.
Dunque, la “necessità di bilanciare la libertà di coscienza con contrastanti doveri o beni costituzionali” -cui allude la Corte Costituzionale- si riferisce esclusivamente al Legislatore e riguarda esclusivamente l’ipotesi in cui esso intenda accordare esenzioni privilegiate a determinate categorie di cittadini, cioè all’ipotesi dell’ “obiezione di coscienza”.
Giammai tale “necessità di bilanciamento” può ipotizzarsi per la diversa fattispecie del “diritto di libertà di coscienza”, perché chi si rifiuta per libertà di coscienza non entra mai in conflitto con altri valori costituzionali e non intende sottrarsi all’osservanza di precetti costituzionali ma, al contrario, denuncia che l’attività che gli viene imposta è contraria a canoni costituzionali (o convenzionali) che la rendono illecita e lesiva di diritti inviolabili, cioè denuncia che il Legislatore ordinario o la Pubblica Amministrazione hanno travalicato i limiti imposti loro dalla Costituzione e/o dalla Convenzione e reclama il ripristino della LEGALITA’.
3° ERRORE: Erronea affermazione del principio secondo cui le uniche ipotesi di “legittima astensione dall’attività giurisdizionale sono quelle disciplinate dai codici di rito agli artt. 51 e 52 c.p.c. e 36 e 37 c.p.p.”, sicché qualsiasi “rifiuto di atto di ufficio” da parte di un magistrato, che non rientri nella previsione di queste norme processuali, è da ritenere “indebito” ex art. 328 C.P.
Questa interpretazione restrittiva dell’art. 328 del codice penale è stata formulata dalla Corte di Appello per giustificare la supposta differenza del “caso” Tosti dal “caso” Montagnana.
L’erroneità della petizione di principio risulta dalle seguenti considerazioni giuridiche.
A) Le “ipotesi disciplinate nei codici di rito dagli artt. 51 e 52 c.p.c. e 36 e 37 c.p.p.” non integrano casi di “esercizio del diritto di legittima astensione dall’attività giurisdizionale” -come erroneamente affermato dalla Corte di Appello- bensì dei casi in cui i magistrati hanno l’OBBLIGO di astenersi dalla trattazione degli affari per osservare il loro dovere costituzionale di imparzialità (art. 111): dunque non esiste alcun collegamento o pertinenza tra l’OBBLIGO di astensione e il DIRITTO di “libertà di coscienza”.
B) Asserire poi che un magistrato, che si trovi nelle necessità di rifiutarsi di compiere un atto d’ufficio per salvaguardare diritti inviolabili propri o altrui, possa rifiutarsi “soltanto” nelle ipotesi contemplate dai codici di rito per i casi di obbligo di “astensione”, significa assoggettare il “diritto di libertà di coscienza” dei magistrati ad una deroga e ad una restrizione che non è prevista dall’art. 328 del C.P. e che, comunque, viola la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo di cui alla legge 848/1955, dal momento che l’art. 9 della Convenzione non autorizza alcuna deroga o restrizione del diritto di libertà di coscienza. E dal momento che l’art. 117 della Costituzione richiama la Convenzione in oggetto, la Cassazione avrebbe l’onere di sollevare eccezione di incostituzionalità dell’art. 328 del C.P., nell’ipotesi in cui dovesse aderire all’interpretazione restrittiva della Corte di Appello.
C) Infine, E’ FALSO che gli articoli 51 e 52 c.p.c. e 36 e 37 c.p.p. esauriscano il ventaglio delle ipotesi nelle quali i magistrati possono legittimamente astenersi dal tenere le udienze, dal momento che:
1°) i magistrati si rifiutano di tenere le udienze in occasione degli scioperi;
2°) i magistrati si astengono dal tenere le udienze quando sono malati: e nessuno li processa, nonostante i codici di rito non prevedano tale ipotesi di astensione;
3°) i magistrati non tengono le udienze quando sono in congedo: anche qui nessuno li incrimina;
4°) i magistrati si astengono dal tenere le udienze quando sono in maternità: e nessuno li processa e li condanna;
5°) i magistrati possono rifiutarsi di tenere le udienze se il palazzo di giustizia è pericolante: anche qui l’ipotesi di un processo è grottesca, perché il rifiuto, pur non essendo contemplato dal codice di rito, è giustificato dalla necessità di tutelare il proprio diritto inviolabile alla salute e alla vita.
