lunedì 9 luglio 2012

MEMORIA PER LA CORTE DI APPELLO DELL'AQUILA 5 LUGLIO 2012 (di Luigi Tosti)

Pubblico, per gli amici che mi seguono, il testo integrale della memoria che ho presentato per l'udienza del 5 luglio 2012 nel giudizio penale davanti alla Corte di Appello di L'Aquila.


CORTE DI APPELLO DI L’AQUILA
UDIENZA DIBATTIMENTALE DEL 5 LUGLIO 2012
MEMORIA DIFENSIVA DELL’APPELLANTE LUIGI TOSTI
Ø    PRIMO PUNTO - L’appellante Luigi Tosti dichiara espressamente di rinunciare alla prescrizione dei reati di cui è imputato e per i quali ha già riportato condanna.
Ø    SECONDO PUNTO - L’appellante Luigi Tosti dichiara di aver RINUNCIATO con dichiarazione resa ex art. 582-589 C.P.P.al Cancelliere del Tribunale di Rimini (e in ogni caso ribadisce con questo atto la RINUNCIA) al PRIMO MOTIVO di APPELLO col quale ha  lamentato la mancata applicazione dei principi sanciti dalle SS.UU. della Cassazione penale nella sentenza n. 6670/1985. Chiede pertanto che la Corte si pronunci solo sui residui motivi d’appello, conformente alla giurisprudenza della Cassazione penale che ha affermato (cfr., da ultimo, Cass. pen., Sez. 2, sent. n. 3593 del 03/12/2010 / 01/02/2011) che “è inammissibile il ricorso per cassazione avverso la decisione del giudice di appello che, rilevata la rinuncia dell'imputato ai motivi di appello diversi da quelli relativi alla riduzione di pena, dichiari, in virtù degli art. 589, commi secondo e terzo e 591, comma primo, lett. d) cod. proc. pen., l'inammissibilità sopravvenuta dei motivi oggetto di rinuncia, omettendone l'esame ai fini dell'applicazione dell'art. 129 cod. proc. pen., considerato che la rinuncia ha effetti preclusivi sull'intero svolgimento processuale, ivi compreso il giudizio di legittimità. Pertanto, poiché, ex art. 597, comma primo, cod. proc. pen., l'effetto devolutivo dell'impugnazione circoscrive la cognizione del giudice del gravame ai soli punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti, una volta che essi costituiscano oggetto di rinuncia, non può il giudice di appello prenderli in considerazione, né può farlo il giudice di legittimità sulla base di un'ipotetica implicita revoca di tale rinuncia, stante l'irrevocabilità di tutti i negozi processuali, ancorché unilaterali”).
Ø    TERZO PUNTO - L’appellante rappresenta che nelle more del giudizio è stato celebrato a suo carico il procedimento disciplinare per gli stessi identici fatti che sono stati contestati in questa sede penale. Tale giudizio si è concluso con sentenza del CSM n. 88/2010 con la quale è stato condannato alla rimozione dalla magistratura. Questa sentenza è passata in giudicato in seguito al rigetto del ricorso per cassazione, disposto dalle SS.UU con sent. n. 5924/2011 del 14.11.2011.
            Ovviamente i principi sanciti dalla Sezione disciplinare del CSM e dalla Cassazione non fanno stato nel presente processo: tuttavia -se condivisi dalla Corte di Appello aquilana- assumerebbero un rilievo giuridico decisivo, perché determinerebbero l’integrale riforma della motivazione che è stata addotta dal Tribunale a sostegno della condanna: e cioè che il Tosti -a fronte della conclamata lesione dei suoi diritti inviolabili di libertà religiosa e di coscienza e di non discriminazione- non potesse “autotutelarsi” col rifiuto di un’attività di servizio che gli era imposta dal rapporto di pubblico impiego, essendo stati per contro applicati al suo caso i principi fissati dalla sentenza n. 196/1987 della Corte Costituzionale che, in un caso di “obiezione di coscienza”- aveva sancito che “i diritti inviolabili del magistrato dovevano cedere il passo all’indeclinabile e primaria esigenza dell’amministrazione della giustizia.”
            A tal proposito giova ricordare che questo stesso principio era stato originariamente affermato dalla Sezione disciplinare del CSM nell’ordinanza del 31.1.2006, con la quale aveva disposto la sospensione cutelare del Tosti dalle funzioni e dallo stipendio. Il CSM aveva infatti escluso che il magistrato potesse “autotutelare” i suoi diritti di libertà religiosa e di coscienza col rifiuto di tenere le udienze, ritenendo per converso applicabili i principi sanciti dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 196/1987 della Corte Costituzionale.
            Il CSM si era espresso in questi termini:
Nella soluzione del caso di specie sono di estremo rilievo le argomentazioni sulle quali si basa la citata sentenza della corte costituzionale n. 196 del 1987, con la quale è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 9 e 12 della legge n. 194 del 1978 nella parte in cui non riconoscono il diritto all’obiezione di coscienza al giudice tutelare al quale la minore chieda di essere autorizzata a decidere l’interruzione della gravidanza senza l’assenso dei genitori. Il conflitto tra l’adempimento dei propri doveri funzionali e l’imperativo contrario, espressione della propria coscienza, in una situazione in cui il legislatore non ha previsto un criterio di soluzione è stata ritenuta superabile solo dando la prevalenza “all’indeclinabile e primaria realizzazione della esigenza di giustizia” che discende dagli articoli 54, 2° comma (sulla doverosità dell’adempimento delle funzioni pubbliche) e 107 Cost., e il cui rilievo costituzionale la corte ha ripetutamente riconosciuto (cfr. sentenza n. 1 del 1981)”.
            Questa motivazione è stata poi condivisa -anzi, ricopiata- dal Tribunale dell’Aquila, che l’ha posta a base della condanna del Tosti senza tenere conto delle critiche mossele: e cioè che il rifiuto di tenere le udienze non scaturiva da una cervellotica “obiezione di coscienza” del magistrato -cioè dall’esigenza di rispettare suoi personali “convincimenti ideologici”- bensì dall’esigenza di autotutelare diritti inviolabili, preservandoli dalla lesione che era indotta dall’imposizione dell’obbligo di tenere le udienze sotto l’imposizione del crocifisso e dal contestuale divieto di esporre i propri simboli a fianco dello stesso.
            Orbene, con la sentenza n. 88/2010 i giudici della (nuova) Sezione disciplinare hanno ripudiato la motivazione posta a fondamento della “sospensione cautelare” (e quindi anche la motivazione addotta dal Tribunale aquilano a fondamento della condanna), affermando un principio diametralmente opposto: e cioè che l’obbligo di esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica del crocifisso metteva in discussione il fondamentale diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione del magistrato, autorizzandolo dunque a rifiutarsi di tenere le udienze per legittima autotutela.
            Nonostante ciò, i giudici della Sezione Disciplinare hanno condannato alla rimozione il dr. Luigi Tosti perché hanno ritenuto illegittima la “persistenza del suo rifiuto di tenere le udienze ANCHE DOPO che il Presidente del Tribunale di Camerino gli aveva offerto il rimedio di tenerle in un’aula, senza crocifisso, appositamente allestita per lui”. Questo “rimedio” è stato infatti ritenuto “non ghettizzante” e “non lesivo di altri diritti inviolabili” del magistrato.
            Questa motivazione è stata poi condivisa dalle Sezioni Unite civili nella citata sentenza n. 5924 del 14 marzo 2011. In particolare, la Corte ha chiarito che “la Sezione disciplinare non ha ritenuto la responsabilità del dr. Tosti, perché si era rifiutato di fare udienza in un'aula ove fosse esposto il crocifisso: anzi ha specificato che solo in questo caso, e cioè se gli fosse stato imposto di esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica del crocifisso, ciò poteva mettere in discussione il suo diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione..... la Sezione disciplinare ha escluso in fatto che una lesione del diritto soggettivo della libertà religiosa, di coscienza e di opinione vi fosse, essendo possibile utilizzare un ufficio ed aula senza il crocifisso”.
            C’è di più: la Corte ha enucleato dei principi giuridici che convalidano in toto le tesi difensive dell’imputato, esprimendosi in questi termini:
Anzitutto in materia di rapporto di lavoro, sia pubblico che privato, si è affermato che colui che è tenuto alla prestazione lavorativa in determinati casi possa rifiutare la stessa allorchè tale rifiuto si caratterizzi come forma di legittimo esercizio di autotutela del lavoratore a fronte di inadempimenti da parte del datore di lavoro, e quindi nella stessa ottica di cui all'art. 1460 c.c., (Cass. 03/05/2004, n. 8364), segnatamente quando tali inadempimenti investano diritti inviolabili dell'uomo e, quindi, costituzionalmente garantiti (ad es. quello alla salute: Cass. 17/12/1997, n. 12773).
L'autotutela costituita dal rifiuto della prestazione lavorativa in presenza della violazione di diritti fondamentali del soggetto, che deve effettuare la prestazione lavorativa, costituisce una cosiddetta "autotutela passiva reattiva". Essa consiste in un comportamento di dichiarata inadempienza, che sarebbe in sè illegittimo (o addirittura illecito), ma che si assume legittimato dall'accertata inadempienza della controparte.
Esso è in funzione della reciprocità su cui i rapporti sinallagmatici sono imperniati.
La disciplina dei poteri di autotutela discende dai precetti sanzionatori che si inquadrano, mercè il loro carattere permissivo e senza possibilità di estensione analogica, nell'ordine statale costituzionale e comunitario. Tali precetti, in previsione di date circostanze, autorizzano il singolo a tenere un comportamento che solo in quelle circostanze riconosce legittimo, e che costituisce la difesa di un suo diritto minacciato.
Le varie forme di iniziativa in cui l'autotutela (intesa come difesa extragiudiziale) può legittimamente esplicarsi sono oggetto di poteri-mezzi, coordinati al diritto da tutelare. Essa, quindi, presuppone anzitutto che sussista la posizione soggettiva di titolarità del diritto tutelato (anche se in casi determinati l'ordinamento riconosce la possibilità di agire per la tutela di un diritto di altro soggetto) ed inoltre che tale autotutela si ispiri a crìteri di idoneità e di proporzionalità tra la minaccia al diritto e la reazione.
Se il diritto minacciato è un diritto inviolabile (e come tale costituzionalmente garantito) del soggetto tenuto alla prestazione lavorativa (in senso ampio), non vi è dubbio che il titolare dello stesso possa espletare l'autotutela e che questa possa manifestarsi anche attraverso il rifiuto della prestazione lavorativa, allorchè tale rifiuto è idoneo ed adeguato ad evitare la lesione del diritto fondamentale oggettivamente minacciato, lesione non altrimenti evitabile (ovvero evitabile in modo eccessivamente oneroso).
            Sulla base di quanto sin qui esposto è chiaro che, se queste motivazioni venissero condivise, la Corte d’Appello dovrebbe ritenere pienamente fondati il SECONDO ed il DECIMO motivo di appello.
            Questo, tuttavia, non sarebbe sufficiente per una pronuncia di assoluzione, dovendo la Corte esaminare se il “rimedio” dell’aula speciale, allestita senza crocifisso per il Tosti, fosse conforme a legge e fosse idoneo a garantire il rispetto del principio di laicità ed il rispetto dei suoi diritti inviolabili di libertà religiosa, di coscienza e di eguaglianza e non discriminazione.
            L’appellante rappresenta di aver affrontato queste questioni in primo grado e, anzi, di averne fatto oggetto di apposita memoria scritta presentata all’udienza dibattimentale del 10.1.2008 (quinto motivo, pagine 76-80): il Tribunale non si è però pronunciato, perché le ha ritenute assorbite dalla motivazione principale, e cioè che l’imposizione del crocifisso -ancorché in ipotesi lesiva del principio di laicità e dei diritti inviolabili del magistrato- non autorizzasse il Tosti a rifiutare l’esecuzione di atti di ufficio per la necessità di “autotutelare” i propri diritti.
            Questa omissione motivazionale -che ha poi determinato la mancata proposizione di specifici motivi di gravame- non preclude alla Corte -ma anzi gli impone- di esaminare la questione, trattandosi di considerazioni ed argomenti che risultano dagli atti di causa e che non sono contestati. Sul punto si richiama Cass. pen., Sez. 1, sent. n. 2390 del 11/02/1997-12/03/1997, De Luca, che così ha statuito:
Ai fini della individuazione dell'ambito di cognizione attribuito al giudice di secondo grado -limitato, in forza del primo comma dell'art.597 cod. proc. pen., "ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti"- per punto della decisione deve ritenersi quella statuizione della sentenza che può essere considerata in modo autonomo, non anche le argomentazioni esposte in motivazione, perché queste riguardano il momento logico e non già quello decisionale del procedimento. Ne deriva che il giudice dell'impugnazione può, in ordine alla parte della sentenza autonomamente considerabile che riguarda una specifica questione decisa in primo grado, pervenire allo stesso risultato cui è giunto il primo giudice anche sulla sola base di considerazioni ed argomenti diversi da quelli considerati dal primo giudice, o di dati di fatto non contestati e risultanti dagli atti, anche se non valutati in primo grado, senza con ciò violare il principio dell'effetto parzialmente devolutivo dell'impugnazione.
            D’altro canto l’imputato ha -e non lo nasconde- un interesse sostanziale alla decisione di questa questione, perché un’eventuale assoluzione penale gli consentirebbe di proporre un’istanza di revisione della condanna disciplinare alla rimozione, per la quale ha peraltro inoltrato ricorso alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo per gli stessi motivi che qui di seguito si espongono.

