mercoledì 24 febbraio 2010

IL CROCIFISSO NEGLI UFFICI PUBBLICI (di Giovanni Palombarini, Magistrato italiano)

Pubblico, qui di seguito, il commento del Giudice Giovanni PALOMBARINI all'indomani dell'ordinanza del dr. Mario Montanaro del Tribunale civile dell'Aquila che ordinava la rimozione dei crocifissi dalle scuole di Ofena.
Ognuno ne tragga, a distanza di 7 anni dall'evento e da quanto nel frattempo avvenuto nella italica Colonia Pontificia, le proprie conclusioni. Buona lettura.

LA QUESTIONE DEL CROCIFISSO
NELLE SCUOLE PUBBLICHE



1. Il parere di un giudice (dott. Giovanni Palombarini)

Per far chiarezza sulla vicenda del crocefisso
di Giovanni Palombarini

A proposito del dibattito sulla vicenda del Crocefisso nella scuola materna di Ofena vale forse la pena di dire pacatamente alcune cose affinché la pubblica opinione possa rendersi meglio conto dei termini della questione.
La prima. La legge che imporrebbe la presenza del Crocefisso nelle scuole e in altri edifici pubblici non esiste. Il tanto invocato regio decreto del 1923, infatti, non è una legge ma un regolamento: come tale può essere disapplicato dal giudice, non essendo possibile – come incredibilmente vanno dicendo in tanti – rimetterlo alla Corte Costituzionale per un’eventuale abrogazione. All’esame del giudice ********delle leggi possono andare appunto le leggi, non i regolamenti.
Inoltre. Non è affatto detto che quel vecchio regolamento sia ancora vigente. Se il Consiglio di Stato non ha escluso nel 1988 la possibilità di mettere il Crocefisso nelle scuole, una sentenza della Corte di Cassazione del 2000, decidendo il caso di un presidente di seggio che si era rifiutato di prestare la sua attività in un’aula con il Crocefisso, ha annullato la condanna inflittagli da un Tribunale dicendo che quel regolamento doveva ritenersi abrogato ormai da tempo. Ciò è così vero che nel settembre del 2002 il capogruppo alla Camera dell’Udc on. Volontè ha proposto al ministro dell’istruzione Letizia Moratti la questione della vigenza o meno di quel regio decreto, e che in Parlamento pendono da un anno ben tre progetti di legge, di Udc, An e Lega, con i quali si vuole introdurre l’obbligo della presenza del Crocefisso negli edifici pubblici (verrebbe da pensare, a margine di tutto questo, che mano a mano che procede la scristianizzazione della nostra società, si intenda nasconderla con atti formali).
Ancora. Varie voci hanno deplorato che il tutto sia partito dall’iniziativa di una persona di religione islamica, non rispettoso delle tradizioni del nostro Paese; con tanto di perentorie aggiunte secondo cui gli stranieri, se non sono contenti delle nostre regole, possono andarsene. Orbene, a parte il fatto che quella persona [vale a dire Adel Smith] è un cittadino italiano, andrebbe detto da qualcuno deiprotagonisti del dibattito di questi giorni che in una democrazia l’affermazione di un diritto, ove esistente, prescinde da nazionalità e religioni.
Infine. La decisione del ministro della giustizia on. Roberto Castelli di inviare a L’Aquila i suoi ispettori per aprire eventualmente un’azione disciplinare nei confronti del magistrato che ha pronunciato l’ordinanza appare davvero, sotto il profilo istituzionale, del tutto inaccettabile. Ha provveduto a smorzare i toni il Presidente della Repubblica, ricordando che, come è previsto per tutti i provvedimenti del giudice, quell’ordinanza, se sbagliata, potrà essere revocata o annullata. Ma intanto un messaggio è stato lanciato: anche il contenuto delle sentenze può essere vagliato dal ministro della giustizia per chiedere che il giudice venga sanzionato.
Che dire? Il fatto è che purtroppo l’arretramento complessivo del nostro Paese, anche sotto i profili istituzionale e culturale, appare ormai davvero impressionante[1].

2. I sondaggi sul web dicono “no” al crocifisso

Questo è un sondaggio condotto dal sito: www.vivacity.it, da cui risulta che la maggioranza degli italiani è d’accordo con la posizione dell’autore!
Sondaggio “Crocefisso in classe” — La domanda era: «In uno stato laico e mentre le nostre scuole diventano sempre più multietniche e multireligiose nelle aule rimane appeso il crocefisso. Tu che ne pensi?».

Crocifisso in classe, sì o no?

Un giudice de L'Aquila ha imposto di togliere il crocifisso dall'aula di una scuola frequentata da una bambina musulmana. Tu che ne pensi?

· È giusto, la scuola è laica e il crocifisso è un simbolo religioso
63% (186109 voti)
· È necessario il rispetto per ogni religione, mettiamo i simboli religiosi islamici accanto al crocifisso
6% (20263 voti)
· L’immagine di Cristo in croce non è solo un simbolo religioso ma rappresenta le radici culturali italiane, deve rimanere nelle nostre scuole 29% (85368 voti)
· Il nostro è un paese cattolico e il crocifisso nelle aule ci deve stare
0% (1345 voti)

Questo è un sondaggio (votato da ben 47501 cittadini) condotto dal sito: www.repubblica.it/speciale/poll/croci.html (del 26 ottobre 2003), da cui risulta che la maggioranza degli italiani è d’accordo con la sentenza del rispettabile giudice Mario Montanaro!

· 51% sì alla sentenza
· 48% no alla sentenza
· 1% non so

Questo è un sondaggio (votato da ben 39039) condotto dal sito del quotidiano Il Corriere della Sera: http://sondaggi.corriere.it/cgi-bin/corsera_sondaggio/ sondaggio.cgi/risultati?from=48&to... (del 28 ottobre 2003), da cui risulta che la maggioranza degli italiani è d’accordo con la posizione dell’autore!

La domanda era: «Il crocefisso deve restare nelle aule scolastiche».

· 57.50% no
· 42.50% sì

Questo sondaggio — in evidente contrasto con ciò che andava spacciando il quotidiano — era poi ignobilmente sparito dal web in data 29 ottobre 2003 per poi riapparire!

3. Intervista a un docente di religione cattolica

IL CROCIFISSO NELLE AULE SCOLASTICHE
(Un simbolo sbagliato)

da un’intervista di Cristina Pugliese

D. Professore, ancora polemiche sul crocifisso nelle aule scolastiche; può riferirci il suo pensiero in proposito?
R. Prima di riferirle la mia opinione, vorrei fare alcune considerazioni sull’importante simbolo della religione cristiana. Nell’Antico Testamento, e precisamente nel libro dell’Esodo, troviamo scritto:
Non ti farai scultura e alcuna immagine né di quello che è su nel cielo, né di quello che è quaggiù sulla terra, né di quello che è in acqua, sotto terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai…[2].
Basandosi su questo comandamento di Dio, la chiesa primitiva cercò di reprimere per lungo tempo l’uso di farsi immagini di Gesù, preferendo servirsi di segni e simboli, come la croce, il pesce[3], l’agnello, ecc. La più antica raffigurazione del crocifisso, rappresentazione iconografica del supplizio di Gesù, risale infatti solo al IV secolo (S.Sabina, a Roma).
Le dispute riguardo alla giustezza o meno di raffigurare la natura umana di Cristo diede origine alla lotta iconoclasta, fino a che il VII Concilio ecumenico (II Niceno), convocato dall’imperatrice Irene nel 787, non stabilì la distinzione fra adorazione e venerazione: l’adorazione spettava unicamente a Dio, la venerazione poteva essere tributata anche a delle creature, giacché l’onore reso ad un’immagine era diretto in realtà al prototipo, vale a dire alla persona rappresentata.
D. Del resto, professore, una soluzione bisognava pur trovarla, visto che il popolo sembra non possa fare a meno di rivolgere le sue preghiere a qualcosa di concreto, che si possa vedere e possibilmente anche toccare…
R. E’ così. Resta però da stabilire se sia stato giusto scegliere come simbolo principale e fondamentale del cristianesimo il Cristo inchiodato sulla croce.
Nel linguaggio religioso il simbolo ha la funzione di evocare attraverso qualcosa di noto e di quotidiano, qualcos’altro di non evidente, di profondo; esso, esprimendo un mistero altrimenti indicibile nel linguaggio comune, tende a collegare visibile ed invisibile, storico ed eterno. L’olio, ad esempio – usato per la cresima, l’unzione degli infermi, ed il battesimo – in senso diretto ed immediato indica ciò che impregna di sé le cose; che non può essere cancellato. Nell’antichità veniva anche usato come profumo e come mezzo a disposizione dei lottatori per sfuggire alla presa dell’avversario. In senso indiretto, figurato, il simbolo dell’olio rimanda ad altri significati: consacrazione indelebile, presenza dello Spirito testimoniata dal profumo, capacità, che il sacramento comporta, di sfuggire al male.
D. E il crocifisso?
R. Il significato indiretto, figurato, profondo del crocifisso, è quello della redenzione degli uomini attraverso il sacrificio di Cristo; da esso proviene, per un cristiano, un messaggio d’amore. Ma il messaggio immediato percepito da chi lo guarda, non è d’amore; è di odio. Il crocifisso diventa segno visibile della malvagità degli uomini. Quasi una beffa o una rivincita del diavolo: il simbolo del Bene può essere visto come il simbolo del Male da coloro che non conoscono il cristianesimo, da coloro che pur conoscendolo non lo comprendono o accettano, e soprattutto dai bambini, i quali non sono ancora in grado di comprendere il senso del sacrificio del Signore.
D. I cristiani dunque avrebbero scelto un simbolo sbagliato?
R. Esattamente. E’ stato un grave errore scegliere un simbolo che non risponde, anche nel significato immediato, letterale, al messaggio evangelico, che è solo ed unicamente d’amore. Se Gesù fosse stato condannato, secondo l’usanza ebraica, alla lapidazione, o alla morte col fuoco, sarebbe stato uno sbaglio scegliere come simbolo del cristianesimo, l’immagine di Gesù ucciso da pietre, oppure di Gesù immerso nel letame fino alla vita, con la parte superiore del corpo coperta di stoppa, ed in bocca una miccia accesa. Se invece, per ipotesi assurda, a quel tempo fosse esistita la sedia elettrica, sarebbe stato assurdo scegliere come simbolo fondamentale della religione cristiana, l’immagine del Signore legato su quell’orribile strumento di morte, sotto l’effetto delle scariche elettriche.
Questi simboli, per chi non conosce il significato del sacrificio di Cristo, avrebbero sortito l’identico effetto del crocifisso: un effetto inquietante.
Vede, se gli apostoli avessero chiesto a Gesù risorto con quale immagine volesse essere ricordato ai posteri, si può essere certi che egli non avrebbe mai espresso il desiderio di essere raffigurato agonizzante sulla croce. In realtà è molto probabile che il Signore non avrebbe mai acconsentito che gli uomini venerassero immagini, ma se lo avesse tollerato, si può ragionevolmente immaginare che avrebbe risposto: «Raffiguratemi nell’atto in cui sono stato riconosciuto ad Emmaus». Mi riferisco all’episodio raccontato da Luca[4]: i discepoli riconobbero Gesù risorto solo nel momento in cui egli, pronunciando la benedizione, spezzò e distribuì il pane.
D. In effetti, il Signore stesso, nell’ultima cena, aveva scelto questo gesto per istituire il sacrificio eucaristico, anticipando quello della croce.
R. Infatti. Il simbolo della «frazione del pane», oppure l’immagine di Gesù nell’atto di lavare i piedi agli apostoli, sarebbe stato rispondente in tutto al messaggio evangelico, e non avrebbe turbato nessuno.
Del resto si può anche essere certi che coloro che conobbero Gesù e crederono in lui, per riguardo e rispetto, non avrebbero mai ricordato il Maestro, effigiandolo in condizioni pietose.
D. Nessuno lo farebbe per una persona cara. Come ha potuto la Chiesa incorrere in simile errore?
R. E’ un discorso complesso. Esiste un aspetto malato, anomalo, fuorviante del cristianesimo. Gli apostoli, vedendo Gesù risorto, superarono il momento di smarrimento che li aveva assaliti alla vista del loro Maestro condannato ad una pena infamante. Molti cristiani invece, tra cui alcuni santi, non hanno mai superato l’angoscia del venerdì; non sono arrivati alla gioia della domenica. Gesù, secondo il Vangelo, ha vinto la morte, il male, e quindi la croce. Molti cristiani, forse inconsciamente, non si sono mai sentiti salvati e (in quanto santificati) resi simili a Dio. La colpa del peccato originale, si è tramutata in una colpa peggiore: l’aver crocifisso il Figlio di Dio, e quindi Dio stesso.
Gemma Galgani, la povera ragazza lucchese, ignorante e psicotica, di cui parlo nel mio libro La sposa di Gesù crocifisso, fu vittima inconsapevole di questo falso cristianesimo. Non aveva mai fatto del male a nessuno, ma a tal punto si sentiva colpevole della morte in croce di Cristo, e quindi degna solo dell’inferno, da infliggersi assurdi patimenti, a causa dei quali morì anzi tempo. Tra l’altro, la madre di Gemma, aveva l’abitudine di mostrare spesso alla bimba ancora piccola, le piaghe di Gesù crocifisso; morta la mamma, l’abitudine passò poi alle monache che si occuparono di lei…
D. A questo punto professore, la sua opinione riguardo al crocifisso nelle aule scolastiche si può indovinare…
R. A mio parere togliere il crocifisso dalle scuole non solo è giusto nei riguardi degli alunni appartenenti ad altre religioni, ma anche nei riguardi degli alunni cristiani, e specialmente dei bambini, di quei piccoli che Gesù non voleva fossero scandalizzati.
D. Allora ci si potrebbe limitare ad esporre la sola croce.
R. Si potrebbe, giacché, non essendo più usata da secoli come strumento di pena capitale, non ha alcun significato immediato angosciante; difficilmente, infatti, alla sua vista si corre col pensiero al fatto che anticamente fu usata per torturare ed uccidere[5]; mentre è impossibile che lo immagini chi non ne conosce la storia. Bisognerebbe però esporla nelle scuole frequentate esclusivamente da alunni di fede cristiana, perché ad alunni di fede diversa, come non è lecito imporre la nostra religione, così neppure è lecito imporre il simbolo che la rappresenta.
D. In conclusione, professore, lei ritiene giusta la sentenza del tribunale dell’Aquila?
R. Mi sembra ragionevole, e in armonia con la morale evangelica. Del resto la scuola pubblica non è una chiesa, né una casa, ed io credo che il Signore non solo si staccherebbe volentieri dalla croce, ma se n’andrebbe via da un luogo poco adatto come le scuole dove, tra l’altro, (lo dico per esperienza diretta) non tanto raramente gli arrivano bestemmie da alunni poco educati[6].