A chi voglia obiettare che in questi casi il rifiuto di tenere le udienze non è “indebito”, perché attuato nell’esercizio di diritti o per cause giustificatrici, contemplate IN VIA GENERALE dalla legge, è facile obiettare che anche per il rifiuto del dr. Tosti va applicata l’esimente dell'esercizio del diritto di libertà di coscienza, prevista IN VIA GENERALE dalla legge.
Ma c’è molto di più.
Come documentalmente provato, infatti, il Consiglio Superiore della Magistratura, con delibera 14.2.2007 ha ritenuto che sia del tutto legittimo il rifiuto di un magistrato di tenere le udienze a causa della mancata assistenza del Cancelliere.
Il caso trattato dal CSM si riferisce ad un magistrato che, pur avendo tenuto da sempre le udienze senza Cancelliere (come avviene per la pressoché totale generalità dei magistrati italiani), ha iniziato ex abrupto ad astenersi dalle udienze per protestare contro un provvedimento del Presidente del Tribunale che accordava l’assistenza solo ad alcuni magistrati.
Ebbene, non solo nessuno ha processato il magistrato in questione per rifiuto di atti d’ufficio, ma risulta anche che il CSM, dopo aver giustificato il suo “rifiuto”, ha addirittura redarguito il Ministro di Giustizia, invitandolo a colmare le carenze di personale. Questo caso “concreto” dimostra che il principio affermato dalla Corte d’Appello, secondo cui le uniche ipotesi di legittima astensione dalle udienze sono quelle conseguenti all’obbligo di astensione, è assolutamente infondato.
4° ERRORE: Erronea affermazione del principio secondo cui il diritto di libertà di coscienza, previsto dall’art. 9 della Convenzione e dall’art. 2 della Costituzione, può essere esercitato solo se una norma di legge lo contempla attraverso la clausola del “giustificato motivo”.
Per giustificare la mancata applicazione dei principi affermati dalla Corte di Cassazione nella sent. n. 439 del 1.3.2000, la Corte di Appello ha affermato che l’art. 328 del C.P. non contempla, expressis verbis, la clausola del “giustificato motivo” contemplata dall’art. 108 del D.P.R. 30.3.1957 n. 361: da questa supposta differenza ne ha tratto poi la conseguenza che qualsiasi rifiuto di atto di ufficio, motivato dall’esercizio del diritto di libertà di coscienza, deve ritenersi “indebito” ex art. 328 C.P.
Questa petizione di principio è assolutamente erronea.
Questi i motivi.
1° MOTIVO - Come sopra evidenziato, non esiste in realtà alcuna differenza tra le due fattispecie penali, dal momento che anche l'art. 328 del codice penale sancisce che la punibilità del reato di rifiuto di atti di ufficio sia subordinata alla circostanza che il rifiuto non sia “indebito”, cioè non sussista un giustificato motivo di rifiuto.
2° MOTIVO - L’esercizio del diritto inviolabile di libertà di coscienza non può dipendere dalla previsione, expressis verbis, della clausola del “giustificato motivo”: trattandosi di un diritto inviolabile, riconosciuto e garantito sia dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo che dalla Costituzione italiana, esso può essere esercitato “ANCHE” se la norma penale incriminatrice non contempla tale clausola, o clausole analoghe. E la prova inconfutabile è fornita dal caso del teste che si rifiutò di giurare a causa dei riferimenti alla divinità contenuti nella formula del giuramento: ebbene, nonostante l’art. 366 del codice penale non prevedesse (e non preveda) alcuna clausola di rifiuto di giurare per “giustificato motivo”, questo teste venne assolto dall’incriminazione perché la Corte Costituzionale dichiarò l’incostituzionalità dell’obbligo di giurare con quella formula.
L’interpretazione della Corte d’Appello è dunque da ripudiare, anche perché essa risulterebbe affetta da palese incostituzionalità per violazione dell’art. 117: il diritto di libertà di coscienza, infatti, è un diritto inviolabile, riconosciuto dalla Convenzione internazionale per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo, sicché non può esserne inibito il legittimo esercizio, addirittura dietro comminatoria di sanzioni penali o di altra natura. Sul punto si richiama la sentenza CEDU, 25.5.1993, Kokkinakis, che ha condannato la Grecia perché, ricorrendo addirittura alla comminazione di sanzioni penali, civili e amministrative, ha limitato il diritto di libertà religiosa dei cittadini, nonché altra sentenza della CEDU che ha escluso che il diritto di libertà di coscienza, legato alla libertà di associazione, possa essere violato o limitato attraverso la comminatoria di sanzioni civili (nella specie: licenziamento).