Ø    QUARTO PUNTO: Il dr. L. Tosti si è legittimamente rifiutato di tenere le udienze in una singola aula, allestita per la sua persona senza crocifisso, perché ha ritenuto che questo “rimedio”:
1°)              violava il principio di legalità sancito dagli artt. 97 e 101 della Costituzione;
2°)              proveniva da un soggetto (il presidente del Tribunale) che non aveva alcuna potestà di disapplicare la circolare ministeriale fascista che, peraltro, lui stesso aveva dichiarato ancora vigente e inderogabile;
3°)              violava gli articoli 9, 1, 13, 17, 18, 35, 53 e 58 della Conv. per la salv. dei dir. dell’uomo;
4°)              violava il diritto di libertà religiosa del magistrato;
5°)              violava il diritto all’eguaglianza e non discriminazione religiosa del magistrato;
6°)              non risolveva affatto il rispetto del principio supremo di laicità e, pertanto, violava il diritto di libertà di coscienza del magistrato;
7°)              infine, era assolutamente inidoneo allo scopo, perché le udienze collegiali e quelle penali dovevano comunque essere tenute nelle aule ufficiali, che erano rimaste addobbate coi crocifissi.

            Queste le argomentazioni che si adducono per ciascuno di questi 7 punti.
1°)          PRIMO MOTIVO: Il “rimedio” dell’aula-ghetto attuato dal Presidente del Tribunale violava il principio di legalità sancito dagli artt. 97 e 101 della Costituzione: del tutto giustificato fu dunque il rifiuto del Tosti di accettare una proposta illegale.
Argomentazioni a sostegno
            L ‘OBBLIGO” di esporre i crocifissi nella aule giudiziarie è imposto da una circolare di portata GENERALE del ministro fascista, che gli attuali Ministri di Giustizia repubblicani hanno ritenuto ancora vigente ed obbligatoria, così come peraltro l’ha ritenuta vigente ed obbligatoria il Presidente del Tribunale di Rimini che si è rifiutato di aderire alla richiesta del Tosti di rimuoverli. Dal momento che gli articoli 97 e 101 della Costituzione sanciscono il principio di legalità, in virtù del quale “la legge è eguale per tutti” e va applicata nei confronti di tutti, senza deroghe o privilegi, è assolutamente illecito che il Presidente del Tribunale, pur essendo carente di qualsiasi potestà, abbia deliberatamente violato la circolare in questione, allestendo una singola aula senza crocifisso allo scopo deviato -e degno di una repubblica delle banane- di eludere la richiesta del Tosti di rimuovere i crocifissi da tutte le aule.
Questo comportamento è sintomo di arroganza del Potere intollerabile: non è infatti ammissibile che il Presidente del Tribunale abbia dapprima affermato che la richiesta di rimozione dei crocifissi del Tosti non poteva essere accolta “perché la circolare era ancora vigente” -e che tale sia stata considerata dal Ministro- e che poi l’abbia disapplicata per una “sola” aula, allo scopo di eludere in modo contraddittorio e capzioso la richiesta di rimozione generalizzata. La Costituzione italiana sancisce infatti il principio della “legalità”, in virtù del quale gli atti normativi GENERALI si applicano ai tutti i cittadini senza distinzione alcuna di razza, sesso, religione, condizioni sociali etc.: non è dunque consentito che coloro che sono tenuti ad applicare e/o a garantire l’applicazione degli atti GENERALI possano effettuare “eccezioni” o “deroghe” -di favore o di sfavore- per casi singoli.
E’ ancor più intollerabile che la disapplicazione ad personam della circolare sia stata effettuata da un magistrato della Repubblica italiana -con la compiacente e connivente inerzia del Ministro di Giustizia- allo scopo deviato di eludere problematiche che, semmai, dovevano essere risolte in via generale, come era ed è imposto dalla portata GENERALE del provvedimento amministrativo. Questa arroganza del Potere poteva essere giustificata nella Roma papalina dell’800 -dove il Marchese Onofrio del Grillo dipinto da Mario Monicelli poteva permettersi di sbeffeggiare le vittime degli abusi del potere con la battuta “io so io e voi non siete un cazzo”- ma non può esserlo nell’attuale Repubblica, che è fondata sui principi di legalità e di eguaglianza dei cittadini di fronte alla LEGGE. Pertanto, delle due l'una: o il Crocifisso era da ritenere legittimo -ma in questo caso non era legittimo fare un'aula apposta per Tosti senza crocifisso- oppure era da ritenere illegittimo, ma in questo caso doveva essere rimosso da tutti i tribunali, e non da una sola aula del Tribunale di Camerino.
            C’è anche da soggiungere che il Ministro ha disposto un’ispezione a carico del Tosti perché questi aveva “osato” rimuovere un crocifisso, sicché è inaccettabile che il Presidente del Tribunale abbia potutto “tranquillamente” rimuovere un crocifisso senza incappare nelle stesse ispezioni disciplinari da parte del Ministro di giustizia: se un comportamento è illecito -o comunque non è consentito- la sua repressione deve essere UGUALE per tutti, e non legata al particolare “spessore” del soggetto che lo pone in essere. Non dovrebbero esistere i magistrati di serie A, come il dr. Aldo Alocchi, e i magistrati di serie B, come il dr. Tosti.
            Va anche soggiunto che l'inderogabilità dell'esposizione del crocifisso in tutte le aule è stata ulteriormente proclamata dall'Avvocatura di Stato nel giudizio che il Tosti ha promosso dinanzi al TAR delle Marche per chiederne la rimozione.
            In ogni caso, è risolutiva la circostanza che la Cassazione penale, Sez. III, si sia pronunciata specificamente su questa questione con l'ordinanza n. 41.571, pubblicata il 18.11.2005, con la quale ha dichiarato inammissibile l’istanza di rimessione per legittima suspicione sollevata da tale Adel Smith per la presenza dei crocifissi nelle aule giudiziarie del tribunale di Verona, dove stava subendo un processo penale per “vilipendio della religione cattolica”.
            Con questa ordinanza, la Cassazione ha affermato che “è notorio... che la esposizione del crocefisso nelle aule giudiziarie non è limitata al Tribunale di Verona, e neppure agli uffici giudiziari di quella città, ma si estende agli uffici di tutto il territorio nazionale; in piena conformità, del resto, al contenuto della menzionata fonte ministeriale, che indirizzava l'obbligo di esporre il crocefisso a tutti i capi degli uffici giudiziari nazionali”. Da questo presupposto la Corte ha giustamente dedotto che “non spetta al giudice, e tanto meno al giudice di legittimità competente ex artt. 46, comma 3, e 48 c.p.p. il compito di disapplicare una circolare amministrativa che attiene a una materia qual è quella della manutenzione degli uffici giudiziari e dei loro arredi, assolutamente estranea alle attribuzioni giurisdizionali della magistratura”.
            Pertanto l’appellante si chiede -e chiede alla Corte- quali siano i “motivi” per i quali queste espresse pronunce della Cassazione siano state disattese e disapplicate per il suo caso. L’appellante si chiede, in particolare, quali siano le giustificazioni giuridiche dell’“aula-ghetto” che è stata allestita dal Presidente del Tribunale di Rimini “senza crocifisso” -con la compiacente connivenza del Ministro di Giustizia- in aperta violazione della circolare che il Presidente del Tribunale ed il Ministro hanno “ritenuto tutt’ora in vigore”. Per caso si tratta -ci si chiede- delle stesse “giustificazioni” addotte dal Marchese Onofrio del Grillo, cioè del “principio giuridico” del “Noi siamo noi e tu non conti un cazzo”?
           
2°)          SECONDO MOTIVO: Il Presidente del Tribunale e il Presidente della Corte d’appello erano in ogni caso privi della potestà o della legittimazione di disapplicare la circolare, anche per una sola aula.
Argomentazioni a sostegno
            Come sopra esposto, la Corte di Cassazione ha sancito nell’ordinanza sopra menzionata che “non spetta al giudice... il compito di disapplicare una circolare amministrativa che attiene a una materia qual’ è quella della manutenzione degli uffici giudiziari e dei loro arredi, assolutamente estranea alle attribuzioni giurisdizionali della magistratura”. In effetti, dal momento che la circolare è stata emessa dal Ministro fascista e non risulta che essa contempli e attribuisca ai magistrati una qualche potestà di deroga o di disapplicazione ad personam, si deve negare che il dr. Alocchi potesse derogare all’applicazione della circolare, seppur per una singola aula. Una siffatta deroga non poteva essere posta in essere neppure dal Ministro di Giustizia, dal momento che i principi costituzionali di legalità, di eguaglianza e di buona e imparziale amministrazione debbono ritenersi vigenti e validi “anche” per i ministri.

3°)          TERZO MOTIVO: Il rimedio dell’aula-ghetto violava gli articoli 9, 1, 13, 17, 18, 35, 53 e 58 della CEDU.
Argomentazioni a sostegno
L’art. 1 della Convenzione sancisce a carico degli Stati contraenti l’ “obligation de respecter les droits de l'homme”, riconoscendo a “à toute personne relevant de leur juridiction les droits et libertés définis au titre I de la présente Convention”.
L’articolo 13 della Convenzione attribuisce le “droit à un recours effectif” a “toute personne dont les droits et libertés reconnus dans la présente Convention ont été violés....... alors même que la violation aurait été commise par des personnes agissant dans l'exercice de leurs fonctions officielles”.
L’art. 6 sancisce che “toute personne a droit à ce que sa cause soit entendue équitablement, publiquement et dans un délai raisonnable, par un tribunal indépendant et impartial, établi par la loi, qui décidera, soit des contestations sur ses droits et obligations de caractère civil.....”.
L’articolo 17 della Convenzione vieta agli Stati l’“interdiction de l'abus de droit”, e cioè dispone che “aucune des dispositions de la présente Convention ne peut être interprétée comme impliquant pour un Etat, un groupement ou un individu, un droit quelconque de se livrer à une activité ou d'accomplir un acte visant à la destruction des droits ou libertés reconnus dans la présente Convention ou à des limitations plus amples de ces droits et libertés que celles prévues à ladite Convention.
Analogamente, l’articolo 18 (Limitation de l'usage des restrictions aux droits) dispone che “les restrictions qui, aux termes de la présente Convention, sont apportées auxdits droits et libertés ne peuvent être appliquées que dans le but pour lequel elles ont été prévues.
L’articolo 35 della Convenzione stabilisce che “la Cour ne peut être saisie qu'après l'épuisement des voies de recours internes.......
L’articolo 53 della Convenzione sancisce che “aucune des dispositions de la présente convention ne sera interprétée comme limitant ou portant atteinte aux droits de l'homme et aux libertés fondamentales qui pourraient être reconnus conformément aux lois de toute Partie contractante ou à toute autre Convention à laquelle cette Partie contractante est partie.”
Infine, l’art. 58, par. 1°, della Convenzione dispone che “Tout Etat peut, au moment de la ratification ou à tout autre moment par la suite, déclarer, par notification adressée au Secrétaire général du Conseil de l'Europe, que la présente Convention s'appliquera, sous réserve du paragraphe 4 du présent article, à tous les territoires ou à l'un quelconque des territoires dont il assure les relations internationales.
            Dal tenore delle surrichiamate disposizioni si evince che gli Stati contraenti sono obbligati a rispettare i diritti e le libertà fondamentali degli individui su tutto il territorio nazionale – e non su porzioni limitate di esso– e che qualsiasi persona, i cui diritti e libertà siano stati violati, ha il diritto di presentare un ricorso ad una autorità interna e a un tribunale per ottenere una tutela “effettiva”, cioè una tutela che non sia parziale e limitata nello spazio o nel tempo.
            Dal tenore di tali norme si evince, altresì, che gli Stati contraenti hanno l’obbligo di garantire il rispetto dei diritti umani in modo pieno e che, dunque, non possono imporre limitazioni o restrizioni superiori a quelle previste dalla Convenzione.
            Alla luce di questa normativa Convenzionale il “rimedio” dell’aula-ghetto si profila del tutto illegittimo perché, a fronte della conclamata lesione dei diritti inviolabili del Tosti -indotta dalla presenza generalizzata dei crocifissi in tutte le aule- né il Ministro di Giustizia né, tantomeno, il Presidente del Tribunale, potevano optare per il “rimedio” “alternativo” di confinare il dr. Tosti in una singola aula, senza crocifisso, obbligandolo ad espletarvi le mansioni lavorative, in regime di sostanziale aphartheid, sino al pensionamento. In realtà le norme sopra citate imponevano di garantire al dipendente il rispetto dei suoi diritti umani in tutte le aule dell’ufficio di appartenenza e in tutte le aule degli altri uffici giudiziari, sicché doveva semmai essere ripristinata la situazione di legalità rimuovendo i crocifissi da tutte le aule, e non.... rimuovendo la “vittima” -cioè il magistrato- per confinarlo e “ghettizzarlo” in una singola aula, quasi si trattasse di un appestato!
            Sostenere che uno Stato, in caso di conclamata violazione di diritti umani, possa accordare alla vittima una tutela limitata nello spazio -lasciando cioè permanere la lesione dei suoi diritti inviolabili in tutti gli altri “spazi” del territorio nazionale cui egli ha legittimo diritto di accesso e di frequentazione- significa legittimare, innanzitutto, la violazione dell’art. 1 della Convenzione, che impone agli Stati l’obbligo di rispettare i diritti umani sull’intero territorio nazionale; ma significa anche accordare alle “vittime” una tutela assolutamente parziale e inidonea, violando così gli articoli 6, 13, 17, 18, 35, 53, che impongono agli Stati di accordare una tutela effettiva dei diritti e di non sottoporli a restrizioni maggiori di quelle consentite dalla Convenzione.
            Se si opinasse diversamente, si perverrebbe a conseguenze grottesche.
            Ad esempio, se nelle aule giudiziarie fosse imposta l’affissione di targhe contenenti gli epiteti ingiuriosi e razzisti formulati dalla Chiesa Cattolica contro gli ebrei -e cioè che “Gli ebrei sono una razza dannata, deicidi, usurai e ruffiani”- si potrebbe forse ipotizzare che sia “lecito” il “rimedio” di confinare e ghettizzare i giudici ebrei in aule prive delle targhe ingiuriose, piuttosto che rimuoverle da tutte le aule per garantire, come imposto dalla Convenzione e dalla Costituzione, il rispetto pieno dei loro diritti? Ovviamente no, perché questo sconcio “rimedio” lascerebbe persistere la lesione dei diritti in tutte le altre aule giudiziarie, alle quali i giudici ebrei -al pari dei colleghi della superiore razza “cattolica”- avrebbero legittimo diritto di accesso e di frequentazione.
            Le stesse identiche considerazioni debbono dunque valere per il dr. Tosti che, al pari di qualsiasi altro dipendente dell’Amministrazione giudiziaria, aveva il sacrosanto diritto di frequentare e di usare tutte le aule del Tribunale di Camerino e, all’occorrenza, qualsiasi altra aula degli altri uffici giudiziari regionali e nazionali, al fine di adempiere le proprie mansioni lavorative e di esercitare le proprie funzioni giurisdizionali nel pieno rispetto dei suoi diritti inviolabili.