4. Opinioni di alcune personalità della cultura italiana riguardo alla presenza del crocifisso nelle istituzioni pubbliche

· LIDIA RAVERA: «...Ho cercato di opporre quel sorriso, melanconico, distaccato, timidamente angosciato, al dilagare inquietante di proposte clericocentriche come quella (leghista) di appendere un crocifisso in ogni ufficio pubblico (naturalmente “nel pieno rispetto di tutte le convinzioni religiose” ah sì?), invece di toglierlo, come sarebbe logico, anche dalle scuole ... Pensavo: ma davvero l’icona del Cristo in croce, che già mi turbava da bambina, me la dovrò trovare anche in banca, anche all’ufficio postale? Invece di aprirci ad una società multietnica, una forza ottusamente, protervamente monoculturale, forza tutte le barriere, mira a occupare ogni spazio. Che privilegio occulto consente ai cattolici di ritenersi rappresentanti unici di spiritualità e valori, ragioni e virtù?...» (dall’articolo «L’ora di religione e il crocifisso», pubblicato sul quotidiano l’Unità del 16 maggio 2002).
· CORRADO AUGIAS, giornalista: «...abbiamo a che fare non si è capito bene se con la stupidità o l’arroganza o forse con entrambe, nel senso di stupida arroganza. Ammesso che i cattolici siano ancora maggioranza in questo Paese (Civiltà Cattolica lo metteva recentemente in dubbio) un elementare dovere costituzionale imporrebbe di astenersi da ogni ostentazione di supremazia...».
· IURI MARIA PRADO: «La Lega Nord propone che nelle scuole e negli uffici pubblici sia imposto il crocifisso, “emblema di valore universale della civiltà e della cultura cristiana”. Si tratta di un’iniziativa sbagliata, con motivazioni inaccettabili e con effetti pericolosi. È sbagliata perché pretende di imporre, a tutti, un simbolo che non è di tutti: e che non si dovrebbe imporre nemmeno se tutti lo considerassero sacro. Ha motivazioni inaccettabili perché se pure fosse vero, come sostiene la Lega Nord, che l’immagine del Cristo in croce “fa parte integrante della nostra storia e delle tradizioni del nostro Paese”, tuttavia lo Stato laico non avrebbe il compito, né il potere, di mettere nella legge i “valori” e di imporne l’accettazione: nemmeno se si trattasse, come non si tratta di valori “di tutti”. E ha poi conseguenze pericolose, questa iniziativa, se non adeguatamente contrastata, perché legittima analoghe richieste, da parte di altri, fondate su altrettanti “valori” che fino a prova contraria avrebbero, almeno per lo stato laico, lo stesso ... “valore”... ne va di questioni urgenti e delicate come i rapporti in via di sviluppo con comunità di persone e con culture che nel nostro Paese, ormai, rappresentano realtà non trascurabili... l’Italia ... deve “comunicare” ... una totale assenza di “valori”, specie di quelli imposti per legge... come unico valore qui da noi c’è la legge uguale per tutti con diritti uguali per tutti, e solo in questa comunità di doveri e di diritti sta la “giustizia” della nostra società. Pari diritti: e cioè il diritto ad uno Stato che non ha “una” religione, ma “nessuna” religione, di modo che “tutte” le religioni davvero siano libere. L’obiezione è che il crocefisso imposto a scuola o in ufficio non significa imporre un culto o impedirne un altro. Ma è un’obiezione poveramente avvocatesca e senza senso, e per due motivi. Primo, perché quel simbolo, quantunque non ne sia obbligatoria l’adorazione, è comunque, appunto, un “simbolo”, e per ciò qualifica in modo esclusivo (in modo che “esclude”) la realtà civile che lo impone e alla quale si impone. Secondo, perché fonda il diritto alla giustapposizione di altri simboli, quelli di altra gente e di altre culture, cui non si potrebbe impedire domani di chiedere, in luogo del crocefisso, questo o quel diverso totem di altrettanta sacralità. Con quale diritto, infatti, si negherebbe la legittimità di una simile pretesa, e cioè il fatto che scuole e uffici siano ispirati ai simboli di altre divinità? Con nessun diritto, ma solo con la forza di una legge sbagliata e, appunto, pericolosa. Mentre la nostra forza, nei confronti delle diverse persone e culture ormai presenti in Italia, e soprattutto nei confronti di quelle che inevitabilmente sono destinate a diventarne parte, la nostra forza dovrebbe essere “spoglia” di qualunque Tradizione, di qualunque Storia che non sia quella della libertà e della neutralità dello Stato rispetto a ogni “valore”... evitare di imporre agli altri il nostro Dio, per evitare che gli altri ci impongano il loro.» (dall’articolo «Nessuna legge ci imponga il crocefisso», pubblicato sul quotidiano Libero del 16 maggio 2002).
· ALDO AROUET, giornalista: «...la verità è un’altra. Il crocifisso rappresenta solo ed unicamente i cristiani, quindi una religione, e non certamente una “civiltà”, a meno che non si voglia riconoscere l’inquisizione come civiltà. Dice ancora Preti che il crocifisso rappresenta anche gli ebrei. Nulla di più inesatto, come bene ha affermato il professor Amos Luzzatto che in una dichiarazione ha detto, e giustamente, che il crocifisso è solo uno dei simboli, e non il simbolo di tutti, e sottolineerebbe le differenze, anzichè attutirle...» (dall’articolo «Ma il Crocefisso rappresenta soltanto la religione cristiana», pubblicato sul quotidiano l’Avanti del 22 settembre 2002).
· DAVIDE GIACALONE, giornalista: «...Nelle nostre scuole di religione se ne frequenta poca, non troppa, ed in queste condizioni il crocefisso diviene il banale simbolo del nulla. Non sono credente, non ho ricevuto l’agostiniano dono della fede, ma se lo fossi, e pur non essendolo, chiederei, e chiedo, maggiore rispetto per la figura del Cristo, non lo vorrei, e non lo voglio, degradato ad icona dell’ovvio, dello scontato, del banale. Ma se quel crocefisso viene appeso per ricordare quali sono le origini della “nostra civiltà”, se gli si da un valore storico, individuando una presunta ed ininterrotta continuità fra il messaggio di Gesù, l’opera della chiesa e i valori del nostro mondo, bè, allora lo stacco e lo ripongo, con rispetto, in un cassetto...» (dall’articolo «Ma quale crocefisso!», pubblicato sul quotidiano L’Opinione del 21 settembre 2002).
· GIORGIO MONTEFOSCHI, scrittore: «...lo stato italiano è uno stato laico: una comunità che si fonda su valori laici. Anche se alcuni partiti politici si richiamano a valori cristiani, questo non vuol dire nulla. Sono solo «alcuni» partiti; e il complesso della società civile vive e, di tanto in tanto, si confronta, si modifica e si giudica, rinnovandosi, sulla base di principi laici. I fondamenti della fede cristiana sono invece immutabili. Per evitare confusioni indebite, più degli altri i cristiani dovrebbero difendere la laicità dello Stato.» (dall’articolo «Il crocifisso sta bene nelle chiese, tutto il resto lasciamolo a Cesare», pubblicato sul quotidiano Corriere della Sera del 24 settembre 2002).
· LORENZO MONDO, giornalista: «...Il Crocifisso, per chi crede, più che su un muro spoglio deve restare impresso sulla parete animata della coscienza.» (dall’articolo «Il segno di Cristo non si sottopone a referendum», pubblicato sul quotidiano La Stampa del 22 settembre 2002).
· STEFANO ZECCHI, giornalista: «...Come la famiglia, la scuola è un luogo fondamentale di formazione dei giovani, ma a differenza della famiglia tra i banchi di classe il professore insegna a convivere con idee diverse, con realtà sociali differenti. Nelle aule scolastiche abbiamo imparato ad essere liberali e socialisti, a stare insieme con i più ricchi o con i più poveri di noi. Se un professore è stato bravo, lo ricordiamo perché ci ha insegnato il rispetto che si deve a chi è socialmente diverso da noi, a chi la pensa diversamente da noi...» (dall’articolo «Dietro la cattedra metterei...», pubblicato sul quotidiano Il Giornale del 22/09/2002).
· GIORGIO LA MALFA, senatore: «...le religioni non si impongono con i simboli...».
· ELENA MONTECCHI, deputato: «...è la bandiera e non il crocifisso il segno dell’identità nazionale [...] i dirigenti politici non dovrebbero contribuire ad aumentare gli integralismi e le crociate contro i cittadini che professano la religione islamica...».
· VALDO SPINI, senatore: «I crocifissi stanno nei luoghi di culto, nelle chiese, nei cuori degli uomini e delle donne che hanno fede in Gesù Cristo Salvatore. L’idea di imporlo per legge non porta assolutamente a nulla».
· GIANNI LONG, presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI): «L’esposizione [...] di un unico simbolo religioso contraddice i nostri principi costituzionali».
· ASSOCIAZIONE «NOI SIAMO CHIESA», CHIESA VALDESE ITALIANA, CHIESA BATTISTA ITALIANA: «...atto clericale ed antivangelico...».
· ALBERTO MONTICONE, senatore, ex presidente dell’Azione Cattolica: «...È sbagliato ridurre il crocifisso a semplice emblema delle pur rilevanti ed essenziali radici cristiane del nostro paese...».
· AMOS LUZZATTO, presidente della Unione delle Comunità Ebraiche: «...Quando una maggioranza impone i suoi simboli alle minoranze c’è da preoccuparsi...».
· GIORGIO TONINI e LUIGI VIVIANI, senatori: «Il Crocifisso di Stato verrebbe ridotto a simbolo pagano, non a caso considerato “adorabile” anche dai sacerdoti del dio Po».
· GLORIA BUFFO, deputato: «È uno schiaffo allo Stato laico e alla libertà religiosa».