3° MOTIVO - Non è affatto vero che la Cassazione penale ha attribuito un rilievo scriminante alla “libertà di coscienza” dello scrutatore Montagnana soltanto perché l’art. 108 contemplava la clausola del “giustificato motivo”. In realtà, la Corte di Cassazione ha affermato l’esatto contrario (punto 9 della motivazione), e cioè: “la libertà di coscienza.... va tutelata nella massima estensione compatibile con altri beni costituzionalmente rilevanti e di analogo carattere fondante, come si ricava dalle declaratorie di illegittimità costituzionale delle formule del giuramento...: ma, nel caso, non si pongono problemi a livello costituzionale, giacché il bilanciamento degli interessi è già assicurato nella previsione della clausola penale del giustificato motivo”.
Dal che, argomentando a contrario, si traggono queste due conseguenze:
A) la prima è che la Cassazione ha ritenuto che l'esposizione del solo crocifisso lede i diritti inviolabili di libertà di coscienza dello scrutatore (e, quindi, necessariamente di qualsiasi altro funzionario e dipendente pubblico, ivi incluso il “magistrato” Tosti Luigi);
B) la seconda è che, se l'art. 108 del DPR n. 361/1957 non avesse contemplato la clausola del “giustificato motivo”, la Corte sarebbe stata costretta a valutare la necessità di sollevare un eccezione di incostituzionalità della norma (o di disapplicarla), in quanto lesiva dei diritti inviolabili dello scrutatore.
5° ERRORE: Erronea affermazione del principio, desunto dalla sentenza Montagnana (n. 4273/200), secondo cui l’esimente dell’esercizio del diritto di libertà di coscienza si applica soltanto ai pubblici ufficiali assunti con rapporto di impiego “OBBLIGATORIO”, sicché è “indebito” il rifiuto di un atto ufficio da parte di un funzionario assunto con rapporto “volontario”.
Per giustificare la mancata applicazione della sentenza Montagnana al caso del dr. Tosti, la Corte di Appello ha affermato che, mentre “il Montagnana era stato chiamato a svolgere le funzioni di scrutatore..... senza che egli avesse inteso volontariamente e per sua scelta svolgere quel pubblico ufficio....il Tosti si trovava sottoposto all’adempimento delle sue doverose funzioni istituzionali in forza di un rapporto di pubblico impiego VOLONTARIAMENTE accettato e altrettanto VOLONTARIAMENTE mantenuto per sua libera scelta”. Solo il Montagnana, dunque, si trovava nella “necessità” di rifiutarsi di adempiere l’incarico pubblico per libertà di coscienza: il dr. Tosti, viceversa, aveva la possibilità di “non accettare il posto di magistrato”, oppure quella di “dimettersi dalla magistratura”, se proprio non gradiva subire la lesione dei suoi diritti primari. In ogni caso, poi, poteva mettersi in aspettativa.
Questa “petizione di principio” non è soltanto infondata, ma è anche grottesca. Questi i motivi.
PRIMO MOTIVO - I diritti inviolabili dell’uomo sono IRRINUNCIABILI, INDISPONIBILI, IMPRESCRITTIBILI e NON ASSOGGETTABILI A DECADENZA, perché così dispongono gli articoli 1 della Convenzione, 2 della Costituzione, 2934 e 2968 del codice civile.
Dunque è grottesco sostenere -come ha sostenuto la Corte di Appello- che gli impiegati che accettano “volontariamente” di assumere un impiego pubblico “perdono”, AUTOMATICAMENTE, il diritto di far valere la libertà di coscienza legata alla lesione della libertà religiosa, alla lesione del diritto alla vita, alla lesione del diritto alla salute, alla lesione del diritto alla libertà di associazione, alla lesione del diritto alla non tortura, alla lesione del diritto all’eguaglianza e alla non discriminazione razziale e religiosa e via dicendo. Semmai si deve affermare il principio esattamente opposto: e cioè che, trattandosi di diritti “inviolabili, irrinunciabili e imprescrittibili”, a nessuno -tanto meno allo Stato- è concesso di recarvi attentato o di violarli.