4°)          QUARTO MOTIVO: Il rimedio dell’aula-ghetto violava il diritto di libertà religiosa del magistrato: il rifiuto di accettarlo è dunque giustificato.
Argomentazioni a sostegno
            L’appellante ribadisce che l’imposizione di tenere le udienze in un’unica aula, allestita appositamente per la sua persona e a causa delle sue convinzioni religiose e di coscienza “dissidenti” -nella quale era assente il crocifisso ma gli si vietava l’esposizione della menorà- violava il suo diritto di libertà religiosa sia sotto il profilo negativo che sotto quello positivo. Da un lato, infatti, l’obbligo di tenere le udienze in un’aula “speciale”, allestita per la sua persona a causa del suo credo “dissidente”, rendeva manifesti e pubblici i suoi convincimenti religiosi non cattolici; dall’altro, poi, il divieto di esporre la menorà ledeva il suo diritto di libertà religiosa positivo, perché gli veniva ingiustificatamente negato il pari diritto di esercitare le funzioni giurisdizionali sotto la tutela religiosa del proprio simbolo, diritto che veniva invece accordato ai cattolici con l’esposizione generalizzata dei crocifissi in tutte le altre aule. Del tutto giustificato, dunque, fu il rifiuto del Tosti di tenere le udienze in un’ aula senza il crocifisso -o addirittura nel suo ufficio- perché il rifiuto fu necessitato dall’esigenza di autotutelare il diritto inviolabile di libertà religiosa negativa e positiva.
            Secondo la costante giurisprudenza della CEDH, infatti, la libertà di religione, consacrata dall’articolo 9 della Convenzione, “comporta anche un aspetto negativo, ossia il diritto dell’individuo di non essere costretto a manifestare la propria religione o le proprie convinzioni religiose e di non essere obbligato ad agire in un modo tale che si possa trarre la conclusione che esso ha – o non ha–  tali convincimenti...... le autorità statali non hanno il diritto di intervenire nel dominio della libertà di coscienza dell'individuo e ricercare le sue convinzioni religiose, oppure di obbligarlo a manifestare le sue convinzioni circa la divinità. Ciò è ancor più vero nel caso in cui una persona è obbligata ad agire in questo modo al fine di svolgere certe funzioni, in particolare durante un giuramento (CEDU, Grande camera, 21 febbraio 2008, ric. 19516/06, Alexandridis c. Grecia; CEDU, sent. 3.6.2010, Dimitras et autres c. Grèce; CEDU, Kokkinakis c. Grecia, sentenza del 25 maggio 1993, serie A n. 260– A p. 17, § 31; Buscarini e altri c. San Marino [GC], n. 24645/94, § 34, CEDU 1999– I).
            Nel caso di specie, confinare un giudice in un’aula “speciale” senza crocifisso (peraltro di un piccolo tribunale) allo scopo di “soddisfare” surrettiziamente il suo diritto di non essere costretto a subire l’imposizione di un simbolo che, invece, seguitava a rimanere esposto in tutte le altre aule, significava costringerlo a palesare e manifestare, coram populo, di non essere cristiano, obbligarlo cioè a manifestare i suoi convincimenti religiosi al fine di sottrarlo ad una imposizione di carattere religioso: né più né meno di quanto accade a chi è costretto a rifiutarsi di giurare sul vangelo o in nome di un qualche dio (in entrambe queste fattispecie la CEDH ha dichiarato sussistente la violazione del diritto di libertà religisa sotto il profilo negativo).
            L’appellante sostiene che il Presidente del Tribunale, allestendo un’aula “speciale” “senza crocifisso”, allo scopo di porre rimedio ai suoi convincimenti religiosi “dissidenti”, ha creato una manifesta “anomalia” nell’allestimento delle aule e nella conduzione delle udienze, perché in tutte le altre aule del tribunale di Camerino e in tutte le aule degli altri uffici giudiziari italiani le udienze venivano invece tenute dagli altri magistrati nelle aule “ufficiali”, addobbate col crocifisso. Questa evidente anomalia faceva sì che venissero permanentemente pubblicizzati i convincimenti religiosi del giudice Tosti, che era costretto a tenervi le udienze “perché religiosamente dissidente”, stigmatizzandolo agli occhi degli astanti (cancellieri, avvocati, colleghi, personale ausiliario e pubblico) come “il giudice anticrocifisso”: un nomignolo dispregiativo che, non a caso, gli è stato appioppato in modo oramai indelebile.
            Questa restrizione del diritto “negativo” di libertà religiosa non era minimamente elisa o attenuata dall’éscamotage di accordare anche ai colleghi del Tosti la facoltà di utilizzare quell’aula “speciale”, perché a nessuno degli astanti poteva sfuggire che, mentre i colleghi del Tosti tenevano abitualmente le udienze in tutte le aule del Tribunale -oltre che nell’aula “neutra” dedicata al Tosti- costui era invece costretto, a causa dei suoi convincimenti religiosi “dissidenti”, a tenerle esclusivamente nell’aula “ghetto” che, peraltro, era stata allestita senza crocifisso per la sua persona, e non per i suoi colleghi. L’anomalia era ancor più marcata per l’ingiunzione di tenere le udienze nel suo personale ufficio, perché a nessuno sarebbe sfuggito che SOLO il Tosti teneva le udienze nel suo ufficio per motivi di dissidenza religiosa, mentre gli altri colleghi utilizzavano le aule ufficialmente deputate alla trattazione delle udienze e, per converso, giammai avrebbero potuto utilizzare l’ufficio personale del Tosti.
Queste anomalie si sarebbero verificate anche se l’Amministrazione avesse optato per “rimedi” alternativi all’aula ghetto, quali ad esempio quello di coprire i crocifissi con teli o di rimuoverli temporaneamente dalle pareti ogni qual volta l’udienza doveva essere tenuta dal Tosti, oppure di bendare gli occhi del giudice Tosti ogni qual volta questi teneva udienza sotto l’incombenza del crocifisso: anche in questi casi, infatti, i “rimedi” posti in essere dall’Amministrazione al fine di “occultare” la visione del crocifisso avrebbero reso palesi e pubblici i convincimenti religiosi “dissidenti” del Tosti, ledendo il suo diritto negativo di libertà religiosa. Se poi si fosse optato per il rimedio estremo di “accecare” il dr. Tosti per impedirgli di “vedere” qualsiasi crocifisso, si sarebbe realizzata anche la lesione di altri diritti inviolabili.
            Riepilogando, il rifiuto del Tosti di tenere le udienze nell’aula-ghetto fu legittimo, perché giustificato dall’esigenza di tutelare il suo diritto di libertà religiosa sotto il profilo negativo.
            Ma non è tutto. Dal momento, infatti, che al Tosti fu vietato di esporre la menorà nella sua “aula-ghetto”, è altrettanto innegabile che questo divieto ingiustificato lese il suo diritto di libertà religiosa anche sotto il profilo positivo: in tutte le altre aule, infatti, si consentiva ai giudici cattolici di lavorare e di esercitare le funzioni giurisdizionali sotto la tutela simbolica del “loro” crocifisso, mentre eguale diritto veniva ingiustificatamente negato al Tosti nella sua aula-ghetto.
           