L’opinione di un costituzionalista: «La mia opinione — spiega il costituzionalista Gianni Ferrara a Liberazione — è che il concordato non impone in alcun modo che il crocefisso, simbolo della cristianità, debba essere obbligatoriamente esibito nei luoghi pubblici, in una scuola come in un qualsiasi ufficio postale.

Come si è arrivati alla esposizione dei crocefissi

Malgrado le apparenze il nostro è uno stato laico e sarebbe sorprendente che la presenza di un simbolo religioso fosse addirittura obbligatoria». Fu, infatti, il fascismo, già prima del Concordato, a introdurre il crocifisso prima nelle aule delle scuole elementari, nel 1922, poi in ogni altro ordine e grado, nel 1926. In quegli stessi anni la pratica venne estesa agli uffici pubblici in genere e da ultimo giunse la circolare che allargò l'obbligo del crocifisso anche alle aule giudiziarie. «Questa ingerenza — precisa Ferrara — non era prevista in realtà neppure dal primo concordato del 1929. Figuriamoci se una disposizione del genere possa essere ottemperata dal testo emendato nel 18 febbraio 1984, in cui si stabilisce la natura facoltativa dell'insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Osservando poi il protocollo addizionale dello stesso testo, si tiene conto delle intese tra stato italiano e santa sede solamente per quel che riguarda il reclutamento dei professori e in generale per regolare i complicati rapporti tra i provveditorati e la curia. In nessun passaggio s'impone la presenza del crocifisso». Per trovare nella storia costituzionale dell'Italia un testo che avalli la contaminazione tra statualità e confessione religiosa bisogna compiere un salto all'indietro nel passato. «Credo - conclude Ferrara - che solamente nell'antico Statuto Albertino, che, riferendosi alla chiesa apostolica romana, determinò il concetto di religione di stato, fossero scritte tali disposizioni. Il nostro è un paese strano, in cui le persone sono convinte di essere cattoliche anche se poi non sono praticanti accaniti. Il crocifisso appeso dietro la cattedra è un costume assolutamente arbitrario che deriva da questo pigro automatismo. E chiunque voglia toglierlo per difendere la laicità dello stato, o per non offendere chi professa un'altra religione, sappia che sta compiendo un gesto per nulla contrario al dettato costituzionale».

Le sentenze della Corte di Cassazione

Va in questa direzione, del resto, una sentenza del primo marzo 2000 della Corte di Cassazione — passata sotto silenzio — che ha annullato la condanna di un cittadino che nel '94 si rifiutò di assumere l'incarico di scrutatore a causa della presenza di un crocifisso nell'aula. Ed è sempre nella laicità dello Stato che altre due sentenze della Corte costituzionale individuano la garanzia di un «regime di pluralismo confessionale e culturale» (n.203 del 1989) e della «libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici» (n.467 del 1991). A questo va aggiunta la tutela della «sfera intima della coscienza individuale» e l'interpretazione dell'articolo 19 della Costituzione che tutela la libertà di religione non solo positiva — per l'una o l'altra confessione — ma anche negativa, cioè anche la professione di ateismo o di agnosticismo. Da segnalare, infine, la campagna dell'UAAR, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, lanciata sotto il titolo «Scrocifiggiamo l'Italia»[7].

5. Il ricorso presentato dall’autore alla magistratura

TRIBUNALE CIVILE DI L’AQUILA

RICORSO per provvedimento di urgenza ex art. 700 c.p.c.
per il Sig. Adel Smith, nato ad Alessandria d’Egitto il 09.03.1960 e residente ad Ofena (AQ) largo S. Pietro 1, elettivamente domiciliato a L’Aquila, Via XX Settembre n. 19 presso e nello studio dell’Avv. Dario Visconti che lo rappresenta e difende in virtù di procura stesa a margine del presente atto,

premesso

· che l’istante, cittadino italiano, risiede da tempo in Largo S.Pietro n.1 di Ofena, unitamente alla propria famiglia composta di madre, moglie e n. 3 figli : Adam, nato il 18.12.1997, Khaled, nato il 20.11.1999 e David;
· che l’intero nucleo familiare professa la religione islamica e l’istante è Presidente dell’Unione Musulmani d’Italia;
· che, in occasione dell’inizio dell’anno scolastico, l’istante ha potuto verificare che nei locali in cui si svolgeva l’attività didattica che riguardava anche i propri figli era esposto in maniera evidente il crocefisso simbolo riferibile a coloro che professano la sola religione cristiana;
· che, al fine di pervenire alla protezione della minoranza religiosa, l’istante veniva autorizzato dalla maestre, a collocare anche un quadretto riportante un versetto della Sura 112 del Corano;
· che, inopinatamente, il Direttore e Responsabile della Scuola “Antonio Silveri” di Ofena, il giorno successivo, ordinava la rimozione del quadretto de quo;
· che il permanere del solo crocifisso e l’azione commissiva di togliere altro simbolo religioso costituisce atto discriminatorio costituente distinzione, esclusione, restrizione e preferenza fondata sulla sola religione cattolica comportante convinzione e, quindi, soppressione e limitazione del riconoscimento del godimento e dell’esercizio dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali su una base di eguaglianza;
· che la Repubblica italiana non è più uno stato confessionale bensì uno stato laico;
· che detta laicità dello stato è stata affermata dalla Corte Costituzionale – per la prima volta con la sentenza n. 203 del 1989 – e da essa qualificata quale “principio supremo dell’ordinamento costituzionale”;
· che l’affermazione ora detta si fonda – in base all’autorevolissima interpretazione del giudice costituzionale – su alcune norme della carta fondamentale poste sia tra i principi fondamentali (artt. 2, 3, 7 ed 8 cost.) sia tra quelle disciplinanti i rapporti civili di cui al titolo I della parte (artt. 19 e 20 cost.) che sono perciò atte a delineare la laicità come «profilo della forma di stato delineata nella carta costituzionale della Repubblica»;
· che, perciò, rispetto a detti fondamentali parametri normativi, l’esposizione del crocifisso in luoghi appartenenti alle pubbliche amministrazioni si pone su di un piano di totale ed insanabile incompatibilità;
· che detta incompatibilità deve essere fondata su vari elementi: in primo luogo deve osservarsi che il crocifisso è stato reintrodotto prima nelle aule delle scuole elementari (circ. min p. i. 22.11.1922) e poi di ogni ordine e grado (circ. min. p.i. 26.05.1926) nonché negli uffici pubblici in genere (o.m. 11.11.1923 n. 250) e nelle aule giudiziarie (circ. min. g.g. 29.05.1926) in ragione dell’allora risorgente neo–confessionismo statale; il che emerge – chiaramente – dalla circolare min. p.i. del 26.05.1926 per la quale si trattava di fare in modo che «il simbolo della nostra religione, sacro alla fede e al sentimento nazionale, ammonisca ed ispiri la gioventù studiosa, che nelle università e negli studi superiori tempra l’ingegno e l’animo agli alti compiti cui è destinata»
· che il crocifisso deve essere considerato, perciò, simbolo di carattere prettamente uniconfessionale non potendo valere, in senso contrario, le argomentazioni del ministero dell’interno che, pur riconoscendo la mancanza di un fondamento normativo, argomentavano (in risposta ad un quesito del Ministero della Giustizia di cui alla nota del 05.10.1984) di poter ritenere ancora valide le circolari prima citate in base all’art. 9 L. 121/1985 recante gli accordi di modificazione del concordato lateranense;
· che, infatti, detto art. 9, nel quale si afferma che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, è dettato in materia di insegnamento religioso nella scuola pubblica, insegnamento che ha carattere facoltativo, limitato, cioè, agli alunni che espressamente dichiarino di volersi avvalere dell’insegnamento ora detto;
· che, dunque, detto art. 9 non può valere ad autorizzare l’amministrazione ad emanare norme interne dal contenuto più disparato né, tantomeno, volte all’affissione obbligatoria del crocifisso; una lettura del genere, infatti, oltre a travalicare e stravolgere la portata della norma, la renderebbe antinomica rispetto al principio costituzionale di laicità dello stato;
· che altre argomentazioni – pure sostenute dal ministero dell’interno nella nota succitata – e relative al crocifisso quale «simbolo di questa nostra civiltà» e «segno della nostra cultura umanistica e della nostra coscienza etica» sono prive di alcun fondamento positivo e comunque insostenibili alla luce delle argomentazioni deducibili e dedotte dalla costituzione;
· che, perciò, i locali appartenenti alle pubbliche amministrazioni della Repubblica italiana in quanto luoghi ove i pubblici ufficiali ad esse preposti formano ed esprimono la volontà della p.a., volontà imparziale e neutrale, non possono recare simboli confessionali evocanti in maniera non equivocabile esclusivismi e condizionamenti non costituzionalmente giustificabili né tantomeno compatibili col principio di laicità che comporta la neutralità statuale in materia religiosa (sulla neutralità quale aspetto della laicità si veda la sentenza n. 235 del 1997 della Corte Costituzionale);
· che, ulteriormente, in applicazione di detti principi richiamati, il legislatore ordinario è intervenuto a modificare le norme di legge concernenti il giuramento nel processo civile e penale eliminando giuramento davanti alla divinità sulla scorta di quanto ancora dedotto dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 149 del 1995) per cui «la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo al fine dello stato» dovendo, invece, un ordinamento pluralista riconoscere le diversità delle posizioni di coscienza evitando di fissare il quadro dei valori di riferimento;
· che, perciò, non possono che essere considerate non più vigenti le circolari prima citate che dispongono dell’affissione del crocifisso nei locali di competenza di codesta amministrazione le quali, dunque, non debbono avere alcun valore applicativo;