Se si dovesse ritenere lecita un’interpretazione così restrittiva dell’art. 328 del codice penale, e cioè che il rifiuto di un atto d’ufficio per libertà di coscienza legata al rispetto di diritti inviolabili, propri o altrui, può ritenersi “giustificato” solo per i pubblici ufficiali che sono legati all’amministrazione da un rapporto di impiego “obbligatorio”, mentre deve ritenersi “indebito” per i pubblici ufficiali legati da un rapporto di pubblico impiego “volontario”, sarebbe palese l’illegittimità costituzionale dell’art. 328 del C.P., per violazione degli articoli 3, 18 e 117 della Costituzione, in relazione agli articoli 9 e 14 della Convenzione che tutelano il diritto di libertà di coscienza in modo pieno e incondizionato. Senza considerare, poi, che si creerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento nella fase di accesso agli impieghi pubblici, dal momento che coloro che subiscono la lesione di diritti inviolabili sarebbero costretti o a non partecipare ai concorsi o a rinunciare all’impiego, dopo aver vinto il concorso.
SECONDO MOTIVO - La IV Sezione penale della Cassazione non si è mai sognata, poi, di affermare questo singolarissimo principio, congetturato dalla Corte di Appello dell’Aquila.
Se si ha cura di leggere con attenzione la sentenza Montagnana, infatti, ci si accorgerà che la Corte di Cassazione ha affermato, al punto 3 della sentenza, che sussisteva un “rapporto di causalità immediata tra il contenuto dell’ufficio di scrutatore e il motivo del rifiuto”, in quanto il prof. Marcello Montagnana si era rifiutato di essere inserito come pubblico ufficiale in una amministrazione che, non provvedendo a rimuovere i simboli religiosi da tutti i seggi elettorali, non garantiva il rispetto della libertà di coscienza e il principio supremo della laicità dello Stato.
Al successivo punto 4, poi, la Cassazione si è limitata a “rafforzare” questa conclusione, affermando che “l'immediatezza......del rapporto tra il rifiuto motivato ed il contenuto dell'ufficio imposto emergeva da ALTRE due considerazioni”, la prima delle quali, per l’appunto, era quella che il Montagnana non aveva il potere di impedire previamente l'insorgenza del conflitto, dal momento che l’adempimento del munus pubblicum gli era stato imposto.
Alla stregua di questa corretta lettura della sentenza, dunque, è ben chiaro che l’ ulteriore “considerazione” che è stata esposta dalla Cassazione nessun altro scopo aveva, se non quello di rafforzare la prima considerazione, che era però di per sé già esaustiva.
Peraltro, non è necessario spendere ulteriori parole sul punto, dal momento che la tesi interpretativa della Corte di Appello è smentita apertamente dalla citata sentenza 7281/2000 della Cassazione penale, con la quale è stato ritenuto “debito” il rifiuto di atti di ufficio da parte di un ufficiale di polizia, cioè da parte di un soggetto che è legato alla P.A. da un rapporto di impiego “volontario”.
6° ERRORE: Erronea affermazione della “pretestuosità” del rifiuto di tenere le udienze, perché “analogo comportamento potrebbe essere tenuto da ciascuno dei novemila magistrati italiani, con conseguente paralisi della “giustizia”, non altrimenti eliminabile se non attraverso la generalizzata rimozione dei crocifissi dalle aule giudiziarie”.
Si ribadisce, innanzitutto, che “adducere inconvenientem, non est solvere argumentum”, ovverosia la circostanza che si realizzi l'inconveniente della paralisi della Giustizia, nell'ipotesi in cui tutti i magistrati seguano l’esempio del dr. Tosti, non dimostra l'illiceità delle motivazioni del rifiuto, e cioè che esso non sia stato dettato dalla necessità di preservare obblighi e diritti di rango costituzionale dell’agente.
D’altro canto, se tutti i componenti dei seggi elettorali si rifiutassero di adempiere il munus pubblicum per le stesse motivazioni addotte dal Montagnana, le operazioni elettorali si bloccherebbero, con pregiudizi ancor più gravi di quelli paventati per la Giustizia.
Alla Cassazione penale non è passato però per la mente di condannare il Montagnana con l'assurda motivazione che è stata adottata per il Tosti.
7° ERRORE: Erronea qualificazione del rifiuto come “indebito”, ex art. 328 C.P., perché attuato senza attendere l’esito delle azioni giudiziarie intraprese.