5°)          QUINTO MOTIVO: Il “rimedio” dell’aula-ghetto violava il diritto all’eguaglianza e non discriminazione religiosa del magistrato, sicché il rifiuto di accettarla fu giustificato.
Argomentazioni a sostegno
            L’appellante ribadisce che l’ingiunzione di tenere le udienze in un’aula speciale, dedicata alla sua persona “senza crocifisso” per motivi di dissidenza religiosa, integrava una palese discriminazione religiosa, vietata dalla Costituzione, vietata da norme di legge specifiche e vietata, infine, dagli art. 14 e 9 della CEDU.
            E’ noto che l’organizzazione dell’Amministrazione giudiziaria italiana prevede che i giudici trattino le cause in aule di udienza che si contraddistinguono tra di loro solo in relazione alla destinazione oggettiva d’uso, cioè al tipo di controversie che in esse vengono trattate. Ad esempio, vi sono aule destinate alla trattazione di cause penali (che sono di regola attrezzate con apparecchiature per la stenotipia e la registrazione), aule destinate alla trattazione delle cause civili collegiali, aule destinate alle udienze civili istruttorie, aule destinate alle cause di lavoro e via dicendo.
Di norma, sia in base all’organizzazione degli uffici che in base alle norme processuali che disciplinano lo svolgimento dei processi, tutti i giudici (come peraltro tutto il personale dipendente) hanno libero accesso a tutte le aule nelle quali sono chiamati ad espletare le loro mansioni: non esiste, per contro, alcuna norma o alcuna prassi che “riservi” l’uso di una o più aule a giudici di una particolare religione, razza, sesso, etnia od altro. Al più esistono cessi destinati agli uomini e cessi destinati alle donne.
Nel caso di specie il Presidente del Tribunale, anziché ripristinare la legalità, rimuovendo i crocifissi da tutte le aule, ha preteso di obbligare il Tosti a tenere le udienze in un’aula speciale, senza crocifisso, escludendolo dunque dal diritto di usare e frequentare tutte le altre aule del tribunale di Camerino e degli altri uffici giudiziari.
L’appellante si è rifiutato di accettare questa imposizione perché l’ha ritenuta “ghettizzante”, cioè lesiva del suo diritto di non discriminazione religiosa: questo sconcio “rimedio”, infatti, finiva per confinarlo in un’unica aula, escludendolo dall’uso e dalla frequentazione delle altre 50.000 aule circa che, invece, restavano nella piena disponibilità ed uso dei colleghi cattolici.
            Questa palese disparità di trattamento, fondata sul diverso credo del Tosti, integrava un intollerabile tentativo di “ghettizzazione”: creare infatti –per motivi legati ai differenti convincimenti religiosi dei dipendenti– “divisioni”, “ghetti” e “riserve” all’interno di un’Amministrazione statale, è una condotta criminale e incompatibile con le norme costituzionali e convenzionali che vietano discriminazioni nel godimento di diritti fondamentali.
            L’appellante ribadisce che costringere un singolo magistrato ad espletare le sue mansioni in una sola aula dell’ufficio giudiziario nel quale svolge le sue funzioni –escludendolo dalla frequentazione e dall’uso di tutte le altre aule –  integra una limitazione del diritto di circolare liberamente all’interno dell’ufficio e di frequentare ed utilizzare, altrettanto liberamente, tutte le “altre” aule. Dal momento che questa grave limitazione è stata disposta per motivazioni religiose -e cioè perché i convincimenti del Tosti sono “dissidenti” rispetto a quelli “cattolici” espressi dai crocifissi- è ineluttabile che si sia perpetrata una discriminazione nel godimento del suo diritto di libertà religiosa o, in subordine, in quello di libertà di circolazione, garantito dall’art. 4 della CEDU e dall’art. 2 del protocollo n. 4. Del tutto legittimamente, dunque, il Tosti si rifiutò di accettare questa sconcia ed offensiva proposta.
            Assolutamente priva di rilievo è la circostanza che il Presidente del Tribunale abbia disposto che “l'aula attrezzata senza crocifisso” fosse “messa a disposizione anche di quanti volessero utilizzarla”. Questa “motivazione” è sconcertante, perché la discriminazione non poteva essere elisa dall’éscamotage furbesco di consentire l’uso dell’aula speciale “anche” ai colleghi del Tosti di “superiore razza cattolica”: la disparità di trattamento scaturiva, infatti, sia dalla circostanza che i colleghi dell’appellante potevano utilizzare liberamente tutte le aule giudiziarie – mentre al dr. Tosti ne veniva precluso l’uso a causa della permanenza del crocifisso– sia dalla circostanza che al ricorrente veniva comunque vietato di esporre la menorà nella sua aula-ghetto, mentre il crocifisso veniva esposto in tutte le altre aule.
            Se si condividesse malauguratamente questa sconcia motivazione, sarebbe ancor oggi lecito ripristinare i criminali ghetti nei quali furono confinati dalla Chiesa Cattolica Apostolica Romana, sin dal 1555, gli ebrei: sarebbe infatti sufficiente -per escludere le connotazioni discriminatorie- che gli attuali Governanti della Repubblica Pontificia Italiana abbiano l’accortezza di sancire che nei novelli ghetti possano fissare la dimora o la residenza, se lo vogliono, anche i soggetti appartenenti alla superiore razza ariano-cattolica! Il che ci sembra francamente azzardato.
            Si rimarca, infine, che la sconcia “proposta” di tenere le udienze in un’aula senza crocifisso lasciava comunque persistere la violazione del divieto di discriminazione religioso sotto il profilo positivo: mentre, infatti, ai dipendenti cattolici seguitava a venir accordato il diritto di vedere esposti i crocifissi nelle altre aule e, dunque, di manifestare pubblicamente la loro fede e di connotare di confessionalità cattolica l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, all’appellante veniva negato lo stesso diritto di esporre la menorà ebraica nelle altre aule -o quanto meno nella “sua” aula speciale- cioè di manifestare la propria fede e di connotare l’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali di confessionalità ebraica.
            Si rimarca che secondo il diritto interno e secondo la costante giurisprudenza della CEDH la discriminazione, vietata dall’art. 14, si realizza nel momento in cui un diritto fondamentale, garantito dalla Convenzione, viene riconosciuto ad alcuni e viene invece negato –senza che sussista alcun motivo che giustifichi la disparità di trattamento– ad altri che si trova nelle stesse condizioni soggettive ed oggettive. Il che ricorre, all’evidenza, nel caso di specie, non avendo alcun rilievo la circostanza che i crocifissi vengano esposti nelle aule giudiziarie a spese dei Comuni, e non a spese dei cattolici: questa circostanza, infatti, non elide la discriminazione ma, semmai, l’aggrava.
            Nel caso di specie è indubbio che la discriminazione nel godimento del diritto di libertà religiosa si fonda sui convincimenti religiosi “dissidenti” del dipendente Luigi Tosti: essa integra pertanto una violazione degli articoli 9 e 14 della Convenzione, perché non esiste alcun valido motivo che giustifichi una siffatta disparità di trattamento nel godimento del diritto di libertà religiosa.
            D’altro canto, dal momento che il Ministro di Giustizia ha sostenuto -anche dinanzi al TAR delle Marche- che “l’ostensione del crocifisso cattolico nelle pubbliche aule di giustizia è un atto di manifestazione di fede che deve essere tollerato dai non credenti e da chi professa altra religione, perché il crocifisso è un simbolo “passivo” che non obbliga nessuno a credere o a compiere atti di culto”, anche l’ostensione della menorà ebraica doveva essere autorizzata per gli stessi motivi, e cioè perché si trattava di un “atto di manifestazione di fede” che doveva essere tollerato dai non credenti e da “cattolici”: anche la menorah, infatti, è un “simbolo passivo che non obbliga i cattolici a credere ad un’altra ideologia religiosa né a compiere atti di culto”.
            Lo svolgimento dei fatti dimostra che la Chiesa Cattolica e i cattolici italiani hanno un concetto assai strano della “tolleranza”: non tengono infatti conto che la tolleranza implica il rispetto reciproco tra le fedi diverse, e non il rispetto “a senso unico” nei confronti della sola loro fede!

6°)          SESTO MOTIVO: Il rimedio dell’aula-ghetto non risolveva affatto il rispetto del principio supremo di laicità e violava pertanto il diritto di libertà di coscienza del magistrato.
Argomentazioni a sostegno
            L’appellante ribadisce che la rimozione del crocifisso da una sola aula non garantiva affatto il rispetto del principio di laicità e, quindi, il rispetto del suo diritto di libertà di coscienza legato all’osservanza di quel supremo principio: infatti, come sentenziato dalla Cassazione penale nell’arresto n. 4273/2000, relativo ai crocifissi nei seggi elettorali, “ogni violazione del principio di laicità.....in qualsivoglia seggio .... non può non essere avvertita da una coscienza informata a quel principio come violazione di quel bene nella sua interezza, indipendentemente dal luogo in cui si verifichi, cosicché non è possibile attribuire rilevanza al fatto che casualmente la violazione non si verifichi nel seggio di destinazione”.

7°)          SETTIMO MOTIVO: Il rimedio dell’aula-ghetto era assolutamente inidoneo allo scopo prefisso, perché le udienze collegiali e quelle penali dovevano comunque essere tenute dal Tosti nelle aule ufficiali, che sono rimaste addobbate coi crocifissi.
Argomentazioni a sostegno
            Come sempre eccepito dal Tosti, non è affatto vero che l’aula senza crocifisso gli consentisse di celebrarvi tutte le udienze di cui era onerato. Come risulta dalla stessa nota del Presidente della Corte di Appello di Ancona, quella singola aula avrebbe potuto consentirgli al più di celebrarvi solo le “udienze civili e di lavoro”, ma non le udienze collegiali civili e tutte le udienze penali che -come GIP titolare, come GUP e come giudice monocratico e collegiale supplente- avrebbe dovuto necessariamente celebrare, per motivi procedurali e tecnici, nelle aule fornite di attrezzature per la registrazione e la stenotipia. Di più: il magistrato Luigi Tosti era permanentemente coassegnato presso il Tribunale di Macerata e veniva applicato, periodicamente, presso il Tribunale del riesame di Ancona e, infine, poteva essere applicato presso qualsiasi altra sede giudiziaria italiana oppure esservi trasferito, d’ufficio o su sua domanda. Dunque, il rimedio dell’aula speciale si profilava del tutto inidoneo a garantirgli il rispetto del suo diritto di libertà religiosa, perché sarebbe stato costretto ad opporre altrettanti rifiuti e a manifestare, ogni volta, i propri convincimenti religiosi, con la prospettiva di essere “confinato” in altrettante oltraggiose “aule ghetto”, allestite in fretta e furia per il “giudice anticrocifisso”.
            Alla luce di queste circostanze di fatto, dunque, non si può giustificare la condanna penale che è stata inflitta al Tosti per le udienze penali e per quelle collegiali civili che egli non avrebbe potuto tenere nell’aula-ghetto e che, al contrario, avrebbe dovuto tenere in quelle “ufficiali” munite di crocifisso.

Ø    QUINTO PUNTO: L’imputato Tosti Luigi solleva, in via preliminare, una questione relativa al rispetto dei suoi diritti inviolabili durante la celebrazione del presente grado di appello davanti ai Giudici della Corte di L’Aquila, essendo ovviamente impensabile che egli accetti di subire la lesione dei suoi diritti di libertà di religione, di eguaglianza e non discriminazione e di rispetto dell’equo processo e del principio di laicità, cioè di essere giudicato da Giudici che non appaiono affatto imparziali a causa dell’imposizione generalizzata dei crocifissi: tanto più in un processo che lo vede imputato proprio per essersi rifiutato di subire la lesione degli stessi diritti e di ledere i principi supremi di laicità e di imparzialità e neutralità delle funzioni giurisdizionali a suo tempo espletate.
            Pertanto, l’appellante preannuncia ai Giudici della Corte che, non avendo provveduto a tutt’oggi il Ministro di Giustizia a rimuovere i crocifissi dalle aule giudiziarie italiane e non avendo neppure accolto la sua richiesta subordinata di esporre le menorà ebraiche a fianco dei crocifissi, egli sarà costretto (sempre che alla data del 5 luglio 2012 i crocifissi non siano stati rimossi o non siano state esposte le menorah ebraiche al loro fianco) a non presenziare all’udienza dibattimentale del 5 luglio 2012 -o comunque ad allontanarsi immediatamente dall’aula in caso di rigetto di questa istanza- nonché a revocare la nomina dei difensori di fiducia: e questo per l’indefettibile necessità di tutelare e di preservare, durante lo svolgimento del processo di appello, i propri diritti inviolabili di libertà religiosa, di coscienza, di eguaglianza e non discriminazione religiosa, nonché di equo processo da parte dei giudici aquilani, i quali non solo debbono essere -ma anche apparire- neutrali, imparziali e rispettosi del principio supremo di laicità.
            La pretesa di rispetto dei propri diritti inviolabili è il “minimo” che ci si possa attendere dall’imputato Luigi Tosti, se non altro in considerazione dell’esito grottesco del procedimento disciplinare che ne ha determinato la rimozione. Il dr. Tosti è stato infatti defenestrato dalla magistratura perché il Consiglio Superiore della Magistratura e le SS.UU. hanno ritenuto che -a fronte della conclamata lesione dei suoi diritti fondamentali di libertà religiosa e di coscienza, indotta dall’imposizione dei crocifissi- egli dovesse accettare di essere confinato in un’aula ghetto, senza crocifisso, in regime di sostanziale “apartheid” e sino al pensionamento. La Sezione disciplinare ha addirittura scelto la sanzione massima della “rimozione” per finalità di “prevenzione speciale”, e cioè per evitare che il dr. Tosti, una volta riassunto in servizio, potesse “pretendere” dal Ministro di Giustizia il rispetto dei suoi diritti inviolabili, e cioè che venissero rimossi i crocifissi che, a giudizio dello stesso CSM, ledevano il principio supremo di laicità e i suoi diritti inviolabili!! [1]
            L’epilogo grottesco è che il Tosti è stato eliminato dalla magistratura mentre i crocifissi -di cui è stata riconosciuta da parte della Cassazione e del CSM l’assoluta incompatibilità col principio di laicità e col rispetto dei diritti di libertà religiosa e di coscienza di tutti dipendenti- seguitano ad essere tranquillamente esposti nelle aule giudiziarie italiane.
            Alla luce di ciò nessuno può pensare o “sperare” che il dr. Luigi Tosti -nella sua nuova “veste” di imputato- sia così imbelle o così imbecille da accettare di subire remissivamente la lesione dei suoi diritti inviolabili e di essere processato da giudici partigiani che seguitano ad essere inseriti in un’Amministrazione giudiziaria smaccatamente connotata di cristinità cattolica. E nessuno può pensare o sperare che l’imputato Luigi Tosti rinunci a presenziare alle udienze con i “suoi” simboli -nella specie una croce uncinata- che sono altrettanto “passivi” come il crocifisso.
            In ogni caso, queste sono le motivazioni della richiesta di rimozione dei crocifissi.