MOTIVI

Violazione del principio di laicità dello Stato (artt. 3 e 19 della Costituzione, art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848). Violazione del principio di imparzialità dell’amministrazione (art. 97 della Costituzione).
La Corte Costituzionale, come è noto, ponendo a fondamento delle sue ormai storiche decisioni:
l’art. 19 Cost., che tutela la libertà di religiose non solo positiva ma anche negativa, vale a dire anche la professione di ateismo o di agnosticismo (Corte cost., 10 ottobre 1979 n 117; Corte cost. 8 ottobre 1996 n .334);
l’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che tutela la libertà di manifestare «la propria religione o il proprio credo»;
e l’art. 3 Cost. che garantisce l’uguaglianza di tutti i cittadini;
ha più volte solennemente riaffermato il principio di laicità dello Stato. Laicità intesa come garanzia del pluralismo confessionale e culturale (Corte cost. 12 aprile 1989 n 203; Corte cost. 19 dicembre 1991 n. 467). Ed ha dichiarato essere la laicità principio «supremo» dell’ordinamento costituzionale, una supernorma (Corte cost. 8 ottobre 1996 n. 334), che su ogni altro ha «priorità assoluta e carattere fondante» (Corte cost. 5 maggio 1995 n. 149).
Richiamandosi a questa ferma ed esplicita giurisprudenza costituzionale la Corte di Cassazione (sez. IV° pen., 1° marzo 2000 n. 439) ha ritenuto giustificato il rifiuto di assumere le funzioni di scrutatore da parte di un cittadino al quale non era stata garantita l’assenza del crocefisso dal seggio elettorale.
Ma è soprattutto con riguardo alla presenza dei crocefissi e di altri simboli religiosi nelle aule scolastiche che viene in rilievo il principio di laicità dello Stato e della parità che deve essere garantita a tutte le religioni e a tulle le credenze, anche a–religiose; parità che viene sicuramente violata dalla presenza, con carattere oggi peraltro di esclusività, di un simbolo religioso, quale il crocefisso o la foto del «Papa», nelle aule scolastiche.
La delibera impugnata costituisce aperta e palese violazione dei suesposti principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico.
Essa è altresì da reputare illegittima per eccesso di potere per la sua interna sopra denunciata contraddittorietà logica. Non può invero affermarsi che la scuola debba educare gli studenti «al rispetto della libertà di idee e di pensiero per tutti» e, nel contempo, negare ciò, dicendo che nella scuola debbono essere presenti i simboli religiosi appartenenti peraltro ad una sola determinata confessione religiosa. Pertanto, è giusto che detta delibera sia annullata.
Violazione del principio di laicità dello Stato (artt. 3 e 19 della Costituzione, art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848); violazione del principio di imparzialità dell’amministrazione (art. 97 della Costituzione).
Dall’art. 19 della Costituzione, che tutela la libertà di religione non solo positiva ma anche negativa, vale a dire anche la professione di ateismo o di agnosticismo (Corte cost., 10 ottobre 1979 n. 117; Corte cost. 8 ottobre 1996 n. 334), dall’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che tutela la libertà di manifestare "la propria religione o il proprio credo", e dall’art. 3 della Costituzione che garantisce l’uguaglianza di tutti i cittadini, la Corte costituzionale ha ricavato il principio di laicità dello Stato; intesa, la laicità, come garanzia del pluralismo confessionale e culturale (Corte cost. 12 aprile 1989 n. 203; Corte cost. 19 dicembre 1991 n. 467). E l’ha dichiarata, la laicità, principio "supremo" dell’ordinamento costituzionale (Corte cost. 8 ottobre 1996 n. 334), che su ogni altro ha "priorità assoluta e carattere fondante" (Corte cost. 5 maggio 1995 n. 149).
Richiamandosi a questa ferma ed assolutamente esplicita giurisprudenza costituzionale la Corte di Cassazione (sez. IV° pen. 1° marzo 2000 n. 439) ha ritenuto giustificato il rifiuto di assumere le funzioni di scrutatore da parte di un cittadino al quale non era stata garantita l’assenza del crocifisso dal seggio elettorale, muovendo dalla considerazione che "l’imparzialità della funzione di pubblico ufficiale è strettamente correlata alla neutralità dei luoghi deputati alla formazione del processo decisionale nelle competizioni elettorali, che non sopporta esclusivismi e condizionamenti sia pure indirettamente indotti dal carattere evocativo, cioè rappresentativo del contenuto di fede, che ogni immagine religiosa simboleggia", e che il supremo principio di laicità dello Stato e il pluralismo che esso garantisce "induce a preservare lo spazio pubblico della formazione e della decisione dalla presenza, e quindi dal messaggio sia pure a livello subliminale, di immagini simboliche di una sola religione".
Il rifiuto del Ministro dell’Interno, manifestato col silenzio dopo la diffida, di garantire la "neutralità" dei seggi elettorali è, dunque, illegittimo. E (considerazione, quest’ultima, irrilevante sotto il profilo della legittimità ma non per quanto attiene al termine che il Tribunale assegnerà al Ministero per provvedere, se a questo si ridurrà la sua pronuncia) rischia di viziare le prossime consultazioni elettorali o almeno di porre le premesse di diffuse contestazioni nei seggi.
La nota 3 ottobre 2002, prot. n. 2667, esordisce affermando la vigenza delle disposizioni che disciplinano l’esposizione obbligatoria del crocifisso nelle aule scolastiche, disposizioni contenute nell’art. 118 del r.d. 30 aprile 1924, n. 965, recante disposizioni sull’ordinamento interno degli istituti di istruzioni media, e nell’art. 119 del r.d. 26 aprile 1928, n. 1297, che detta il regolamento generale sull’istruzione elementare, nonché nella tabella C a quest’ultimo allegata.
Sommariamente richiamate pronunce e pareri resi da organi giurisdizionali e consultivi in ordine all’attuale vigore delle disposizioni in parola, la nota invita i destinatari del provvedimento a richiamare l’attenzione dei dirigenti scolastici sull’esigenza che sia data attuazione alle norme indicate mediante le iniziative idonee ad assicurare la presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche e sull’opportunità di riservare appositi ambienti alle attività di raccoglimento e di riflessione, nel rispetto delle diverse convinzioni e credenze.
Con la direttiva prot. n. 2666, in pari data, il Ministro invita il competente Dipartimento del Ministero dell’Istruzione, università e ricerca a impartire le occorrenti disposizioni perché sia assicurata da parte dei dirigenti scolastici l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche e perché ogni istituzione scolastica, nell’ambito della propria autonomia e su delibera dei competenti organi collegiali, renda disponibile un apposito ambiente da riservare, fuori dagli obblighi e orari di servizio, a momenti di raccoglimento e di meditazione dei componenti della comunità scolastica che lo desiderino.
Dell’esistenza dei provvedimenti indicati in epigrafe la ricorrente Unione ha avuto notizia da un articolo pubblicato sul quotidiano La Repubblica il giorno 14 dicembre 2002, mentre ha potuto conoscere il contenuto degli stessi soltanto in data 23 dicembre 2002, tramite la consultazione del sito internet www.edscuola.it, che riproduce il testo delle due circolari, le quali non risultano invece essere pubblicate nel sito del Ministero della Istruzione, università e ricerca scientifica.
Benché l’intenzione di adottare provvedimenti diretti a reintrodurre il crocifisso nelle aule scolastiche fosse stata preannunciata dal Ministro della Istruzione in risposta a un’interrogazione parlamentare alla Camera, le due circolari del 3 ottobre sono rimaste sconosciute all’opinione pubblica fino a quando non ne ha dato notizia il citato articolo di La Repubblica del 14 dicembre 2002. Prima di tale data, era ignoto il fatto stesso che il Ministro avesse già assunto delle determinazioni conformi alle intenzioni dichiarate alla Camera.
Violazione di legge, data l’abrogazione delle norme poste a fondamento dell’attività commissiva ed omissiva de qua.
Il fondamento normativo della nota e della direttiva impugnate è individuato dall’autorità emanante in risalenti disposizioni regolamentari: il r.d. 30 aprile 1924, n. 965, ove si disponeva, all’art. 118, che ogni istituto d’istruzione media e secondaria avesse la bandiera nazionale, ogni aula il crocifisso e il ritratto del Re; e il r.d. 26 aprile 1928, n. 1297, che all’allegato C, indicava tra gli arredi e il materiale occorrente nelle varie classi della scuola elementare, accanto al ritratto del Re e agli strumenti didattici in dotazione alle varie classi (lavagna, pallottoliere, ecc.), anche il crocifisso.
Le disposizioni indicate, tuttavia, nella parte in cui prevedono l’esposizione obbligatoria del crocifisso debbono ritenersi incompatibili con la Costituzione repubblicana e pertanto da questa abrogate, esattamente come le norme che prevedono l’affissione nelle aule scolastiche del ritratto del Re.
Il punto è stato affrontato dalla Corte di cassazione, sez. IV penale, nella sent. 1 marzo 2000, n. 2925, Montagnana, in Foro it. 2000, II, 527, nella quale si afferma l’avvenuta abrogazione delle richiamate norme regolamentari che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche per effetto del venire meno del loro presupposto, rappresentato dal principio della religione cattolica come religione di Stato. Dal momento in cui tale principio non è più in vigore – e il superamento di esso va ricondotto all’entrata in vigore della Costituzione o, comunque, al sopravvento dell’Accordo del 1984 di revisione dei Patti Laternanensi, nel quale si dichiara (nel preambolo del Protocollo addizionale) che le parti riconoscono di comune intesa non più vigente l’art. 1 dello Statuto Albertino – viene a mancare il fondamento logico delle norme che imponevano l’apposizione del simbolo.
Né varrebbe obiettare che, in virtù di una eterogenesi dei fini, queste disposizioni che facevano corpo con un principio che non appartiene più all’ordinamento giuridico possono trovare la loro giustificazione nella valenza della religione cattolica quale religione della maggioranza, con una conversione analoga a quella subita dalla nozione penalistica di «religione dello Stato». Il richiamo di questa ratio è precluso dal fatto che in materia di religione non vale l’argomento della maggioranza. Come ha avuto modo di ribadire ancora di recente la Corte costituzionale, «in forza dei principi fondamentali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art. 3 della Costituzione) e di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (art. 8 della Costituzione), l’atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti di queste ultime, senza che assumano rilevanza alcuna il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa (sentenze nn. 925 del 1988, 440 del 1995 e 329 del 1997) e la maggiore o minore ampiezza delle reazioni sociali che possono seguire alla violazione dei diritti di una o di un’altra di esse (ancora la sentenza n. 329 del 1997), imponendosi la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza (così ancora la sentenza n. 440 del 1995), ferma naturalmente la possibilità di regolare bilateralmente e quindi in modo differenziato, nella loro specificità, i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica tramite lo strumento concordatario (art. 7 della Costituzione) e con le confessioni religiose diverse da quella cattolica tramite intese (art. 8)» (Corte cost., sent. 508/2000, in Giur. cost. 2000, 3968 s., relativa al reato di vilipendio della religione dello Stato).
Anche qualora non si ritenesse che le disposizioni regolamentari richiamate siano state caducate per il solo fatto del superamento del principio della religione di Stato, le medesime debbono ritenersi abrogate ai sensi dell’art. 15 delle pre–leggi, in quanto contrastanti con le norme costituzionali relative al fenomeno religioso, come si dirà subito.
È appena il caso di notare che non rappresenta in alcun modo un argomento a favore della vigenza delle disposizioni in discussione la circostanza – fatta valere dal Ministro – che esse non siano dichiarate espressamente abrogate o modificate dal testo unico sull’istruzione (d.lgs. 297/1994), che raccoglie soltanto le fonti di rango legislativo o dal d.lgs. 6 marzo 1998, n. 59, che ha a oggetto la dirigenza scolastica: tali atti, in ogni caso, non avrebbero avuto motivo di occuparsi di norme da considerarsi già abrogate in precedenza.
Violazione degli art. 3, 7, 8, e 19, Cost. e del principio supremo della laicità dello Stato.
1. Il trattamento privilegiato accordato al simbolo di una determinata confessione religiosa appare incompatibile con il principio generale di eguaglianza, che assume proprio la religione tra gli indici specifici che non possono essere assunti a fondamento di disparità normative. L’imperativo di eguaglianza è ribadito, con riguardo alle confessioni religiose, anche nell’art. 8, comma 1, Cost., e pertanto anche questa disposizione risulta direttamente lesa dagli atti impugnati.
A far salva la legittimità dei provvedimenti non è sufficiente la compensazione rappresentata dalla concessione di spazi di preghiera e di meditazione da offrire, all’interno della scuola ma fuori dagli obblighi e dagli orari di servizio, anche agli alunni appartenenti a culti diversi da quello cattolico. Altro è, infatti, la messa a disposizione di locali per attività extrascolastica, altro l’adozione di un simbolo che, assunto come proprio dall’istituzione–scuola, implica adesione e condivisione da parte di questa.
Il privilegio attribuito alla religione cattolica, o al gruppo di religioni di matrice cristiana, contrasta poi con il principio di laicità dello Stato. Questo, pur non significando indifferenza dello Stato innanzi alla religione, comporta però «equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose» (Corte cost., sent. 329/1997, in Giur. cost. 1997, 3340).
Proprio facendo riferimento a questi parametri costituzionali la Corte costituzionale ha reputato illegittima la tutela più intensa accordata dalla legge penale ai simboli (e alle persone) venerate dalla religione cattolica, annullando pertanto l’art. 724 c.p. nella parte in cui punisce la bestemmia contro i Simboli e le Persone con riferimento esclusivo alla religione cattolica, con conseguente violazione del principio di uguaglianza (Corte cost., sent. 440/1995, in Giur. cost. 1995, 3482).
2. La presenza di un simbolo religioso nelle aule delle scuole pubbliche configura poi una violazione del diritto alla libertà religiosa degli alunni. Anche senza bisogno di condividere la dogmatica fatta propria dal Tribunale costituzionale federale tedesco nella sent. 16 maggio 1995 (pubblicata in Quad. dir. pol. eccl. 1995/3, 808 ss.), che sviluppa dal diritto fondamentale alla libertà religiosa anche il profilo della «protezione dall’esposizione» (Konfrontationsschutz), non è difficile vedere come la garanzia di cui all’art. 19 Cost. tuteli direttamente anche il momento negativo.
Né varrebbe obiettare che l’esposizione coattiva a un simbolo non rappresenta una lesione della libertà negativa di religione dei singoli, in quanto non costringe nessuno al compimento di atti di culto o all’adozione di comportamenti che possano contrastare con il proprio credo.