Il dr. Tosti non aveva l’onere di intraprendere azioni legali per chiedere la rimozione dei crocifissi né di attenderne l’esito: infatti, il diritto di obiezione di coscienza è una forma di autotutela e, dunque, esso prescinde necessariamente da una preventiva pronuncia favorevole del giudice perché, altrimenti, non sarebbe nemmeno una forma di autotutela, bensì un'ipotesi di ordinaria esecuzione di una pronuncia di un giudice.
Il riscontro inconfutabile della bontà di questa affermazione proviene dalla giurisprudenza menzionata e dallo stesso CSM.
Il Montagnana, infatti, non è stato condannato, nonostante egli avesse la possibilità di adire l’autorità giudiziaria ed attendere l’esito del ricorso, quale “valida alternativa” al rifiuto di adempiere il suo munus obbligatorio
La stessa identica considerazione vale per il teste che si rifiutò di testimoniare a causa dei riferimenti a Dio contenuti nella formula di giuramento: anche questo teste, infatti, poteva promuovere una causa contro l’Amministrazione, eccependo in via preliminare l’eccezione di incostituzionalità della norma e chiedendo, con ricorso d’urgenza, la sospensiva.
Ma c’è molto di più. Come sopra detto, infatti, il CSM ha addirittura ritenuto legittimo il rifiuto di un giudice di tenere le udienze a causa della mancata assistenza da parte del Cancelliere. Anche in questo caso il magistrato aveva la “valida alternativa” di ricorrere contro il Ministro di Giustizia per ottenere che gli venisse assegnata l’assistenza del Cancelliere e di attendere, poi, l’esito favorevole di questa sua azione giudiziaria. Nonostante ciò non sia mai avvenuto, però, nessuno lo ha mai incriminato per il reato di cui all’art. 328 del C.P.!!!!
Concludendo, da quanto sopra esposto emerge che al caso del dr. Luigi Tosti dovevano essere applicate le motivazioni della sentenza n. 4273/2000 della IV Sezione Penale, la cui pertinenza è eclatante. E per rendersene conto basta adattare la motivazione al “caso” del giudice Tosti nel modo che segue:
“Il contenuto dell'ufficio di giudice consiste solo indirettamente nei compiti o nelle prestazioni ad esso connessi, ma direttamente ed immediatamente nella funzione di pubblico ufficiale che con la nomina egli viene ad assumere. Una volta designato, infatti, il giudice svolge una pubblica funzione, un'attività, cioè, che è diretta manifestazione di pubbliche potestà o - in senso enfatico - dell'autorità dello Stato per la presenza dei poteri tipici della potestà giurisdizionale, come indicati dal secondo comma dell'art. 357 cod. proc. pen. novellato dalle leggi n. 86 del 1990 e n. 181 del 1992 (cfr. Cass. sez. un. 24-09-1998, n. 10086, ced 211190). Il contenuto dell'ufficio di giudice è, quindi, quello di formare e manifestare la volontà dell’ amministrazione della Giustizia (Cass. sez. un. 27-03-1992, n. 7958, ced. 191173): e, quindi, innanzitutto la “inserzione nell'ufficio” (Cass. 5-5-1992, n. 5332, ced 189972).
È in relazione a questo immediato contenuto dell'ufficio di giudice che va quindi valutata l'esistenza del rapporto di causalità immediata con il motivo del rifiuto: ed essa, se pur dubbia o non appariscente in relazione ai singoli compiti assegnati al giudice, riemerge allora con immediatezza. Infatti, il dott. Tosti ha rifiutato di “svolgere la funzione di giudice”, piuttosto che i compiti ad essa connessi, e cioè l'inserzione come pubblico ufficiale in una amministrazione della Giustizia che, non provvedendo “affinché venga rimosso qualsiasi simbolo o immagine religiosa da tutte le aule di giustizia”, non garantisce, contro il suo convincimento, “il rispetto della irrinunciabile libertà di coscienza garantita dalla Costituzione a ciascun cittadino” e del “supremo principio costituzionale della laicità dello Stato”.
4. - L'immediatezza, e non la strumentalità, del rapporto tra il rifiuto motivato ed il contenuto dell'ufficio di giudice scaturisce dalla portata dell'invocato principio di laicità dello Stato, che con quel contenuto ha in comune la nota dell'imparzialità del giudice (art. 111 Cost.), in funzione della quale vanno organizzate le aule di giustizia, in cui il giudice è inserito, in particolare per garantire sotto i molteplici aspetti formali previsti dalla legge la libera formulazione del giudizio.