A. LA NORMAZIONE INTERNA.
(1)               La Costituzione italiana garantisce ad ogni individuo la libertà di religione nell’art.19, disponendo che “tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.
(2)               La libertà di religione tutela anche i convincimenti dell’ateo e dell’agnostico, secondo quanto ha affermato la Corte costituzionale nelle sentenze n. 117 del 1979 e 334 del 1996.
In particolare, nella sentenza n. 334 del 1996, la Corte costituzionale ha ricordato che “gli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione garantiscono come diritto la libertà di coscienza in relazione all'esperienza religiosa. Tale diritto, sotto il profilo giuridico– costituzionale, rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall'art. 2. Esso spetta ugualmente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei o agnostici”.
(3)               L’art. 3 della Costituzione italiana garantisce l’eguaglianza dei cittadini senza distinzione di religione. La disposizione, infatti, stabilisce che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
(4)               La Costituzione, pur prendendo in esame separatamente, nell’art. 7, la posizione della Chiesa cattolica stabilisce, all’art. 8, primo comma, che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”, con una disposizione che si riferisce anche alla confessione cattolica.
(5)               Per completare la descrizione del quadro costituzionale va aggiunto che la Corte costituzionale italiana ha ripetutamente affermato che dal sistema delle norme costituzionali si ricava il principio di laicità, il quale, come è scritto nella sentenza n. 508 del 2000, è “un principio che assurge al rango di ‘principio supremo’ (sentenze nn. 203 del 1989, 259 del 1990, 195 del 1993 e 329 del 1997), caratterizzando in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse (sentenza n. 440 del 1995)”.
Tale principio di laicità – ha poi specificato ancora la Corte costituzionale – “implica equidistanza e imparzialità verso tutte le confessioni” (sentenza n. 327 del 2002; così anche sentenze nn. 508 del 2000, e 329 del 1997).
(6)               Sul piano della normazione ordinaria, l’art. 2 del decreto legislativo n. 216/2003, che ha recepito la direttiva 2000/78/CE del Consiglio dell’Unione Europea del 27 novembre 2000, sanziona poi qualsiasi forma di “discriminazione” da parte del datore di lavoro pubblico o privato, e cioè sia la “discriminazione diretta” (“quando, per religione...... una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga”) che quella “indiretta” (“quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione ...... in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”).
(7)               L’esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie non è prevista da alcuna legge né da alcun atto che abbia carattere di fonte del diritto. Infatti, l’ostensione del crocifisso nelle aule di giustizia avviene in forza della circolare del Ministro di grazia e giustizia del 29 maggio 1926, n. 2134/1867, priva di fondamento normativo.
(8)               La circolare, a firma del Ministro, recita quanto segue: “Prescrivo che nelle aule di udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all'effige di Sua Maestà il Re sia restituito il Crocefisso, secondo la nostra antica tradizione. Il simbolo venerato sia solenne ammonimento di verità e giustizia”.
(9)               Nell’ordinamento italiano le circolari sono istruzioni amministrative e non hanno natura di fonte del diritto. Quanto al periodo storico in cui è stata emanata, si evidenzia che la circolare risale all’epoca della dittatura fascista e si colloca in un contesto ordinamentale caratterizzato, ai sensi dell’art. 1 dello Statuto albertino del 1848, dal principio per cui la religione cattolica era la religione dello Stato.
(10)           Le successive circolari ministeriali, di epoca repubblicana, che si sono occupate dell’arredo delle aule giudiziari non menzionano il crocifisso.
Infatti, la direttiva del Ministro della giustizia Roberto Castelli del 28 novembre 2002 ha disposto che “nelle Aule di udienza, compresa l'Aula Magna (ove esistente), di tutti gli Uffici giudiziari, sia inserita la seguente dicitura: ‘La giustizia è amministrata in nome del popolo’”, dicitura che dovrà essere “apposta in modo visibile alle spalle del Giudice ed in stile uniforme agli arredi”.
La successiva circolare del Ministro della giustizia Clemente Mastella del 7 agosto 2006 ha disposto la rimozione della targa e la conservazione della sola dicitura “La legge è eguale per tutti”.

B. LA GIURISPRUDENZA INTERNA IN MATERIA DI CROCIFISSI NELLE AULE GIUDIZIARIE.

(11)           Benché il TAR per le Marche, investito dall’appellante della questione relativa alla legittimità dell’esibizione dei crocifissi nelle aule di giustizia, abbia rifiutato di occuparsene per asserito difetto di giurisdizione (punto contestato nell’appello tuttora pendente avanti al Consiglio di Stato), il problema dei crocifissi nei tribunali è stato incidentalmente affrontato dalla giurisprudenza ordinaria e dalle ricordate decisioni del Consiglio superiore della magistratura.
(12)           Già nella sentenza della Cassazione penale, sez. IV, 1° marzo 2000, n. 4273, la Suprema Corte aveva ritenuto che la circolare del Ministro di grazia e giustizia del 29 maggio 1926, n. 2134/1867, fosse incompatibile con il principio costituzionale di laicità quale profilo della forma di Stato delineata nella Costituzione repubblicana ed aveva considerato giustificato il rifiuto di un pubblico ufficiale [nella specie: di un Presidente di seggio elettorale] di svolgere l’ufficio fino a quando non fossero stati rimossi i crocifissi dalle sezioni elettorali. Nella decisione richiamata la Corte di cassazione sottolineava che “l'imparzialità della funzione di pubblico ufficiale è strettamente correlata alla neutralità (altro aspetto della laicità, evocato sempre in materia religiosa da corte cost. 15.7.1997, n. 235) dei luoghi deputati alla formazione del processo decisionale nelle competizioni elettorali, che non sopporta esclusivismi e condizionamenti sia pure indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del contenuto di fede, che ogni immagine religiosa simboleggia”. La stessa sentenza affermava che l’esposizione del crocifisso nell’ufficio, oltre a contrastare con il principio di laicità e con il dovere di imparzialità del funzionario, può ledere anche la libertà di coscienza del funzionario stesso.
(13)           Nell’ordinanza del Consiglio superiore della magistratura del 31 gennaio 2006, con la quale è stata disposta la sospensione cautelare del dr. Tosti, il collegio, dopo aver ricordato che la libertà di coscienza è espressamente riconosciuta anche dall’art. 9 della CEDU e dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, evidenzia, con richiamo testuale della giurisprudenza costituzionale, che tale libertà, specie se correlata all’espressione di convincimenti morali o filosofici (art. 21 Cost.) ovvero alla propria fede o credenza religiosa (art. 19 Cost.), “dev’essere protetta in misura proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essa riconosciuta nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana”: e conclude che è “convincente la tesi dell’incolpato secondo la quale l’esposizione del crocifisso nella aule di giustizia, in funzione di solenne ‘ammonimento di verità e giustizia’, costituisce un’utilizzazione di un simbolo religioso come mezzo per il perseguimento di finalità dello Stato e, pertanto appare in contrasto con il principio supremo di laicità dello Stato” e che “del pari persuasiva” appare l’affermazione secondo cui “l’indicazione di un fondamento religioso dei doveri di verità e giustizia ai quali i cittadini sono tenuti, può provocare nei non credenti “turbamenti, casi di coscienza, conflitti di lealtà tra doveri del cittadino e fedeltà alle proprie convinzioni” (corte cost. n. 117 del 1979) e pertanto può ledere la libertà di coscienza e di religione.”
(14)           Ancora, la sentenza del Consiglio superiore della magistratura n. 88 del 2010, del 22 gennaio 2010, che ha inflitto al ricorrente la sanzione della radiazione dalla magistratura, ha riconosciuto che l’obbligo di esercitare la giurisdizione sotto la “tutela simbolica”, in contrasto con le convinzioni di coscienza del magistrato, mette in discussione il “fondamentale diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione”.
(15)           Infine, le Sezioni uniti civili della Corte di cassazione, confermando la decisione del Consiglio superiore della magistratura, hanno implicitamente ribadito che il diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione del ricorrente è pregiudicato dall'obbligo di esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica del crocifisso.
(16)           La giurisprudenza citata è dunque univoca nell’affermare l’illegittimità dell’esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie prescritta dalla circolare dell’epoca fascista, sia per contrasto con principi costituzionali (di laicità, di imparzialità e di legalità), sia per contrasto con il diritto fondamentale della libertà  di religione e di coscienza.