È la valenza simbolica – e dunque la specifica funzione che è propria dell’oggetto – a rappresentare un’intrusione nella sfera di libertà negativa del singolo; e se tale intrusione deve essere sopportata allorché l’esibizione simbolica proviene da un soggetto privato che esercita in questo modo la propria libertà di religione, lo stesso non può dirsi allorché sia un potere pubblico a esporre simboli religiosi in luoghi in cui il privato sia costretto a recarsi in osservanza di un obbligo giuridico. Del resto, accedere all’idea che sottoporre una persona a pratiche od atti religiosi non rappresenta una violazione della libertà di religione di costei, se non le è richiesta una partecipazione attiva, conduce alla conseguenza inaccettabile di ritenere legittima l’imposizione, da parte del potere pubblico, di celebrazioni religiose a soggetti che a esse non intendono assistere.
Certo un emblema rappresenta qualcosa di meno di una funzione religiosa: ma si tratta di distinzione attinente al grado e non alla sostanza.
La lesione della libertà di religione dei singoli a opera di istruzioni che pretendono di imporre l’esposizione del crocifisso va colta anche nella circostanza che esse promuovono determinate convinzioni religiose, reputandole implicitamente più pregevoli delle altre, con violazione del principio – discendente dall’art. 19 Cost. e dall’incompetenza dello Stato in materia di scelte religiose – della pari dignità delle convinzioni di coscienza.
3. Sotto un diverso profilo, la violazione dell’imperativo di laicità dello Stato va ravvisata nella violazione del principio secondo cui lo Stato è incompetente in materia religiosa, non potendo riconoscere maggiore pregevolezza a un determinato credo rispetto agli altri. Assumere a proprio simbolo quello di una religione significa manifestare adesione a questa, preferenza che è preclusa, oltre che dal principio di eguaglianza in materia di religione, dalla regola della separazione tra ordine civile e ordine spirituale, affermata espressamente nell’art. 7 e implicita negli artt. 8 e 19 Cost.
Se lo specifico effetto dei simboli con cui l’autorità pubblica si presenta all’esterno è quello di svolgere una funzione di integrazione materiale nei confronti dei cittadini, nella forma della rappresentazione di contenuti di valore storico–attuali, come vuole una assai autorevole dottrina costituzionalistica (R. SMEND, Costituzione e diritto costituzionale [1928], Milano 1988, 102), è palese come tale compito non possa essere assolto da un emblema che rappresenta una parte soltanto dei consociati. L’adesione ai valori ai quali esso allude non può, infatti, che essere frutto di una scelta individuale e personalissima, che non può essere imposta, e nemmeno suggerita, dallo Stato.
Diverso, per esempio, è il caso della bandiera nazionale che è «espressione della dignità dello Stato medesimo nell’unità delle istituzioni che la collettività nazionale si è data» (così Corte cost., sent. 531/2000, in Giur. cost. 2000, 4167 s.) e che è l’unico simbolo che la Costituzione riconosce e tutela (art. 12 Cost.). E non a caso tutti i simboli dello Stato italiano – retto da una Costituzione che aspira a essere la «casa comune di tutti gli Italiani» – sono neutrali da un punto di vista religioso, perché in essi possano riconoscersi tutti i cittadini, in un’appartenenza che non discrimina.
A ben vedere, poi, il vero fattore di integrazione va ravvisato proprio nelle libertà, che permettono a ciascuno un’adesione convinta, priva di riserve mentali, all’ordinamento, in quanto esso consente a tutti l’esplicazione della propria personalità entro i limiti in cui questa non viene a collidere con quella degli altri; non invece in simboli che, per lo stesso motivo per cui aggregano taluni, escludono altri e creano divisione.
Violazione degli artt. 1 e 2 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297 e dell’art. 33 Cost.
La nota e la direttiva, nella parte in cui invitano l’autorità scolastica ad assicurare l’affissione nelle aule del simbolo di una determinata confessione, sono incompatibili con gli art. 1 e 2 del d.lgs. 297/1994, che individuano la finalità dell’insegnamento, e quindi dell’istituzione scuola, nella promozione attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, della piena formazione della personalità degli alunni, nel rispetto della loro coscienza morale e civile e contrastano altresì con il principio obiettivo di libertà dell’insegnamento (art. 33 Cost.), che ne importa la neutralità e l’aconfessionalità. Lo svolgimento delle lezioni sotto il segno di una determinata confessione, invece, può indurre a pensare che l’insegnamento sia soggetto all’influenza di quella religione. Con considerazioni analoghe il Tribunale federale svizzero, I corte di diritto pubblico, sent. 26 settembre 1990 (in Quad. dir. pol. eccl. 1990/1, 352 ss.) ha reputato incompatibile con il carattere non confessionale dell’insegnamento, prescritto dall’art. 27, comma 3, della costituzione federale (e correlato alla garanzia della libertà di religione di cui all’art. 49 della carta costituzionale svizzera), di far appendere il crocifisso nelle aule scolastiche, adottata da un municipio: pur dando atto che il provvedimento dell’autorità poteva essere inteso come espressione dell’attaccamento alla tradizione e ai fondamenti cristiani della civiltà e cultura occidentale, il Tribunale federale ha osservato come lo Stato garante della neutralità confessionale della scuola pubblica non può avvalersi della facoltà di manifestare in ogni circostanza, nell’ambito dell’insegnamento, il proprio attaccamento a una confessione e deve evitare di identificarsi con una confessione maggioritaria o minoritaria, pregiudicando così le convinzioni dei cittadini con religioni diverse.
È appena il caso di dire che l’esigenza di serbare il carattere neutrale dell’insegnamento non è menomata della presenza nei programmi scolastici di autori ed eventi della civiltà cristiana, oggetto di studio storico–critico, bensì dall’adesione anche solo simbolica a un sistema confessionale.
Violazione del principio di imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.).
La preferenza accordata al simbolo di una religione particolare appare poi – indipendentemente dalle considerazione svolte in ordine ai principi costituzionali in materia di religione – inconciliabile con il canone di imparzialità dell’azione amministrativa, che impone di serbare un’equidistanza rispetto a soggetti che l’ordinamento impone di trattare in modo eguale.
Non ignora il ricorrente che il Consiglio di Stato, sez. II, nel parere reso al Ministro della pubblica istruzione in data 27 febbraio 1988, n. 68, (in Quad. dir. pol. eccl. 1989/1, 197 ss.) in ordine agli effetti del superamento del principio della religione di Stato sulla permanenza in vigore delle norme sull’esposizione del crocifisso, ha affermato che il simbolo in parola è espressione di una tradizione culturale che non necessariamente va identificata con la religione cattolica.
Benché non possa essere contestato che, in astratto, l’apposizione del crocifisso nei locali pubblici possa essere giustificata con argomenti diversi da quello della religione dello Stato, è da segnalare che nell’ordinamento italiano l’introduzione del simbolo in parola non si lega affatto a una tradizione culturale, ma risponde – storicamente, ma anche attualmente – a un preciso intento religioso. Significativamente, è lo stesso Ministro ad affermarlo nella nota, in cui correla l’obbligo di esporre il crocifisso alla predisposizione di spazi di preghiera e per lo svolgimento di attività religiosa, manifestando quindi che l’ordine entro il quale intende muoversi è quello spirituale non quello della cultura e della storia. La stessa giurisprudenza, ai fini della repressione penale del delitto di offesa alla religione dello Stato mediante il vilipendio di cose di cui all’art. 404 c.p., ha sempre considerato il crocifisso come oggetto di culto della religione cattolica (si veda Cass., sez. III, 28 ottobre 1966; Pret. Roma, sent. 6 novembre 1980, in Rep. Foro. it. 1994, 5660, n. 2).
In secondo luogo, pur ammettendo che il crocifisso sia anche un simbolo culturale, ciò non toglie che esso obiettivamente conservi un significato religioso (disconoscerlo significherebbe ledere la libertà religiosa dei cattolici): e dal momento che ogni simbolo o cerimonia si presta a essere giustificato in modo laico (se non altro dal punto di vista antropologico), l’importanza culturale non è sufficiente perché alla collettività sia imposto un simbolo religioso. Anche laddove l’affissione obbligatoria del crocifisso perseguisse una finalità secolare, l’esibizione del simbolo avrebbe l’effetto immediato di favorire una confessione e di sfavorirne altre e implicherebbe una commistione eccessiva tra Stato e Chiesa, inconciliabile con la separazione dell’ordine civile da quello religioso.
Il parere citato del Consiglio di Stato, inoltre, risale a un’epoca in cui il principio costituzionale di laicità dello Stato non era ancora stato «scoperto» e in cui l’interpretazione giurisprudenziale del principio di eguale libertà delle confessioni religiose, di cui all’art. 8, comma 1, Cost., ne limitava la portata ai profili negativi della libertà stessa, di talché la tutela privilegiata e, in generale, i trattamenti preferenziali accordati a una confessione religiosa erano reputati non in contrasto con il principio medesimo. La successiva giurisprudenza costituzionale ha invece chiarito come l’eguale libertà vada estesa – salva la legittimità delle discipline derogatorie adottate ai sensi degli artt. 7, comma 2 e 3, e 8, comma 3, Cost. – anche ai risvolti positivi e promozionali, dal momento che il concetto costituzionale di libertà comprende anche la dimensione positiva, come si ricava dall’art. 3, comma 2, Cost.; a partire dagli anni Novanta, sono state così dichiarate incostituzionali, per violazione del principio dell’eguale libertà, le norme che prevedevano l’attribuzione di provvidenze economiche a talune soltanto delle confessioni religiose (così nella sent. 195/1993, in Giur. cost. 1993, 1335, che fa riferimento al principio di eguaglianza «nella sua più ampia accezione, comprendente la considerazione dei contenuti di libertà “in positivo” giusta la formulazione del secondo comma del citato art. 3»; nel medesimo senso si veda anche la sent. 346/2002, in Foro it. 2002, I, 2937 s.) e quelle che riconoscevano una tutela penale più intensa alla religione cattolica di quella accordata ai culti acattolici (cfr. le già citate sent. 440/1995 e 508/2000, aventi a oggetto rispettivamente il reato di bestemmia e di vilipendio della religione dello Stato; nonché le sent. 329/1997, in Giur. cost. 1997, 3338 ss., e 327/2002, in Foro it. 2002, I, 2941 s., che dichiarano l’illegittimità della diversa quantificazione della pena per il reato di vilipendio della religione e per quello di turbato delle funzioni religiose, a seconda che la condotta abbia a oggetto la religione cattolica o un culto diverso).
Per prevenire possibili obiezioni giova sottolineare come sarebbe del tutto incoerente – a sostegno della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche – il richiamo all’art. 9, comma 2, dell’Accordo di revisione del Concordato, che dichiara i principî del cattolicesimo «parte del patrimonio storico del popolo italiano». L’affermazione, infatti, anche per il suo tenore letterale e per l’inciso in cui si colloca, ha la portata limitata di fungere da ratio giustificativa della permanenza dell’insegnamento religioso impartito nella scuola pubblica, che rimane comunque – per necessità costituzionale – facoltativo, e non è certo idonea a dare copertura a una confessionalizzazione dell’istruzione o dei comportamenti dell’autorità scolastica. Un’interpretazione estensiva del disposto evocato lo esporrebbe del resto a censure di legittimità per contrasto con principi supremi dell’ordinamento costituzionale.
Non è accettabile rimuovere un simbolo religioso per compiacere fedeli di altri culti, e far questo significa avere forse “sensibilità” nell’affrontare i problemi posti dall’integrazione culturale degli immigrati o di appartenenti a altre fedi, ma testimonia certo della totale incultura giuridica relativamente al diritto di libertà di tutti – tutelato dal nostro ordinamento – di sottrarsi ad un messaggio religioso imposto, qualsiasi esso sia. Non si è infatti più rispettosi della laicità dello Stato se al crocefisso si sostituisce “l’altarino dei simboli religiosi”, tanto più che ogni religione ha posizioni giustamente diverse rispetto alla simbologia religiosa.
È utile partire dalla sentenza ultima della Cassazione, la 439–2000, che ci pone di fronte a un’efficace ricognizione e ricostruzione di tutte le norme concernenti l’affissione del crocifisso e pertanto la sentenza assume portata generale. (in tal senso: De Oto A., Presenza del crocifisso o di altre immagini religiose nei seggi elettorali: la difficile affermazione di una “laicità effettiva“ – Osservaz. a Cass.Pen. n. 439 del 2000, “Q.D.P.E.”, 2000/III).
L’ottimo lavoro dell’estensore della sentenza, rigoroso e puntuale nella ricostruzione normativa, correttamente inserito nel più generale clima politico istituzionale nel quale quelle norme ebbero vita, permette di rilevare:
• che relativamente alla scuola, l’esposizione del Crocefisso fu introdotta mediante circolare nell’ottica della legge Lanza del 1857 per la quale l’insegnamento della religione cattolica era fondamento e coronamento dell’istruzione cattolica, posto che quella era la religione dello Stato (sul punto erroneamente Carulli Fumagalli O., Non è un’invenzione fascista l’insegnamento religioso inteso “quale fondamento e coronamento“ dell’istruzione, in Documentazioni di Iustitia, 15 gennaio 1978). La legge Boncompagni non fece che ratificare tale posizione. Successivamente il crocifisso fu definitivamente introdotto dalla C. M. P.I. 22 nov. 1922, che prepara il terreno al R. D. 1 ottobre 1923 n. 2185. Con tale norma l’insegnamento della religione cattolica diviene fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica e dunque il crocefisso è parte di quell’insegnamento diffuso della religione cattolica che permea di sé i programmi scolastici.
• Orbene se con il Concordato del 1984 l’insegnamento diffuso della religione cattolica è scomparso ed è stato abrogato il principio della religione di Stato mediante il punto 1 del protocollo addizionale, non sussistono più le basi normative che rendevano possibile imporre attraverso un provvedimento amministrativo l’esposizione di un simbolo religioso, il crocifisso, che era strumentale a quel tipo d’insegnamento. Ma vi è di più: l’art. 9 della legge 11 agosto 1984 n. 449 relativa all’Intesa con i Valdesi vieta esplicitamente l’insegnamento diffuso della religione cattolica. Le circolari ministeriali che ne ribadiscono l’esposizione andrebbero dunque impugnate davanti al giudice amministrativo chiedendone la disapplicazione, anche alla luce della ricordata sentenza della Cassazione, non limitandosi a porre la questione davanti ad un “tribunale domestico” come il Consiglio di Stato, ma avendo come fine ultimo quello di sottoporre la questione alla Corte Costituzionale.
• C’è poi da riflettere sul fatto che l’esposizione del crocefisso non avviene in un luogo a caso. Esso è posto o dietro l’insegnante, a significare che da quel simbolo, da quella matrice, discende l’insegnamento impartito, o sopra la porta della classe, a simboleggiare con il passaggio di studenti e docenti sotto di esso, sottomissione o comunque il porsi sotto la sua protezione. Come si vede il messaggio lanciato attraverso l’esposizione simbolica del Crocifisso, per le modalità con le quali viene resa operativa, non è collegabile al patrimonio storico del popolo italiano, ma bensì ad un inaccettabile ed anacronistico imperio della religione sulla scienza ed il sapere.