Il principio indicato implica un “regime di pluralismo confessionale e culturale” (corte cost. 12.4.1989, n. 203) e presuppone, quindi, innanzitutto l'esistenza di una pluralità di sistemi di senso o di valore, di scelte personali riferibili allo spirito o al pensiero, che sono dotati di pari dignità e, si potrebbe dire, nobiltà. Ne consegue una pari tutela della libertà di religione e di quella di convinzione, comunque orientata: infatti, anche “la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici” è garantita in connessione con la tutela della “sfera intima della coscienza individuale” (corte cost. 19.12.1991, n. 467), conformemente all'interpretazione dell'art. 19 Cost (che tutela la libertà di religione, non solo positiva ma - come riconosciuto dalla corte fin dalla sentenza 10.10.1979, n. 117, e ribadito da quella 8.10.1996, n. 334 - anche negativa: vale a dire, anche la professione di ateismo o di agnosticismo) e all'art. 9 della convenzione europea dei diritti dell'uomo, resa esecutiva con l. 4.8.1955, n. 848 (che tutela la libertà di manifestare “la propria religione o il proprio credo”).
Il detto principio, inoltre, si pone come condizione e limite del pluralismo, nel senso di garantire che le aule di giustizia deputate al conflitto tra i sistemi indicati siano neutrali e tali permangano nel tempo: impedendo, cioè, che il sistema contingentemente affermatosi getti le basi per escludere definitivamente gli altri sistemi......
6. - La rimozione del simbolo religioso del crocifisso da ogni aula di giustizia, che è la condizione a cui il dott. Luigi Tosti aveva subordinato l'espletamento della funzione di giudice = pubblico ufficiale imparziale, si muove lungo questo solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale in termini di laicità e pluralismo, reciprocamente implicantisi........
In particolare, l'imparzialità della funzione del giudice-pubblico ufficiale è strettamente correlata alla neutralità (altro aspetto della laicità, evocato sempre in materia religiosa da corte cost. 15.7.1997, n. 235) delle aule di giustizia deputate alla formazione dei processi decisionali nelle cause civili e penali, che non sopporta esclusivismi e condizionamenti sia pure indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del contenuto di fede, che ogni immagine religiosa simboleggia..........
Anche per tal via, quindi, si conferma l'immediatezza del rapporto tra motivo del rifiuto e contenuto dell'ufficio imposto. Ma se ne ricava pure l'attuabilità della condizione posta dal dr. Tosti, non impossibile in quanto non estranea agli ordinari poteri del Ministro di Giustizia perché richiedente, per esempio, solo un intervento legislativo. Il crocifisso, infatti, è ricompreso tra gli arredi delle aule giudiziarie in virtù di una circolare ministeriale del 1926 che, peraltro, deve ritenersi caducata e, comunque, modificabile e revocabile dal Ministro.
Sta di fatto, tuttavia, che la condizione apposta dal dott. Tosti non si è verificata e che egli ne ha tratto motivo per non ritenere garantito il principio di laicità dello stato e quindi - con un rapporto tra causa ed effetto - di imparzialità della propria funzione di giudice, inducendolo ad un'azione di rifiuto adeguata a tali principi costituzionali.........
Ora la libertà di coscienza, prospettata per dir così a tutto tondo, non è divisibile in modo da ritenerla esercitabile solo se riguardi l’aula utilizzata dall'agente come giudice e non la totalità delle aule e cioè l'intera amministrazione della Giustizia........... Ogni violazione del principio di laicità nel modo indicato in qualsivoglia aula giudiziaria non può non essere avvertita da una coscienza informata a quel principio come violazione di quel bene nella sua interezza, indipendentemente dal luogo in cui si verifichi, cosicché non è possibile attribuire rilevanza al fatto che casualmente la violazione non si verifichi nell’aula di destinazione.
Costituisce, pertanto, giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di giudice la manifestazione della libertà di coscienza, il cui esercizio determini un conflitto tra la personale adesione al principio supremo di laicità dello Stato e l'adempimento dell'incarico a causa dell'organizzazione della Giustizia in relazione alla presenza obbligatoria nelle aule giudiziarie, pur se casualmente non in quella di specifica destinazione, del crocifisso o di altre immagini religiose.”