C) L’ostensione del crocifisso: significati e valenze.
(17)           L’ordinamento italiano considera il crocifisso come un simbolo religioso.
La giurisprudenza qualifica pacificamente i crocifissi quali “oggetti di devozione e di culto” (e non oggetti di arredamento, come un tavolo o una sedia), e ravvisa pertanto il reato previsto e punito dall’art. 404 c.p. [Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio o danneggiamento di cose] nella condotta di chi vilipenda, distrugga, deteriori o imbratti tale simbolo in un luogo pubblico o aperto al pubblico, quale sarebbe per l’appunto un’aula di tribunale (in tal senso si veda Cassazione penale, sez. I, sentenza 28 ottobre 1966, Fagiali; Cassazione penale, sez. III, 21 dicembre 1967, Conti; Tribunale di Padova, 14 giugno 2005, Smith).
(18)           Nel diritto italiano l’esposizione del crocifisso sulla propria persona o in altro luogo di appartenenza è considerata un atto di manifestazione di libertà religiosa, cioè di professione e di propaganda di fede, come si ricava dall’art. 58, comma 2, del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario (d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230) che, tra le “manifestazioni della libertà religiosa” consentite ai detenuti, prevede appunto l’esposizione “nella propria camera individuale o nel proprio spazio di appartenenza nella camera a più posti” di “immagini e simboli della propria confessione religiosa”.
Lo stesso Ministro di Giustizia, del resto, ha sostenuto, nel corso giudizio promosso dal dr. Tosti avanti al TAR delle Marche, che l’esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie rappresenta un “atto di manifestazione di fede” da parte dello Stato italiano.
(19)           Giova ricordare che i primi tribunali nei quali sono stati esposti i crocifissi sono stati i criminali Tribunali della Santa Inquisizione e che ancor oggi la Chiesa li espone nei Tribunali ecclesiastici: il loro scopo è quello di ostentare la fede in Dio e di connotare di sacralità cristiana l’esercizio della funzione giurisdizionale. Il ricorrente non avanza ovviamente dubbi sulla liceità dell’ostensione del crocifisso nei tribunali ecclesiastici, sia perché si tratta di una scelta che rientra nell’ambito del legittimo esercizio del diritto di libertà religiosa della Chiesa, sia perché, trattandosi di tribunali “confessionali”, l’esposizione del “vessillo” della Chiesa è del tutto fisiologica ed assume la stessa valenza “identitaria” che assumono, nei tribunali “laici”, le bandiere e gli altri simboli dell’Autorità statale. Il ricorrente ritiene, anzi, che né lo Stato italiano né altri potrebbe imporre alla Chiesa Cattolica l’obbligo di esporre nei tribunali ecclesiastici la bandiera italiana o i simboli religiosi di altra confessione: si tratterebbe, infatti, di un’indebita ingerenza che violerebbe sia il principio di “confessionalità” della Chiesa cattolica che il suo diritto di libertà religiosa.
(20)           Alla stessa stregua, però, l’appellante ritiene che né alla Chiesa né al Vaticano né al Ministro di Giustizia competa il diritto di imporre ai cittadini italiani e alla Repubblica italiana -che è e deve essere neutrale e aconfessionale- l’obbligo di esporre nei tribunali italiani il “vessillo” della religione cattolica: si tratta, infatti, di un’ingerenza altrettanto indebita, che viola non solo l’obbligo dello Stato italiano (e quindi dei giudici) di amministrare la giustizia in modo visibilmente imparziale e neutrale, ma anche il diritto di libertà religiosa delle persone che, per motivi di lavoro o di giustizia, sono costrette a frequentare gli uffici giudiziari.
(21)           L’esposizione del crocifisso nelle aule di giustizia italiane significa, infatti: a) condivisione e propaganda della fede dei cattolici, in violazione così del diritto (negativo) di libertà religiosa di tutti coloro che sono costretti –o per motivi di lavoro o per esigenze di giustizia– a frequentare quelle aule; b) evocare e trasmettere il messaggio simbolico secondo cui la funzione giurisdizionale è esercitata sotto la tutela di una confessione religiosa, in dispregio del principio supremo di laicità che vieta a qualsiasi istituzione pubblica di professare una fede religiosa ed impone, al contrario, l’obbligo della neutralità di chi (come il magistrato) è chiamato ad esercitare la giurisdizione; c) evocare e trasmettere il messaggio monoconfessionale secondo cui nelle aule di giustizia italiane è ammessa soltanto la simbologia religiosa cattolica, in lesione del diritto alla non discriminazione religiosa di chi, non essendo cattolico o credente, non ha la pari opportunità di veder esposti e di propagandare i propri simboli in uno spazio pubblico.
(22)           Nel caso di specie, i valori evocativi del messaggio religioso del crocifisso risultano non tollerabili per l’appellante Luigi Tosti, che non accetta di condividere un simbolo e una religione che non gli appartengono e che non accetta di essere processato da giudici che lo giudicano, al pari dei giudici dell’Inquisizione e dei tribunali ecclesiastici, sotto la tutela simbolica di quel vessillo e di quel messaggio.
(23)           Il dr. Luigi Tosti è persona che nell’esercizio del suo insindacabile diritto individuale di libertà religiosa è avversa a qualsiasi forma di simbolismo religioso o di idolatria, tant’è che non espone sulla propria persona o negli spazi che ha disposizione simboli, idoli o immagini sacre: come ha dunque preteso che il Ministro di Giustizia non gli imponesse di lavorare sotto l’incombere di un crocifisso o con un crocifisso al collo, così pretende di non essere obbligato a sottostare ai crocifissi quando è costretto a frequentare le aule di giustizia per esercitare il diritto di difesa, tanto più in questo processo.
(24)           Il dr. Tosti è anche un cittadino italiano che, dopo aver superato un concorso pubblico in magistratura, ha accettato di lavorare alle dipendenze del Ministero di Giustizia di una Repubblica “laica” e, quindi, in tribunali che non possono imporre né ai dipendenti né ai cittadini giustiziabili l’obbligo di condividere atti di manifestazioni di libertà religiosa né connotazioni religiose partigiane dell’attività lavorativa espletata. In particolare, lo statuto costituzionale della funzione giurisdizionale stabilisce che “la giustizia è amministrata in nome del popolo e che i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101 Cost.), legge davanti alla quale tutti i cittadini “sono eguali, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
(25)           Per contro, Luigi Tosti non ha scelto di “lavorare” in un Tribunale ecclesiastico, cioè alle dipendenze di un Ente religioso per il quale il crocifisso assume indubbiamente caratteristiche identitarie che sono essenziali e determinanti per lo svolgimento della sua attività confessionale, né di essere processato da un Tribunale ecclesiastico: se lo avesse fatto, non avrebbe potuto accampare-e non accamperebbe oggi- la pretesa di far rimuovere i crocifissi o di esporre i propri simboli ma, al contrario, avrebbe dovuto subire la limitazione dei suoi diritti di libertà e di eguaglianza religiosa. In tal senso si è pronunciata la CEDH nell’arresto del 20 ottobre 2009, relativo all’affaire Lombardi Vallauri c. Italia, requête no 39128/05, par. 41 e 44, laddove ha ritenuto legittima la restrizione del diritto di libertà di espressione (art. 10) e del diritto di libertà di pensiero, di coscienza e di religione (art. 9) di un professore universitario, perché “giustificata dalla scopo di tutelare un “diritto altrui”, cioè l’interesse di un’Università cattolica a dispensare un insegnamento conforme alle convinzioni religiose dell’Ente universitario[2].
(26)           Ad opposte conclusioni si deve però pervenire nel caso di specie. La restrizione della libertà religiosa del Tosti non si giustifica, infatti, né per la qualità soggettiva dell’Ente datore di lavoro, né per la natura dell’attività lavorativa o professionale che egli ha svolto né, infine, per la “natura” del processo penale che deve subire dinanzi alla Corte di Appello di L’Aquila: il Ministero della giustizia non è un ente religioso e la Corte di Appello di L’Aquila non è un Tribunale ecclesiastico ma, al contrario, sono entrambi organi (amministrativi e giurisdizionali) di uno Stato laico che, dunque, sono tenuti all’assoluta neutralità religiosa e al rispetto dei diritti di coscienza, di libertà religiosa e di eguaglianza di chi è costretto a frequentarli. Per altro verso poi, l’esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie non è giustificata dalla natura “religiosa” dell’attività giurisdizionale che viene espletata dai tribunali italiani ma, anzi, vi si pone in insanabile conflitto, perché calpesta il principio di neutralità e di imparzialità sancito dalla Costituzione italiana (art. 111) e dalla Convenzione (art. 6).
(27)           Riepilogando, l’appellante sostiene che il Ministro di Giustizia –non essendo un Ente religioso– non può limitare la sua libertà religiosa, di pensiero e di coscienza, imponendogli di condividere nelle aule giudiziarie l’esposizione del crocifisso come simbolo venerato e conferendo ai giudici che lo giudicano connotazioni confessionali cattoliche: connotazioni che la sua coscienza non tollera, sia perché contrarie ai suoi convincimenti religiosi, sia perché contrarie ai precetti costituzionali e convenzionali che impongono allo Stato italiano e ai giudici di essere neutrali e imparziali nell’esercizio dell’attività giurisdizionale.
(28)           è bene puntualizzare che Luigi Tosti non si è mai doluto del fatto che le persone che frequentano gli uffici giudiziari possano esporre sulla propria persona i crocifissi: si tratta infatti di manifestazioni di libertà religiosa dei singoli cittadini che sono garantite – anche in luoghi pubblici–  dall’art. 9 della Convenzione e dall’art. 19 della Costituzione e che, pertanto, non ledono i diritti di libertà religiosa altrui, perché sono “neutralizzate” dall’identica facoltà che è concessa –in positivo o in negativo–  a tutti coloro che praticano fedi diverse o che non ne praticano alcuna. L’appellante ritiene, anzi, che di fronte all’ostensione dei simboli religiosi altrui – ancorché non condivisi–  si imponga, di regola, la “tolleranza”: la quale implica, in un regime democratico che si fonda necessariamente sull’eguaglianza e pari dignità di qualsiasi ideologia religiosa o filosofica, che vi debba essere un rispetto delle opinioni altrui, anche se non condivise.
(29)           L’appellante contesta che il Ministro di Giustizia di uno Stato laico possa imporre l’esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie, e cioè in luoghi che debbono essere indefettibilmente neutrali. In questo modo, infatti, l’ostensione del crocifisso nelle aule di giustizia non è più un legittimo atto di “manifestazione di libertà religiosa” “in un luogo pubblico”, ma un’imposizione e un’ingerenza indebite nella sfera di libertà religiosa di chi –come il Tosti– è contrario a qualsiasi forma di idolatria e non si identifica in quel simbolo -ed anzi se ne dissocia per le criminalità che lo connotano- ma che, tuttavia, è costretto a condividere negli ambienti giudiziari che deve necessariamente frequentare per poter esercitare il diritto di difesa, senza avere nemmeno l’opportunità di neutralizzarlo con l’esposizione dei propri simboli.
(30)           L’imposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie non può essere considerata un atto “neutro” ai fini del rispetto della libertà religiosa, così come non lo sarebbe l’obbligo per i giudici di tenere le udienze col crocifisso al collo o cucito sulla toga. E se un crocifisso o altra simbologia religiosa appesi al collo o cuciti sulla toga connotano di partigianeria religiosa l’esercizio della giurisdizione e ledono la libertà religiosa dei giudici che sono obbligati ad indossarli e degli imputati che sono obbligati a subirli, un crocifisso appeso sulla parete non può non avere la stessa identica valenza religiosa, gli stessi identici significati e gli stessi effetti pregiudizievoli sulla libertà del giudice e sulle sue prerogative di imparzialità, così come sulla libertà religiosa degli imputati e sul loro diritto ad un equo processo da parte di giudici imparziali.
(31)           La circostanza che in Italia molti si siano “assuefatti” alla visione dei crocifissi –perché sono rimasti appesi alle pareti fin dall’epoca del fascismo– non deve indurre all’erroneo convincimento che la loro imposizione sia ininfluente con l’argomento che il crocifisso è un simbolo “passivo” che non obbliga nessuno a credere: il diritto negativo di libertà religiosa, infatti, non implica soltanto quello di non essere obbligati a credere in una religione, ma anche quello di non essere costretti a subire o condividere atti di manifestazioni di libertà religiosa altrui, senza peraltro avere possibilità di neutralizzarli con l’esercizio di contrapposte manifestazioni.
(32)           E sotto questo diverso profilo l’imposizione del crocifisso non può essere considerato un atto anodino perché, altrimenti, dovrebbe ritenersi altrettanto anodina l’imposizione ai cittadini dell’obbligo di esporre i crocifissi nelle loro case: il che non può essere giustificato, perché l’ostensione di un simbolo religioso è un atto di manifestazione di libertà religiosa che, come tale, non può essere imposto a nessuno.
(33)           Concludendo, l’appellante ritiene che la restrizione del diritto negativo di libertà religiosa e di coscienza (art. 9), provocata dall’imposizione del crocifisso, può essere giustificata solo per chi ha scelto, volontariamente, di lavorare alle dipendenze di un ente o di un tribunale ecclesiastico o di chi, altrettanto volontariamente, ha scelto di essere giudicato da un Tribunale ecclesiastico: ma non per chi ha scelto di esercitare le funzioni giurisdizionali alle dipendenze di uno Stato laico, né per chi è costretto a frequentare come imputato un tribunale laico che, sia in base all’art. 6 della Convenzione che in base all’art. 111 della Costituzione italiana, deve essere connotato da assoluta imparzialità e neutralità, e non da partigianeria religiosa.
(34)           Sul piano della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo va considerato che nell’organizzare il servizio della giustizia le Parti Contraenti debbono rispettare l’art. 6, § 1, che garantisce il diritto ad una giustizia che, oltre ad essere imparziale, appaia tale.
In Klein c. Pays– Bas, del 6 maggio 2004, ai §§ 190 ss., la Grande Chambre ha sottolineato che anche l’apparenza di imparzialità è una qualità importante per i tribunali, perché i dubbi al riguardo debbono essere esclusi ed i soggetti devono poter aver fiducia nel giudice:
Quant à la condition d’«impartialité», au sens de l’article 6 § 1 de la Convention, elle revêt deux aspects. Il faut d’abord que le tribunal ne manifeste subjectivement aucun parti pris ni préjugé personnel. Ensuite, le tribunal doit être objectivement impartial, c’est– à– dire offrir des garanties suffisantes pour exclure tout doute légitime à cet égard. Dans le cadre de la démarche objective, il s’agit de se demander si, indépendamment de la conduite personnelle des juges, certains faits vérifiables autorisent à suspecter l’impartialité de ces derniers. En la matière, même les apparences peuvent revêtir de l’importance. Il y va de la confiance que les tribunaux d’une société démocratique se doivent d’inspirer aux justiciables, à commencer par les parties à la procédure”.
(35)           L’importanza dell’apparenza, in questo settore, è stata ribadita dalla giurisprudenza successiva della CEDH: così, ad esempio, Sacilor Lormines c. France, del 9 novembre 2006, § 60 e Micallef c. malte, del 15 ottobre 2009, § 98, la quale, richiamando diversi precedenti ci ricorda che “«justice must not only be done, it must also be seen to be done» (il faut non seulement que justice soit faite, mais aussi qu'elle le soit au vu et au su de tous)”.
(36)           Ora, una giustizia amministrata in locali arredati col crocifisso per definizione appare non imparziale sotto il profilo della equidistanza rispetto ai convincimenti religiosi. D’altro canto, se l’esposizione del crocifisso appare del tutto giustificata nei tribunali ecclesiastici, perché è deputata a connotare di “confessionalità” e di “sacralità” l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte di quei giudici, essa appare del tutto ingiustificata nei tribunali della Repubblica italiana che, per dettato costituzionale, debbono essere laici e neutrali.
(37)           Per convincersene, basta pensare a quale sarebbe l’immagine della funzione giurisdizionale se essa fosse amministrata in aule invariabilmente arredate soltanto con il simbolo di un determinato partito politico.
(38)           Per i motivi sin qui esposti l’appellante ritiene che i crocifissi debbano essere rimossi da tutte le aule per garantirgli il rispetto dei diritti all’equo processo, alla libertà di religione e di coscienza e all’eguaglianza e non discriminazione.
(39)           In ogni caso l’appellante ribadisce la propria richiesta, subordinata, di esposizione delle menorà a fianco dei crocifissi  nelle aule giudiziarie: se si ritiene infatti lecito che i cattolici possano manifestare la loro libertà religiosa, occupando con il crocifisso gli “spazi pubblici” delle aule di giustizia e connotando, pertanto, di confessionalismo cattolico l’esercizio della giurisdizione, identico diritto deve essere necessariamente accordato a chi cattolico non è.
(40)           Le aule giudiziarie appartengono a tutti i cittadini italiani in regime di eguaglianza, senza che abbia alcun rilievo la fede praticata o il numero degli aderenti a ciascuna di esse. Se il Ministro di Giustizia ritiene legittimo che i “non cattolici” come lui debbano condividere l’imposizione coatta di un simbolo “culturale” alieno, quando sono costretti a frequentare i tribunali per difendersi, anche i cattolici debbono condividere l’imposizione dei simboli “culturali” altrui.
(41)           L’appellante ribadisce, per l’ennesima volta, che la richiesta di esporre i propri simboli non è finalizzata alla salvaguardia del principio supremo di laicità -che presuppone invece l’assenza di qualsiasi simbolo o la presenza di TUTTI i simboli (di impossibile attuazione)- bensì alla salvaguardia del proprio diritto di eguaglianza e non discriminazione religiosa, garantito da norme primarie come l’art. 3 della Costituzione e gli articoli 9 e 14 della Covnenzione.