• Analogo discorso va fatto per le aule di giustizia dove il messaggio del crocefisso posto dietro le spalle del collegio giudicante, e segnatamente in corrispondenza dello scranno del Presidente della Corte, ricorda a tutti – al di la dei riferimenti normativi che fa Coppola – che la giustizia, quella giustizia, è amministrata anche in nome del Cristo raffigurato in effige.
• Viene da chiedersi, viste alcune sentenze, se quel Cristo esposto sulla croce serve più allo Stato e ai giudici per conferire maggior peso alle loro decisioni che a ricordare le origini storiche del popolo italiano! Ed è inevitabile riflettere che forse il Dio lì richiamato è quello della vendetta e della punizione piuttosto che quello cristiano ritenuto dell’amore e del perdono.
• Similmente negli uffici pubblici l’apposizione del crocefisso vorrebbe imprimere all’organizzazione strumentale dello Stato e degli Enti pubblici quel carisma, quell’ulteriore prestigio che incita al rispetto delle istituzioni, mescolando ancora una volta ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, rivestendo di significati religiosi i servizi pubblici erogati, che, in quanto pubblici, dovrebbero invece essere assolutamente neutrali.
• Meglio tacere dell’esposizione del crocifisso negli ospedali, dove l’apposizione del simbolo religioso avviene in un contesto ove il soggetto titolare del diritto di libertà è particolarmente debole e quindi per ragioni intuibili, delle quali per buon gusto e umanità non vorrei discutere, è poco incline a considerare prioritaria una efficace tutela della sua identità religiosa o non religiosa.
Sulla base delle considerazioni su esposte mi chiedo se sono proprio sicuri i credenti di servire Dio e la fede chiedendo di perpetuare l’esposizione di un simbolo ricco di significati religiosi che per le modalità e le motivazioni per le quali avviene risulta in ultima analisi essere strumentale. Non sarebbe meglio lasciare ai crocifissi i luoghi di sempre, le chiese e, ancora, la funzione di segnare una tomba, di indicare un luogo di devozione in campagna o in una strada, di lasciare che ciò che il simbolo rappresenta venga richiamate alla memoria dalle opere d’arte e letterarie?
Occorre confessare che dà fastidio leggere affermazioni – condivise dal filosofo Cacciari nella proposta di finanziamento della scuola privata cattolica in Veneto da lui sottoscritta (Progetto di legge n. 54, 19 sett. 2000. Atti del Consiglio Regionale, Regione Veneto) – che giustificano l’erogazione di denaro pubblico ad una attività confessionale con la motivazione che la cattolicità è uno dei caratteri distintivi del popolo veneto (!) e penso al crocefisso un’altra volta utilizzato, in nome della ricerca di una “identità” inesistente se intesa come “diversità” di una Regione che in passato si distinse per la sua resistenza al papato e all’Inquisizione e oggi vuole distinguersi dalle altre, marcando i confini con l’appartenenza religiosa, per invocare il federalismo!
Ho sempre ritenuto e ritengo che la società civile, l’associazionismo libero, debbano potersi difendere da simili speculazioni politiche, mobilitandosi, ricorrendo anche a provvedimenti cautelari e d’urgenza, (V.: Proto Pisani A., Lezioni di diritto processuale, Napoli 1999, 669 ss.) tutelando la laicità delle istituzioni pubbliche, consapevoli che il rispetto della libertà individuale non impone solo allo Stato ma anche alle istituzioni religiose e confessionali l’obbligo di fare un passo indietro e ritirarsi di fronte alla libertà di coscienza.
(Tutto ciò premesso della delibera della Provincia di Verona che dispone l’acquisto con denaro pubblico di mille crocefissi da affiggere nelle scuole e di altre delibere di Comuni, soprattutto del Nord–Est, di analogo contenuto, farebbe bene ad occuparsi la Corte dei Conti e la magistratura penale).
L’estensore della sentenza 439/2000 ha fatto un lavoro ottimo ed efficace. Non me ne meraviglio, peraltro, essendo la motivazione opera del prof. Nicola Colaianni noto per essere uno dei più attenti studiosi del diritto ecclesiastico contemporaneo. Moltissimo vale l’inappuntabile precisione nel richiamare le norme giuridiche concernenti l’affissione dei crocifissi nei pubblici locali. Norme tutte di rango sub–regolamentare, tutte alquanto vetuste e tali da essere, inevitabilmente, collocate in un ambito ben preciso. Ambito che è quello – lo dice chiaramente la motivazione – dell’instaurando confessionismo dello stato totalitario fascista e, pure, del disfavore verso le confessioni minoritarie ritenute fonte potenziale di sovversione [si veda il passo della relazione al progetto di legge sui culti ammessi riportato da S. LARICCIA, Coscienza e libertà, p. 136], della religione cattolica piegata ad instrumentum regni, fattore d’identificazione e coesione della nazione e del popolo italiano per questo, destinata ad assurgere in sé, di lì a qualche anno, perfino al rango di bene giuridico di più d’una norma incriminatrice oggi censurata, dopo lungo percorso interpretativo, dalla Corte Costituzionale. Ora pare difficile che questo crocifisso, per queste ragioni appeso al muro, possa ancora stare lì. Non lo consente il principio supremo della costituzione detto di laicità dello stato. Valga la chiara enunciazione del giudice di legittimità: “Il principio indicato implica un regime di pluralismo confessionale e culturale (c. cost. 12.4.1989 n. 203) e presuppone (…) l’esistenza di una pluralità di sistemi di senso o di valore, di scelte personali riferibili allo spirito o al pensiero, che sono dotati di pari dignità e, si potrebbe dire, nobiltà.” [cfr. Cass. pen., IV sez., n.439 del 2000, pag. 5 della motivazione]. Quelle circolari sono dunque morte (e di morte ingloriosa, secondo me) e sepolte: la loro espulsione dal sistema delle fonti è dato di fatto acquisito ed incontrovertibile alla luce dei principi.
È poi certamente vero, per altro verso, che tanto si può dire – e tanto è stato pur detto – sul principio supremo di laicità. Qui è bene stare, però, alla consolidata interpretazione che ne dà, da tempo, la Corte costituzionale (e che, fedelmente, la Cassazione ha richiamato), servendosene come primario canone ermeneutico atto a preservare da ogni personale, e come tale opinabile, (più che errata, mi consentirà il prof. Coppola) concezione di laicità. Ebbene anche alla stregua di questa laicità, attiva e plurale e che non tollera esclusivismi, la compatibilità crocifisso–costituzione non c’è. La prova ultima ce l’ha data, con comportamento concludente, la stessa Corte costituzionale.
Dubito, d’altronde, che possa, in senso opposto, servire l’ulteriore valenza culturale del crocifisso. Questo criterio è stato per lunghi anni utilizzato – sia perdonata l’osservazione irriverente – a mo’ di “foglia di fico”: in tante sentenze, in qualche parere, vari organi di giurisdizione superiore ne hanno fatto uso, spesso eccessivamente spregiudicato, per rileggere e salvare dati normativi precostituzionali di chiara valenza confessionista. Da ultimo, invece, il criterio medesimo sembrerebbe patire una certa desuetudine; vorrei dire: “meglio tardi che mai” ma temo che recenti avvenimenti destinati ad entrare nella storia, possano indurre ad improvvide – dal mio punto di vista – retromarce. È certo, comunque, che, a suo tempo, il crocifisso non venisse esposto ad evocare, accademicamente, il comune humus culturale degli italiani; oggi, in ogni modo, riterrei difficile far valere l’accordo del 1984 e le sue costantemente late, elastiche sino all’ambiguità, enunciazioni per trovarne un supporto anche men che solido alla sua esposizione. D’altronde se la copertura costituzionale, ex art. 7 co. 2 cost., dell’accordo di villa Madama – pure contestata con robuste e logiche argomentazioni da cospicua quanto autorevole dottrina (tra gli altri Botta, F. Finocchiaro, Lariccia) – è, indirettamente, “suggerita” [come dice R. BOTTA, Manuale di diritto ecclesiastico, pag. 108] dalla Corte Costituzionale non va, comunque, dimenticato che la stessa Corte insegna che le norme pattizie sottostanno ai principi supremi. Cosicché s’impone una loro interpretazione conforme al principio di laicità volta a preservare la coerenza complessiva dell’ordinamento, altrimenti, da tutelare con le inevitabili, cogenti, censure del caso.
Se la Costituzione, all’art. 3, menziona il divieto di discriminazione per motivi di religione, non si vede come l’esposizione del crocifisso non discrimini taluni cittadini rispetto ad altri in base alla religione: quella in esame essendo una questione di un simbolo non collettivo, comporta un trattamento differenziale per il cittadino di religione per esempio buddhista rispetto a quello di religione cattolica o valdese.
Non si può fare a meno di sollevare dubbi sulla idoneità della attuale regolazione relativa all’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche: tale regolazione è contenuta in norme di rango sublegislativo.
Tornando alle opzioni di politica del diritto: cui prodest l’esposizione del crocifisso nelle suole pubbliche? Certo, a evidenziare una opzione confessionale dello Stato (in tale caso sarebbe in contrasto con l’art. 7, 1° comma).
Un simbolo, che non vale di certo una Messa, quella celebrata il 22 dicembre scorso, per la prima volta dai tempi di Gregorio XVI, nella sede della Corte costituzionale, dove il quadro di Perin del Vaga continua a troneggiare in sostituzione del Crocifisso.
Infine, il significato diseducativo del crocifisso non può essere taciuto. Ciò richiede di entrare nel merito del senso di quel simbolo: esso serve, come purtroppo è servito in passato, a cristianizzare un potere o ad affermare una autorità. Il crocifisso appeso sui muri delle aule scolastiche è uno scampolo gratuito di catechismo erogato tacitamente anche agli acattolici, in una sede non idonea. In questo senso esso dà luogo ad una propaganda subliminale, una forma di proselitismo coatto, in favore delle sola confessione cattolica, costituendo così prova di totalitarismo e di fondamentalismo.
Il crocifisso ha tutto il diritto di trovare posto nell’ambito privato: nelle chiese, nelle case dei cattolici, nei musei (quando è il caso) e ciascun cattolico può avere una catenina con il crocifisso al collo o tenerlo in tasca o appuntato al bavero. Ma metterlo, per imposizione, negli edifici pubblici è un uso improprio, che offende anche alcuni cattolici, poiché non è più un oggetto di culto, ma serve a marcare il territorio, serve allo Stato (integralista in tal caso) a riaffermare che la religione «normale» è quella cattolica, e tutte le altre, escluse dai privilegi accordati alla religione cattolica, risultano discriminate.
L’identificazione della cultura italiana con quella cattolica, e solo quella cattolica, è un’offesa a tutte le altre culture, religiose (e non) presenti nel nostro paese: musulmani, ebrei, protestanti, valdesi, metodisti, avventisti, testimoni di Geova, buddisti, indù, agnostici, atei e via dicendo. Nessuno deve arrogarsi il diritto e permettersi di identificare e far coincidere l’identità religioso–nazionale e quindi collettivamente di tutti gli italiani con quella della Chiesa cattolica.
Il fatto che i cristiani favorevoli usino un argomento “laico”, quello del patrimonio culturale, non è di per sé risolutivo: qualunque cosa può essere giustificata in tal modo “laico”, ciò non significa automaticamente che questo passaggio logico debba essere acriticamente accettato. Vi è stato, ad esempio, chi ha giustificato la sospensione delle lezioni in scuole pubbliche per atti di culto della religione cristiana per la loro importanza culturale, ma negli ultimi anni la giurisprudenza amministrativa, nel plauso quasi unanime, non ha accettato quell’impostazione.
Ne consegue che i crocifissi possano restare quando l’insieme degli studenti (se maggiorenni, o dei loro genitori se minorenni) di una scuola pubblica vi colgano tutti pacificamente, implicitamente, un comune significato culturale (oltre a quello di fede dei soli cristiani); se viceversa anche un solo alunno ritenga di essere leso nella propria libertà religiosa negativa essi andrebbero rimossi.
Non è affatto anacronistico chiedere la rimozione del crocifisso, quando esso rimane dove era non per una sorta di inerzia burocratica, ma perché si vuole rimanga proprio in nome del suo significato simbolico, avvalorando così le ragioni di chi non lo vuole.
Difendere l’esposizione pubblica del crocefisso significa trattarlo alla stregua della bandiera italiana o di altro simbolo della Repubblica: il che è evidentemente del tutto improprio e – oso credere – neppure gradito ai cristiani; lo spessore evocativo della croce per la sua drammaticità storica, etica ed emotiva pare più intenso di quello della bandiera, ma – ed è questo che conta – anche completamente diverso: la bandiera simboleggia un’appartenenza che non discrimina, quella di essere cittadini della Repubblica, la croce invece un’appartenenza del tutto sprovvista di rilievo giuridico e che tale deve rimanere perché lo impone l’art. 3 Cost.; si dovrebbe poi credere che si tratti di un’appartenenza tanto privata ed intima da non essere mai omologabile. Immaginare che sia colui che non si riconosce in questa appartenenza a doversi attivare per chiedere la rimozione del simbolo è lesivo delle posizioni garantite alle minoranze, perché impone la manifestazione di un dissenso in una sede pubblica, imponendo di rendere noto un dato – il convincimento religioso – appartenente alla categoria dei dati sensibili, ai quali deve essere assicurata la riservatezza: sarebbe una discriminazione uguale a quella che operava fino alla riforma del concordato, quando era necessario chiedere di essere esonerati dalle lezioni di religione. La rimozione su richiesta si configurerebbe come un’obiezione di coscienza, senza che ve ne siano le condizioni; l’obiezione è lo strumento attraverso il quale vengono risolti taluni conflitti tra libertà di coscienza e dovere giuridico, ma qui di quel conflitto non c’è neppure l’ombra: la libertà di coscienza, nella sua veste prima e minima di libertà negativa, sta da sola di fronte al potere pubblico che deve manifestarsi neutrale. Non è in gioco un’usanza della casa suscettibile degli aggiustamenti dettati dalla reciproca cortesia, ma un principio supremo posto a tutela delle minoranze presenti sia tra gli ospiti che tra gli ospitanti.
La soluzione costringe chi non gradisca la presenza del crocifisso a dirlo apertamente, e ciò potrebbe configurare una violazione della privacy relativamente alle proprie convinzioni religiose (oppure, della libertà negativa di coscienza intesa in uno dei suoi possibili significati: quello di non essere costretti a rivelare le proprie convinzioni interiori).
Affinché l’invocazione di quei diritti si riveli utile occorre abbandonare la logica della rimozione a richiesta e mettere in discussione la legittimità delle norme sull’esposizione del simbolo: si tratta di vecchie norme fasciste (regi decreti e addirittura circolari) della cui vigenza la Cassazione ha di recente dubitato (sent. 439/2000, IV sez. pen.), ma che evidentemente continuano a trovare applicazione (fra l’altro, non riguardano le sole aule scolastiche ma più ampiamente gli uffici pubblici e le aule di giustizia).