QUINTO MOTIVO
Inosservanza e/o erronea applicazione degli art. 97 e 101 Cost., art. 3 L. 654/1975, art. 14 L. 654/1975, art. 328 C.P., per aver qualificato come “indebito” il rifiuto di tenere le udienze nell’ “aula-ghetto”, allestita senza crocifisso dal Presidente del Tribunale di Camerino, dietro sollecitazione del Presidente della Corte di Appello di Ancona, in attesa della definizione del ricorso amministrativo (606, lett. b, C.P.P.).
La Corte di Appello ha ritenuto che il rifiuto del dr. Tosti di tenere le udienze sia da ritenere “indebito” alla luce della circostanza che gli fu allestita un’aula-ghetto, senza crocifisso, dove “riprendere il suo lavoro”.
Questa motivazione non è soltanto erronea, ma è anche grottesca ed offensiva. Questi i motivi.
1°) L’allestimento dell’aula-ghetto integra gli estremi del delitto previsto e punito dall’art. 3 della legge n. 654/1975, oltre che costituire una violazione del diritto di rango primario del dr. Tosti all’eguaglianza e alla non discriminazione, garantitogli dall’art. 3 della Cost. e dall’art. 14 della Convenzione: il rifiuto di tale indecente proposta, dunque, è più che legittimo.
2°) La proposta dell’aula-ghetto non era accoglibile perché irrilevante: la IV Sez. Penale della Cassazione ha infatti statuito nella sentenza n. 4273/2000 che “la libertà di coscienza...non è divisibile a tutto tondo in modo da ritenerla esercitabile solo se riguardi il seggio di destinazione dell’agente come scrutatore e non la totalità dei seggi e cioè l’intera amministrazione....Ogni violazione del principio di laicità...non può non essere avvertita da una coscienza informata a quel principio come violazione di quel bene nella sua interezza, indipendentemente dal luogo in cui si verifichi, cosicché non è possibile attribuire rilevanza al fatto che casualmente la violazione non si verifichi nel seggio di destinazione”.
3°) La “proposta” che è stata fatta al dr. Tosti non poteva essere accolta perché viola il principio di legalità sancito dagli artt. 97 e 101 della Costituzione: se è infatti vero quanto sostenuto dalla P.A. -e cioè che la circolare fascista del ministro Rocco è ancora vigente- non si giustificavano e non si giustificano “deroghe” di favore per il dr. Luigi Tosti, dal momento che la legge è uguale per tutti.
Pertanto, delle due l'una: o il Crocifisso è legittimo, e quindi non è legittimo fare un'aula apposta per Tosti, oppure è illegittimo e dunque vanno rimossi tutti.
La Cassazione penale, Sez. III, ha peraltro affermato, con l'ordinanza n. 41.571, pubblicata il 18.11.2005, che “è da escludere che un giudice, di qualsivoglia ordine e grado, possa prendere una decisione in contrasto con la circolare ministeriale Rocco”: la regola, dunque, vale anche per i “Superiori” del dr. Tosti, che non avevano alcuna legittimazione a disporre la rimozione del Crocifisso dall’aula-ghetto.
4°) La proposta dell’aula-ghetto era inutile, sia perché le funzioni di GIP del dr. Tosti dovevano essere espletate in un’aula attrezzata per la registrazione, nella quale permaneva la presenza del crocifisso, sia perché il dr. Tosti espletava abitualmente anche funzioni collegiali.
Egli, inoltre, veniva applicato in altre sedi, in ipotesi anche al di fuori del distretto della Corte di Appello, sicché il regime di apartheid era ingiurioso e lesivo dei suoi diritti di eguaglianza e di libertà religiosa: in ogni nuova sede, infatti, sarebbe stato costretto ad esternare i propri convincimenti religiosi per l’allestimento di altre “aula-ghetto”.
OTTAVO MOTIVO
Contraddittorietà della motivazione nella parte in cui fa discendere la natura “indebita” del rifiuto dalla mancata adozione del rimedio dell’ “aspettativa facoltativa”.
Per supportare la natura “indebita” del rifiuto di tenere le udienze, la Corte di Appello (pag. 21-22) ha sostenuto che il dr. Tosti avrebbe potuto chiedere “la sospensione momentanea del rapporto (ad esempio un periodo di aspettativa facoltativa”, evitando così di “recare un radicale pregiudizio al doveroso imperativo di satisfacere officio”: il che avrebbe anche evitato il “grave danno per gli utenti” e lo “sbilanciamento del rapporto sinallagmatico in danno della Pubblica Amministrazione che....era comunque tenuta ad adempiere -e in concreto ha puntualmente adempiuto- l’obbligo di corrispondergli la retribuzione”.