D) La sentenza Lautsi c. Italie della Grande Chambre del 18 marzo 2011

(42)           L’appellante ritiene che la sentenza Lautsi c. Italia del 18 marzo 2011, con la quale la Grande Chambre della CEDH ha ritenuto che l’esposizione del crocifisso in un’aula scolastica non fosse lesiva del diritto dei genitori di educare i figli secondo i propri convincimenti (art. 2 del Primo protocollo addizionale) e della libertà religiosa dei genitori e degli alunni (art. 9), sia del tutto irrilevante nel caso di specie.
Anzitutto la CEDH ha avuto cura di puntualizzare, nel § 57, che essa pronunciava esclusivamente sulla “question ...... de la présence de crucifix dans les salles de classe des écoles publiques italiennes” e non si è invece pronunciata “sur la question de la présence de crucifix dans d'autres lieux que les écoles publiques”.
In secondo luogo, la Corte ha escluso che vi sia stata violazione del diritto des parents d'assurer une éducation et un enseignement conformément à leurs convictions (art. 2 del prot. n. 1) e la violazione del diritto di libertà religiosa dei genitori e degli alunni (art. 9), perché essa ha ritenuto che il crocifisso fosse un “simbolo passivo” e che non fosse provato che esso “indottrina” e “induce gli alunni a credere”: queste motivazioni non hanno alcun rilievo nel presente giudizio, perché il dr. Tosti non si è mai lamentato come giudice -e non si lamenta come imputato- che l’imposizione del crocifisso nelle aule condizioni la sua libertà di credere o non credere. Egli ha invece dedotto e deduce che l’obbligo di esercitare le funzioni giurisdizionali o di subire un processo sotto la tutela simbolica del crocifisso viola il suo diritto di libertà religiosa perché lo costringe a subire e condividere un atto di manifestazione di fede cattolica, senza peraltro avere la possibilità di neutralizzarlo con l’esercizio di contrapposte manifestazioni e, inoltre, perché egli è stato costretto come giudice -e viene oggi costretto come imputato- a dichiarare pubblicamente di non essere cattolico al fine di sottrarsi a questa imposizione.
Infine, la Corte ha relativizzato gli effetti dell’esposizione del crocifisso, osservando al § 74 della decisione – sulla base di FALSE indicazioni fornite dal Governo italiano – che tale simbolo religioso si inseriva in uno spazio scolastico comunque aperto alle altre religioni, considerato: a) che nella scuola è garantito l’insegnamento confessionale delle altre religioni professate dai culti riconosciuti (circostanza COMPLETAMENTE FALSA, perché l’unico insegnamento ammesso e pagato con i soldi dei contribuenti è quello della religione cattolica); b) che nella scuola c’è la possibilità, da parte degli alunni, di esibire la propria simbologia religiosa (circostanza COMPLETAMENTE FALSA -come i Giudici aquilani ben sanno- essendosi occupati del caso Smith, i cui simboli islamici sono stati rimossi perché incompatibili col crocifisso cattolico).

E) L’obbligo di garantire il rispetto dei diritti inviolabili durante il processo
(43)           La Cassazione penale, con sent. n. 3376 del 2001, ha sancito la piena legittimità del rifiuto di un imputato disabile di presenziare all’udienza dibattimentale “per l'esistenza di barriere architettoniche che gli impedivano di accedere all'aula di udienza”, perché ha ritenuto che “spetta all'amministrazione pubblica garantire alle persone disabili modalità di accesso ai locali rispettose dell'uguaglianza e della pari dignità di tutti i cittadini.”
            La Corte ha dichiarato che “l'ordinanza che ne dichiari la contumacia è nulla perché gli interventi di rimozione degli ostacoli devono essere preventivi rispetto al manifestarsi dell'esigenza della persona disabile e i problemi di questa non possono essere considerati come problemi individuali, bensì vanno assunti dall'intera collettività.
(44)           L’appellante ritiene che questi stessi principi debbano essere applicati al suo caso: spetta infatti all’amministrazione giudiziaria garantirgli -attraverso la rimozione dei crocifissi o, in subordine, autorizzandolo ad esporre la menorà- la partecipazione al processo nel pieno rispetto dei suoi diritti inviolabili di libertà religiosa, di coscienza, di eguaglianza e di equo processo da parte di giudici visibilmente imparziali. Se ciò non avverrà, egli sarà costretto a non presenziare al dibattimento o ad allontanarsi dall’aula per la necessità di preservare tali diritti.
(45)           Se la Corte riterrà invece giustificata questa pretesa, dovrà rinviare il processo in attesa che il Ministro di Giustizia -sollecitato ad hoc- rimuova i crocifissi per consentire la regolare prosecuzione del processo.
(46)           In caso di ulteriore inerzia da parte del Ministro, è da escludere che la Corte possa disapplicare la circolare del Ministro fascista Rocco, ex art. 4, all. E, della L. 20.3.1865 n. 2248: la rimozione dei crocifissi dalle aule giudiziarie italiane, infatti, postula l'esecuzione di un atto amministrativo generale che rientra nella competenza esclusiva del Ministro, come espressamente affermato dalla Cassazione penale nella citata ordinanza n. 41.571 del 18.11.2005.
(47)           Ciò non toglie, tuttavia, che la Corte possa sollevare un conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro di Giustizia, ex art. 134, comma 2° Cost., e 37 L. 11.3.1953 n. 87, sussistendone tutti i requisiti oggettivi e soggettivi.
(48)           E' infatti innegabile che il diniego di rimozione dei crocifissi da parte del Ministro di Giustizia (sempreché ritenuto dalla Corte di Cassazione illegittimo ed ostativo alla prosecuzione del dibattimento) impedirebbe sine die la celebrazione del processo d’appello: il che concretizzerebbe, di fatto, una “menomazione della pienezza della funzione giurisdizionale attribuita alla Corte di Cassazione dalla Costituzione”.
(49)           Questa “menomazione” integrerebbe un'ipotesi del tutto analoga a quella dell' illegittimo rifiuto delle Camere di fornire all'Autorità giudiziaria documenti necessari ai fini probatori o a quella dell' illegittimo rifiuto dell'autorizzazione a procedere contro parlamentari: tutti casi, questi, nei quali la Corte Costituzionale ha ritenuto e ritiene ammissibili i conflitti di attribuzione ex art. 37 L. n. 87/1953.
(50)           Questa norma sancisce infatti che “Il conflitto tra poteri dello Stato è risolto dalla Corte costituzionale se insorge tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono e per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali”.
(51)           Nel caso di specie ricorre, innanzitutto, il requisito soggettivo, in quanto la Corte di Appello gode di assoluta indipendenza ed autonomia nell'ambito del più vasto “potere giurisdizionale” cui appartiene (si richiama Corte Cost., ord. 22/1975: “i singoli organi giurisdizionali, esplicando le loro funzioni in situazioni di piena indipendenza, costituzionalmente garantita, sono da considerare legittimati -attivamente e passivamente- prescindendo dalla proponibilità di gravami predisposti a tutela di interessi diversi”).
(52)           Non sussiste, poi, l'ipotesi che “altro organo, all'interno del potere giurisdizionale, sia abilitato ad intervenire -d'ufficio o dietro sollecitazione del potere controinteressato- rimuovendo o provocando la rimozione dell'atto o del comportamento che si assumono lesivi” (Corte Cost., ord. 228/75).
(53)           Dal punto di vista oggettivo, poi, il conflitto di attribuzione concerne sicuramente un atto amministrativo di natura regolamentare (circolare Min. Giust. n. 2134/1867 del 29.5.1926 o, comunque, un comportamento di “rifiuto” di rimozione dei crocifissi da tutte le aule giudiziarie italiane), della cui “illegittimità” non è dato dubitare.
(54)           Infine, la violazione della sfera di attribuzione della Corte di Cassazione trova il suo fondamento negli artt. 101 e 102 della Costituzione, perché il diniego di rimozione generalizzata dei crocifissi dalle aule giudiziarie da parte del Ministro di Giustizia, implicando la violazione del diritto costituzionale dell'imputato all'equo processo da parte di un giudice imparziale (art. 111 Cost. e 6 Conv.), nonché del diritto costituzionale all'eguaglianza (art. 3 Cost. e 14 Conv.) e del diritto costituzionale alla libertà religiosa (art. 19 Cost. e 9 Conv.), determina un legittimo impedimento dell’imputato a partecipare al processo e a difendersi (art. 420 C.P.P.), con conseguente menomazione della pienezza della funzione giurisdizionale della Corte di appello a causa dello “stallo” sine die del processo.
(55)           Si tratta di fattispecie del tutto assimilabile a quella ritenuta fondata dalla Corte Costituzionale con l'ord. n. 228 del 1975:
Il rifiuto opposto al Tribunale di Torino dalla Commissione d'inchiesta in ordine alla richiesta di documenti, ritenuti necessari ai fini probatori, concreta una illegittima menomazione delle pienezza della funzione istituzionalmente spettante al potere giurisdizionale ex artt. 101 e 102, esplicata dal Tribunale medesimo, per la limitazione che ne risulterebbe all'accertamento dei fatti ed alle conseguenti valutazioni di sua competenza”. Nel caso di specie, infatti, il rifiuto del Ministro di Giustizia di rimuovere i crocifissi determinerebbe una illegittima menomazione delle pienezza della funzione spettante alla Corte aquilana ex artt. 101 e 102, per l’impossibilità di celebrare un valido processo a carico dell'imputato, legittimamente contumace o assente dal processo a causa dell'esposizione obbligatoria dei crocifissi nelle aule giudiziarie”.
(56)           D’altro canto, la Corte Suprema ha giustamente sancito, nella citata ordinanza n. 41.571 del 18.11.2005, che non è possibile il ricorso alla legittima suspicione da parte dell'imputato che si ritenga leso nei suoi diritti a causa dell’imposizione dei crocifissi nelle aule giudiziarie: e questo perché, “anche se può avere incidenza indiretta sulle posizioni soggettive di terzi estranei a quella amministrazione”, la circolare fascista ha portata generale e si applica ai tutti gli uffici giudiziari italiani, sicché, pur “essendo state sollevate circostanze importanti”, non può invocarsi l'istituto della rimessione del processo per scongiurare un pericolo di parzialità del giudice o di turbamento del giudizio, quando la situazione che asseritamente genera quel pericolo ha dimensione nazionale, essendo evidente che in tal caso anche la translatio iudicii non sarebbe in grado di rimuovere o evitare quella stessa situazione che si assume pregiudizievole per la imparzialità e serenità del giudizio”.
(57)           Sulla base di questi lineari principi, pertanto, l’unica via praticabile per risolvere il rispetto dei diritti inviolabili dell’imputato è quella del conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro di Giustizia ex artt. 134 Cost. e 37 L. 11.3.1953 n. 87, affinché la Consulta dichiari che il rifiuto di rimozione dei crocifissi è illegittimo, per violazione degli art. 2, 3, 7, 8, 19, 97, 101, 102, 104 e 111 e 113 della Costituzione e 6, 9, 13, 14 e 17 della Convenzione e determina, dunque, una illegittima menomazione della pienezza delle funzioni giurisdizionali spettanti alla Corte di Appello gli ex artt.101 e 102 Costituzione.
(58)           Si segnala che la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 127/2006, ha dichiarato inammissibile analogo conflitto di attribuzione, sollevato dal Tosti quando esercitava le funzioni giurisdizionali nel Tribunale di Camerino, perché ha ritenuto che “il giudice remittente, che per sua stessa ammissione si era astenuto dalle funzioni giurisdizionali dal 9.5.2005, non era attualmente investito di un processo, in relazione al quale soltanto i giudici si configurano come organi competenti a dichiarare la volontà del potere cui appartengono”: questa situazione ovviamente non sussiste per i Giudici dfella Corte di Appello, che sono nel pieno delle funzioni e che sono investiti della trattazione di questo processo.

F) Irrilevanza della rimozione o dell’assenza del crocifisso in aula
L’appellante sconsiglia di rimuovere il crocifisso dall’aula dell’udienza dibattimentale per tentare di eludere, suerrettiziamente, la questione del rispetto dei diritti umani dell’imputato. Questo escamotage, a dir poco cialtronesco ed indice di abuso di potere, non avrebbe infatti alcun rilievo, alla luce di quanto sopra esposto. Né avrebbe alcun rilievo la circostanza che il crocifisso sia “occasionalmente” assente nell’aula, dal momento che ciò che contata è che esiste una circolare che ne impone la presenza obbligatoria e questa circolare viene tuttora ritenuta vigente e cogente dal Ministro.