Secondo la Cassazione norme di questo tipo costituiscono una delle «discipline di favore a tutela della religione cattolica». Sono una forma di privilegio per una confessione religiosa il cui simbolo religioso viene esposto in tutti i locali pubblici. La presenza di quel simbolo favorisce la confessione (o le confessioni) che in esso si riconoscono. Di conseguenza, le norme sull’esposizione del crocifisso favoriscono le persone che hanno certe convinzioni religiose rispetto alle persone che hanno convinzioni diverse (religiose o di altra natura).
A favore della legittimità delle norme si sostiene oggi che il crocifisso è anche un simbolo culturale (tanto che toglierlo dai locali pubblici costituirebbe «un attentato all’identità storica del nostro popolo»: così Biffi nel Tempo dell’8 maggio 1999). Siccome il crocifisso appartiene al patrimonio storico del nostro Paese le norme che ne prevedono l’esposizione non contrasterebbero con la Costituzione (Cons. stato, sez. II, parere 63/1988). Mi pare che questo argomento parta da una premessa vera per trarne una conseguenza falsa. Se non si può certo negare che il crocifisso faccia parte del nostro patrimonio culturale, appare infatti arbitrario dedurne la legittimità delle norme che ne prevedono l’esposizione nei locali pubblici. Distinguere i due piani, quello “culturale” e quello “normativo”, resta essenziale anche (e soprattutto) in questi tormentati giorni in cui è forte la tentazione di sovrapporli. Voglio dire che una cosa è constatare l’importanza di un simbolo culturale (in questo caso religioso), un’altra ritenere che tale importanza l’imponga a simbolo di tutta la collettività: solo la bandiera italiana è (o dovrebbe essere) un simbolo di tutti. Ne deriva che la ratio delle norme sull’esposizione del crocifisso non può essere riconoscere l’importanza di un simbolo culturale (che per questo solo fatto non “merita” di essere esposto in tutti gli uffici pubblici), ma, come dice la Cassazione, favorire chi in quel simbolo creda.
Del resto la legittimità delle norme di cui stiamo discutendo pare dubbia anche se volessimo ammettere che la loro ratio sia riconoscere l’importanza di un simbolo culturale. Ci sono infatti anche altri simboli culturali che contribuiscono a definire la nostra identità, non si vede perché solo questo debba essere appeso ai muri degli uffici pubblici assieme alla foto del Presidente della Repubblica. Oltretutto, se quel che conta è il messaggio culturale, quale soluzione migliore di quella del presidente Ruperto che ha messo un’opera d’arte al posto del crocifisso?
Dato che costituiscono una forma di privilegio, le norme sull’esposizione del crocifisso si pongono in contrasto con i parametri dell’eguaglianza e della laicità. La violazione del principio di eguaglianza è una conseguenza della disciplina ingiustificatamente differenziata di situazioni che sono simili perché caratterizzate dal riferimento alle convinzioni di coscienza. Alludo alla situazione di chi, per motivi di coscienza, si oppone all’esposizione del crocifisso e di chi, per gli stessi motivi, invece l’approva (ricordo che motivi interiori sono stati addotti anche dal protagonista della vicenda che ha portato alla sentenza della Cassazione, protagonista che non era mosso da ragioni “religiose” ma genericamente “laiche”). La violazione del principio di eguaglianza resta anche se si ragiona in punto di libertà religiosa anziché di libertà di coscienza: misure come queste alterano – per usare una brutta ma efficace espressione – la concorrenza sul mercato religioso penalizzando le confessioni religiose che non si riconoscono in quel simbolo. La violazione del principio di laicità dello Stato è invece una conseguenza del favore verso una visione (in questo caso religiosa) della vita rispetto alle altre. Infatti, come ha osservato la Corte costituzionale, la laicità impone una «distinzione fra ordine civile e religioso» (sent. 334/1996) e «comporta equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose» (sent. 329/1997).
Le misure relative all’esposizione del crocifisso incappano dunque contemporaneamente nella censura del principio di eguaglianza e di quello di laicità.
Le norme sull’esposizione del crocifisso violano direttamente la libertà di coscienza di chi abbia diverse convinzioni di coscienza (e, ovviamente, frequenti il locale). Siccome promuovono determinate convinzioni di coscienza reputandole implicitamente più meritevoli di altre, tali norme violano il principio della pari dignità delle convinzioni di coscienza che è presupposto dal disegno costituzionale.
Solo apparentemente paradossale, allora, è il fatto che non esista alcuna fonte primaria (nessun atto d’imperio rappresentativo) che imponga la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, e che tale discussa presenza si perpetui sulla labilissima base di circolari amministrative a loro volta fondate su atti regolamentari emanati in un ordinamento e una società a dir poco lontani (r.d. n. 4336 del 1860; r.d. n. 150 del 1908: cfr. L. ZANNOTTI, Il crocifisso nelle aule scolastiche, in Dir.eccl., 1990/2, 329). Si tratta di opinioni legittime, fintanto che restano nel libero mercato delle idee. Perché, allora, non dirsi “antichi romani” o “greci classici”, dato che di queste culture il cristianesimo è certamente debitore? Senza considerare quanto la nostra cultura occidentale, in generale, quella italiana, in particolare, sia debitrice dei contributi di pensatori “di formazione ebraica”. Come scrive Bellini, «la “cultura” o è “libera” ed è “critica”, o “non è”» (P. Bellini, Considerazioni critiche sull’insegnamento della religione cattolica, in Giur. cost., 1987, 411). E allora perché costringere, non solo gli alunni, ma prima ancora i professori della scuola pubblica a svolgere la propria funzione sotto insegne così pregnanti come il crocifisso? Chiedere a qualcuno di “spiegarsi”, quando in ballo ci sono le più intime convinzioni della coscienza, la cui segretezza è, fra l’altro, tutelata in via generale dall’ordinamento, è qualcosa di molto problematico, qualcosa che, per essere giustificato sul piano costituzionale, necessita di argomentazioni molto convincenti quanto al presunto “bene” che si vuol sostenere. Proviamo a ribaltare la fattispecie e a immaginare che, in una scuola italiana, esista una classe a maggioranza islamica i cui alunni richiedano, a sostegno e a memento della propria tradizione religioso–culturale, di appendere la mezzaluna alla parete. Non ci sentiremmo subito fortemente preoccupati per la libertà della minoranza e per i condizionamenti che possa così subire? Non esigeremmo dalla maggioranza musulmana ben più profonde motivazioni?
Guardando alla giurisprudenza italiana fin qui intervenuta, se analizziamo la decisione della Cassazione che, in pratica, ha ritenuto contrario alla costituzione l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici, in generale, risulta abbastanza chiaro come il giudice si sia accontentato di un superficiale accertamento circa l’effettiva violazione della libertà di coscienza della parte privata (Cass. pen., Sez. IV, 1 marzo 2000, n. 2925, in Giur. cost., 2000, 1121). Esattamente l’opposto di quanto avvenuto nel caso che ha giustificato la presenza del simbolo, in cui il giudice ha negato apoditticamente ogni possibile violazione della libertà di coscienza degli interessati (Cons. St., sez. II, parere 27.4.1988, n. 63, in QDPE, 1989/1, 197). Inviterei, tuttavia, a comparare le motivazioni di tali decisioni, per verificare come, nel secondo caso, la compatibilità con i principi costituzionali della misura contestata venga trattata in modo a dir poco superficiale: «Occorre, poi, anche considerare che la Costituzione Repubblicana, pur assicurando pari libertà a tutte le confessioni religiose, non prescrive alcun divieto alla esposizione nei pubblici uffici di un simbolo che, come quello del Crocifisso, per i principi che evoca e dei quali si è già detto, fa parte del patrimonio storico». (Eppure anche il busto di Cesare come quello di Mussolini fa parte del patrimonio storico). Mentre, secondo la Cassazione, in primo luogo non v’è la possibilità di ricorrere al fondamento testuale offerto dall’articolo 9 del nuovo concordato (che come noto renderebbe più arduo il controllo di costituzionalità). Se è vero che in esso lo Stato prende atto del fatto che «i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano», ciò avviene solo per dare fondamento alla scelta di continuare a impartire l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Inoltre, non sarebbe sostenibile «la giustificazione collegata al valore simbolico di un’intera civiltà o della coscienza etica collettiva», implicante, sempre per la Cassazione, il contrasto con il divieto di differenziazioni per motivi religiosi (3, 1° co., cost.). Efficacemente, qui, la Cassazione ricorda la più recente giurisprudenza costituzionale (sent. n. 329/1997), in cui si è esclusa la possibilità di richiamarsi alla “cosiddetta coscienza sociale” al fine di superare il divieto ex art. 3, 1° co., cost. e ammettere, in tal modo, discipline di favore a tutela della religione cattolica.
Limitiamoci a considerare solo la sent. “madre”, la 203/1989. Nella sentenza si afferma che il principio supremo della laicità costituisce «uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica» e si fonda sugli articoli 2, 3, 7, 8, 19, 20 della Costituzione (si afferma, cioè, quando dicevo un attimo fa: la laicità è un principio ricavabile dalla Costituzione). L’art. 8 comma 1 parla invece della libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge: questa libertà non sarebbe lesa (in qualche modo) da un’adesione dello Stato ad una sola di esse? Direi di sì, nella misura in cui le altre confessioni sarebbero sfavorite nella loro opera di proselitismo. Infine, l’art. 19 tutela la libertà di religione. Anche questa libertà sarebbe in qualche modo pregiudicata da un’identificazione dello Stato con una singola confessione religiosa, nella misura in cui la libertà religiosa negativa richiede che non vi siano condizionamenti come quello derivante dal sapere che una certa confessione è (mi si passi l’espressione) “sponsorizzata” dallo Stato.
Il testo costituzionale offre una serie di indicazioni concordanti nel senso che lo Stato non deve identificarsi con una sola visione religiosa della vita: che altro è questa se non la laicità?
Ciò mostra che l’eguaglianza senza distinzioni di religione di cui parla l’art. 3 comma 1 Cost. è strettamente legata alle situazioni disciplinate dagli artt. 8 e 19 Cost. Ciò significa che una corretta interpretazione di queste due previsioni non può prescindere dal considerare il profilo dell’eguaglianza, motivo per cui il raccordo fra l’art. 3 e l’art. 8 delinea il quadro per quanto riguarda i gruppi (le confessioni religiose) e il raccordo fra l’art. 3 e l’art. 19 delinea il quadro per quanto riguarda le persone. Aggiungo che in questa materia il principio di eguaglianza viaggia parallelo al principio di laicità dato che ciascun principio supplisce alle “carenze strutturali” dell’altro: da un lato, il meccanismo comparativo dell’eguaglianza accerta il diverso trattamento di situazioni simili, ma per stabilirne l’irragionevolezza ha bisogno del criterio offerto dalla laicità; d’altro lato, la laicità, che di per sé riguarda lo Stato, avrebbe un’efficacia solo indiretta sui diritti di libertà dei cittadini se non si accompagnasse al meccanismo comparativo dell’eguaglianza (è probabilmente anche per questo stretto collegamento fra i due princìpi che la sent. 203/1989 nell’indicare i riferimenti costituzionali della laicità si riferisce pure all’art. 3 Cost.).
Non credo che l’idea del “libero mercato” delle confessioni religiose sia estranea alla Costituzione. Per dimostrarlo si potrebbe ancora una volta citare la giurisprudenza costituzionale (per es. la sent. 195/1993). Ma quell’idea esce confermata anche guardando al testo costituzionale in chiave non strettamente letterale e vincolata alla (presunta) volontà del legislatore costituente. Lasciando per un attimo da parte la Chiesa cattolica, non è forse vero che la Costituzione parla di confessioni religiose al plurale, tutte ugualmente libere davanti alla legge? E libere di fare cosa, se non di agire nel loro proprio che è l’attività di proselitismo? Ora, se è vero quanto dicevo poc’anzi, dalla lettura aggiornata del testo costituzionale emerge un certo attenuarsi della ragioni distintive fra Chiesa cattolica e altre confessioni religiose (ovviamente la distinzione non salta del tutto: restano ferme, per esempio, le diverse modalità di regolazione dei rispettivi rapporti con lo Stato). Ciò mi pare corrisponda al consolidarsi del pluralismo e al potenziamento delle libertà avvenuti nel corso del tempo a partire dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. E proprio questo attenuarsi delle ragioni distintive ci consente di affermare che, sotto questo profilo, la Chiesa cattolica non si distingue dalle altre chiese, anch’essa opera nello stesso “mercato religioso” in condizioni di concorrenza.
In alcune situazioni diventa necessario richiamare la libertà di coscienza (come da ultimo ha cominciato a fare anche il legislatore con la legge 230/1998). Si tratta di situazioni in cui la tutela delle convinzioni interiori della persona è meglio assicurata dalla libertà di coscienza piuttosto che dalla libertà religiosa, perché si applica a tutte le convinzioni interiori e non solo a quelle di natura religiosa. È per questo che nella vicenda del crocifisso ritengo che possa essere utile il richiamo della libertà negativa di coscienza: perché tocca le convinzioni interiori della persona che frequenta il locale pubblico, di qualunque “tipo” esse siano.
La materia delle convinzioni interiori è uno di quegli spazi che le decisioni della maggioranza non possono liberamente occupare. Mettere simboli religiosi nei locali pubblici non è questione rimessa alla politica, ma questione che tocca delicatissime corde costituzionali, sottratta perciò alle decisioni della maggioranza parlamentare. Del resto, come non ricordare che la storia del costituzionalismo è tutta basata sulle (crescenti) limitazioni del potere della maggioranza in nome della tutela dei diritti di libertà?
La laicità intesa come “super-principio” ai sensi della giurisprudenza costituzionale, pur del tutto separata da sue accezioni in senso di separazione ostile, è gerarchicamente sovraordinata allo stesso Concordato e pone limiti precisi all’idea di un pluralismo sviluppato in senso preferenziale rispetto alla religione di maggioranza.
Oggi – e non ieri – la presenza del crocefisso nelle aule scolastiche, giudiziarie, negli ospedali e negli uffici pubblici offende il pluralismo religioso e la sensibilità di altri, appartenenti a fedi diverse da quella cristiana.
che il ricorrente, pertanto, in proprio e nella qualità esercente la patria potestà sui minori Adam e Khaled, frequentanti la scuola elementare e la scuola materna di Ofena, si trova nella urgenza di salvaguardare il diritto alla parità, alla personalità ed al sano sviluppo psichico dei propri figli che devono essere allevati in uno spirito di comprensione di tolleranza e di amicizia tra i popoli in relazione al diritto alla differenza che costituisce espressione della identità, sotto il profilo religioso tanto dell’individuo quanto del gruppo;
che la tutela invocata, essendo relativa ad un insopprimibile diritto dell’ uomo e quindi assoluto, consente di configurare la cosiddetta irreparabilità del pregiudizio ai fini dell’applicabilità dell’art. 700 c.p.c. volendo altresì tener conto della particolare e probabile incidenza nella psiche dei minori della immagine religiosa.