Questa motivazione è censurabile in quanto:
A) Il “rimedio ordinamentale alternativo”, suggerito dalla Corte di Appello, era impraticabile, dal momento che un dipendente pubblico non può chiedere l’aspettativa di 20 anni, in attesa che la Giustizia-lumaca italiana definisca un ricorso giurisdizionale amministrativo.
B) Il “rimedio” poi, non poteva conseguire il risultato preconizzato dalla Corte, cioè quello di evitare la disertazione delle udienze, dal momento che l’assenza dal servizio del dr. Tosti, per aspettativa, avrebbe comunque cagionato la sua astensione dalle udienze.
DECIMO MOTIVO
Erronea applicazione art. 62 n. 1 C.P.
La Corte di Appello ha escluso l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 1 del C.P. (aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale) con questa motivazione: “il ricorso ad una forma estrema di asserita “autotutela” da parte di un rappresentante del potere giudiziario, ossia di chi istituzionalmente è chiamato a garantire il rispetto e l’applicazione delle leggi, secondo le forme ed i modi che l’ordinamento stesso appresta per la tutela dei diritti di ciascuno, sottrae al generale apprezzamento nel comune sentire il fatto contestato, tanto più che sussistevano percorsi alternativi, peraltro parzialmente sperimentati, utili per la salvaguardia della sua libertà di coscienza”.
Questa motivazione è erronea, perché la Corte di Appello ha attribuito valenze negative al rifiuto senza però decidere, in via preliminare ed incidentale, la questione relativa alla lesione del principio supremo di laicità e dei diritti inviolabili del magistrato. Dunque, il giudizio negativo circa la sussistenza dei “motivi di particolare valore morale” è viziato, oltre che essere contraddetto dalla sent. Montagnana, dove invece si è asserito che “non è dubitabile ...il particolare valore morale e sociale, riconosciuto con l’attenuante di cui all’art. 62 n. 1 c.p.- del motivo del rifiuto”.
Concludendo, l’iniqua condanna che è stata inflitta al dr. Luigi Tosti scaturisce dalla circostanza che i Giudici aquilani:
1°) hanno disapplicato la sentenza delle SS.UU. della Cassazione penale n. 6670/1985, che rende evidente l’insussistenza materiale del reato di rifiuto di atti di ufficio, dal momento che le udienze sono state tenute dai supplenti;
2°) hanno disapplicato la sentenza della Cassazione penale 20.6.2000 n. 7281, che sancisce che “il carattere indebito del rifiuto non è ravvisabile quando il compimento dell’atto determini la lesione di diritti costituzionalmente garantiti del soggetto agente”;
3°) hanno disapplicato la pertinentissima sentenza della Cassazione penale 1.3.2000 n. 4273, che ha sancito che “la presenza del crocifisso nel seggio elettorale costituisce giustificato motivo di rifiuto dell'ufficio di scrutatore, in quanto determina un conflitto interiore tra il dovere civile di svolgere un ufficio pubblico e il diritto a rivendicare il rispetto del principio di laicità dello Stato e di libertà di coscienza garantito dalla Costituzione a ciascun individuo”;
4°) hanno disapplicato la circolare del Consiglio Superiore della Magistratura del 14.2.2007, che autorizza il rifiuto di tenere le udienze financo nell’ipotesi di assenza del cancelliere;
5°) hanno erroneamente applicato la sentenza della Corte Costituzionale n. 196/1987, che è assolutamente impertinente perché si riferisce ad un caso di “obiezione di coscienza”;
6°) hanno infine disapplicato le sentenze n. 117 del 1979 e n. 85/1963 della Corte Costituzionali, dalle quali si evince che qualsiasi pubblico funzionario -giudice incluso- può sottrarsi per libertà di coscienza all’obbligo di compiere atti d’ufficio lesivi di diritti inviolabili altrui o propri.
Pertanto, quanto sopra premesso, si insiste per l’accoglimento delle seguenti
CONCLUSIONI
Piaccia all’Ecc.ma Corte di Cassazione, in accoglimento del ricorso, mandare assolto l’imputato perché il fatto non esiste o perché non costituisce reato. In subordine voglia annullare la sentenza con rinvio alla Corte di Appello per il nuovo giudizio.
Roma-Camerino, 21 ottobre 2008
Avv. Fabio Pierdominici
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