SESTO PUNTO: Dal momento che il ministro fascista impone all’imputato la presenza ossessiva del crocifisso negli uffici giudiziari, il minimo che il Tosti possa fare è quello di “suonare le sue campane”, cioè di presenziare all’udienza con i suoi simboli. E dal momento che il crocifisso -come già declamato dal Tosti in due pubbliche udienze- può essere a buon diritto definito, a causa della nefasta storia del cristianesimo e della Chiesa cattolica, come il vessillo della più grande associazione per delinquere e della più grande banda di falsari del pianeta Terra, l’imputato preannuncia che presenzierà con una croce uncinata al collo.
            Se qualcuno, malauguratamente, dovesse dichiararsi “turbato” dalla visione della svastica, gli si farà con garbo osservare che il simbolo nazista è, al pari del crocifisso, un “simbolo passivo che non induce nessuno a credere o a professare atti di fede”.
            Se qualcuno poi dovesse avanzare la pretesa di “rimozione” della svastica, adducendo magari che si tratta di un simbolo criminale che gronda del sangue di sei milioni di ebrei, rom ed omosessuali, gli si farà garbatamente osservare che in tutte le aule italiane viene esposto, addirittura per ordine del ministro di giustizia fascista e a spese dei cittadini, un simbolo che è infinitamente più criminale, perché gronda dello sterminio di centinaia di milioni di esseri umani e di una serie sterminata di altri crimini contro l’umanità, al cospetto del quale la svastica nazista può dunque a buon diritto aspirare al titolo di “candida e pudica educanda”.
            Il crocifisso -ad onta dei compiacenti ed oltraggiosi tentativi di contrabbandarlo come “il simbolo storico/culturale che identifica il popolo italiano e che esprime un sistema di valori di libertà, di eguaglianza, di dignità umana e di tolleranza religiosa, che stanno alla base del principio di laicità dello Stato”- rappresenta in realtà il “vessillo” della più grande banda di criminali e della più grande banda di falsari che sia mai esistita sul pianeta Terra, la quale si è resa artefice dei più efferati crimini contro l’umanità, condividendoli di papa in papa senza il minimo moto di resipiscenza o di pentimento.
            La storia del “crocifisso” gronda di sangue, di genocidi, di assassini, di torture, di criminale inquisizione, di criminali crociate, di criminale razzismo, di criminali condanne a morte di eretici, di criminali torture e condanne al rogo di centinaia di migliaia di streghe, di criminale schiavizzazione a livello planetario delle popolazioni indigene, di superstizione, di criminale discriminazione e persecuzione razziale degli ebrei, di criminale ghettizzazione degli ebrei, di criminale shoà, di criminale collaborazione con i genocidi degli ustascia, di criminale aiuto e cooperazione del Vaticano alla fuga e all’espatrio in sud America dei criminali di guerra nazisti, di criminali rapimenti di bambini ebrei perché “battezzati”di nascosto, di castrazione di bambini per innalzare “celesti melodie” al “buon” Dio degli eserciti, di criminali genocidi dei nativi americani ed australiani, di criminali confische, di patologica misoginia ed omofobia, di discriminazione delle donne e degli omosessuali, di patologica sessuofobia, di intolleranza religiosa, di oscurantismo, di negazione assoluta dei più elementari diritti politici ed umani di eguaglianza, di libertà di opinione, di libertà di pensiero, di libertà di religione e di libertà di scienza e ricerca, di omertosa e criminale copertura dei preti pedofili a livello planetario, di omertosa e criminale copertura di assassini e di occultamento di cadaveri nei sottotetti delle Chiese, di mafiose connivenze e scambi di favori economici con politici e “gentiluomini” del Papa per ottenere i finanziamenti dei grandi eventi, di omertosa e criminale complicità nel riciclaggio del danaro sporco e nell’evasione fiscale, di imposizione di pratiche contro natura come la castità, di criminale istigazione all’omicidio attraverso il divieto dell’uso del preservativo ai malati di AIDS, di mancata adesione alle Convenzioni internazionali per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali degli uomini e delle donne, di mancata adesione alle Convenzioni internazionali contro la criminalità organizzata, il riciclaggio e l’evasione fiscale, di illeciti finanziari, di millenaria accumulazione parassitaria di ingenti ricchezze, che rappresentano uno scandalo “teologico” e un insulto alla povertà, di ostentazione di sfarzi, ori, pietre preziose, ricchezze, paramenti liturgici e scarpine di Prada che oltraggiano i veri poveri “cristi” di questo Pianeta, di “paradisi finanziari” creati e gestiti per occultare la tracciabilità delle operazioni bancarie ed agevolare i criminali, di costante rifiuto di collaborazione con le autorità giudiziarie per la persecuzione dei reati, di negazione assoluta dei diritti politici e di libertà religiosa, di negazione assoluta del diritto inviolabile di matrimonio dei preti e delle monache, di truffe, di costante abuso della credulità popolare a fini speculativi, di truffaldine messe gregoriane, di simonia, di scadaloso mercimonio di indulgenze per accumulare ricchezze, di truffaldine commercializzazioni di “medagliette” “miracolose” della Madonna ed altre divinità inferiori, di commercializzazione truffaldina del miracoloso monossido di diidrogeno dei prestigiosi laboratori farmaceutici di Lourdes, di mafiose bolle di componenda, di false natività di Gesù Cristo, di false “donazioni” di Costantino per “giustificare” il potere temporale della Chiesa sul Pianeta Terra, di costanti falsificazioni e taroccamenti di scritture sacre, di false reliquie, di falsi prepuzi di Gesù (almeno 18!), di falsi sangui di Gesù cristo, di false “fasce” di Gesù bambino, di false mangiatoie del bue e dell’asinello, di false culle di Gesù bambino, di falsi biberon di Gesù bambino, di falsi e truffaldini “sangui di San Gennaro”, di false piume delle ali dell’Arcangelo Gabriele, di falsi veli della Madonna, di falsi capelli della madonna, di false cinture della madonna, di falsi anelli di fidanzamento di Giuseppe e Maria, di falsi bastoni e cinture di San Giuseppe, di falsi “latti” della madonna, di false corone di spine, di false “teste” di san Giovanni Battista decollato, di falsi danari di Giuda -con relative false borse- di calotte craniche, cervelli, vertebre, clavicole, dita, piedi, mani, femori ed altri macabri resti umani, appartenenti a chi sa chi ed attribuiti a falsi Santi, di false apparizioni della madonna -a migliaia, ma nessuna in un Paese islamico- di false madonne che lacrimano sangue, di una pletora di false ostie che si tramutano miracolosamente in bistecche fiorentine al sangue, di false case della madonna di Loreto -che svolazzano qua e là per la gioia dei piloti italiani- di falsi chiodi della croce di Gesù, di falsi legni della croce di Gesù, di false lance di Longino (Heilige Lanze) venerate dal criminale cattolico Hitler, di false sindoni, di false veroniche, di falsi miracoli, di falsi Santi -autori di falsi miracoli- di falsi esorcisti che praticano riti sciamanici su malati e bambini parificati ai “down”, di false stigmate, di false transustanziazioni delle ostie, di Santi Padri Pii impostori, di falsi purgatori, di falsi limbi, di falsi demoni, di falsi angeli, di falsi arcangeli, di falsi cherubini, di falsi serafini, di falsi troni, di falsi indemoniati e, persino, della falsa “cacca” dell’asino che avrebbe trasportato Gesù Cristo.
Esporre i crocifissi nelle aule di giustizia non è soltanto un insulto al principio supremo di laicità e all’intelligenza umana, ma è anche un insulto e un oltraggio alla Legalità, alla Giustizia, alla Civiltà e alla Memoria delle centinaia di milioni di esseri umani che, in nome di quel macabro e orrifico simbolo, sono stati assassinati, torturati, sbudellati, incarcerati, discriminati, inquisiti, ghettizzati, prevaricati, abbindolati, truffati, vilipesi ed emarginati dalla Chiesa Cattolica nella sua nefasta storia criminale.
L’appellante ritiene che non esista un simbolo che sia più “squalificato” e più indegno di essere esposto nelle aule di Giustizia del crocifisso cattolico.
L’appellante ritiene vergognoso e intollerabile che lo Stato italiano esponga questo “vessillo” negli uffici giudiziari, così come trova vergognoso, indecente e intollerabile che il Papa e le gerarchie ecclesiastiche seguitino tuttora ad essere accreditate, sponsorizzate e spalleggiate dalle Istituzioni italiane, ad onta dei trascorsi criminali della Chiesa e ad onta del loro presente, tutt’altro che commendevole.
L’appellante trova vergognoso che le gerarchie ecclesiastiche invadano quotidianamente la politica italiana, gli spazi pubblici e la RAI con interventi intrusivi che brutalizzano il principio di laicità ed il pluralismo religioso e che siano chiamate a presenziare -in prima fila e in perfetta “solitudine”- l’apertura dell’anno giudiziario italiano, sia dinanzi alla Cassazione che dinanzi alle Corti di Appello, quasi che l’Ordinamento Giudiziario italiano sia sottoposto, per dettato costituzionale, alla sovranità della Chiesa.
            Se si espone nelle aule giudiziarie un simbolo criminale come il crocifisso, a maggior ragione merita di essere esposta la criminale svastica nazista. D’altro canto l’accostamento dei due simboli è storicametne perfetto, dal momento che nazismo e cristianesimo hanno collaborato e stretto accordi e i nazisti non erano ovviamente musulmani né, tantomeno, “atei” -come falsamente affermato da papa Benedetto XVI- bensì devoti cristiani, come comprovato dalla fede cattolica di Adolf Hitler, fervente adoratore della lancia di Longino, e dalla fede cattolica di Josef Ratzinger, un ex nazista aderente alla gioventù hitleriana che è stato scelto dallo Spirito Santo per guidare la Chiesa Cattolica.
            Se qualcuno dovesse malauguratamente affermare che Luigi Tosti è un “provocatore”, gli si darà ragione, ricordandogli però che in una società in cui regna la codardia, l’opportunismo e l’indifferenza, chi pretende l’osservanza della legge e il rispetto dei diritti inviolabili viene sempre giudicato come un “provocatore”, perché chi lo giudica tale o è un vigliacco o è un opportunista o è un indifferente.
Rimini - L’Aquila, 2 luglio 2012
                                                                       Luigi Tosti


RINUNCIA ALL’IMPUGNAZIONE EX ART. 589-582 C.P.P.
Il sottoscritto Luigi Tosti, nato a Cingoli il 3.8.1948, res. a Rimini, Via Bastioni Orientali n. 38,
premesso
- che con sentenza del Tribunale di L’Aquila n. 134 del 10.1.2008 è stato condannato in continuazione alla pena di anni uno di reclusione;
- che avverso detta sentenza ha proposto appello;
- che è stata fissata per la discussione l’udienza dibattimentale dinanzi alla Corte di Appello di L’Aquila per il giorno 5 luglio 2012, ore 12;
P.Q.M.
DICHIARA
di RINUNCIARE al PRIMO MOTIVO di appello, col quale ha lamentato la mancata applicazione dei principi sanciti dalla sent. n.6670/1985 delle SS.UU. della Cassazione penale, secondo cui “l'art. 328 c.p. si riferisce non ad un generico dovere di fedeltà e di zelo del pubblico ufficiale, ma al mancato o ritardato compimento di un atto dell'ufficio”.
CHIEDE
pertanto, che la Corte si pronunci solo sui residui motivi di appello, conformente alla giurisprudenza della Cassazione (cfr., da ultimo, Cass. pen., Sez. 2, sent. n. 3593 del 03/12/2010 / 01/02/2011.
Rimini-L’Aquila, li 2 luglio 2012.

                                                                       Luigi Tosti

La firma è autentica

                                               Avv. Dario Visconti


[1] Così, infatti, motiva la Sezione disciplinare: la rimozione ..... (è) l’unica ragionevole in conseguenza della prevedibile ed immediata reiterazione delle medesime condotte in caso di riattribuzione delle funzioni. Il dott. Tosti ha manifestato la irremovibile volontà di tenere fermo il suo rifiuto fino a quando non sarà tolto il crocifisso dalle aule d’udienza o non sarà esposta la menorà ebraica. Ha esplicitamente dichiarato che non defletterebbe da tale decisione neanche in futuro se gli fosse data occasione di rinnovare, con la restituzione delle funzioni, il rifiuto di esercitarle.) Tale determinazione...... è sintomatica ..... di un ostinato e pervicace arroccamento sulle proprie posizioni, incompatibile con la ripresa dell’attività giurisdizionale in adeguate condizioni di prestigio e serenità”.

[2]           A supporto di tale pronuncia la CEDH ha richiamato l’art. 3 del D.P.R. n. 216/2003 che, recependo la direttiva n. 78/2000/CE (art. 4), ha disposto che “nell'ambito del rapporto di lavoro o dell'esercizio dell'attività di impresa.... non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell'articolo 2 le differenze di trattamento, basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali, che siano praticate nell'ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività.



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