Tanto premesso,

CHIEDE

che l’Ecc.mo Tribunale dell’Aquila, in persona del Giudice designato, voglia ordinare alla Scuola Elementare “Antonio Silveri”, Via Savoia n.14 di Ofena (AQ), in persona del Legale Rapp.te, ovvero del Dirigente dell’Istituto Comprensivo di Scuola Materna ed Elementare di Navelli, la rimozione del simbolo cristiano presente nei locali dell’Istituto e specificatamente nelle aule materna ed elementare frequentate dai figli del ricorrente. Spese vinte in caso di immotivata opposizione. Si chiede l’acquisizione di informative di natura ricognitiva da parte dei Carabinieri di Capestrano circa la permanenza del simbolo cristiano nelle aule frequentate dai minori.
Ai soli fini di cui all’art. 9, della L. 23.12.1999 n.488, si dichiara che il valore della presente causa è indeterminabile e, pertanto, ai sensi del punto 4. della tabella allegata al decreto, il contributo unificato è pari a € 155,00.
L’Aquila, 30.09.2003
Avv. Dario Visconti

6. L’ordinanza del giudice dell’Aquila

TRIBUNALE DI L’AQUILA
IL GIUDICE DESIGNATO

Letti gli atti e i documenti di causa, a scioglimento della riserva di cui al verbale dell’udienza del 15 ottobre 2003, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel procedimento iscritto al n. 1383/2003 del Ruolo Generale degli Affari Contenziosi di questo Tribunale tra Smith Adel, in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sui minori […].
Con ricorso e art. 700 c.p.c., Adel Smith, in proprio e quale esercente la potestà sui figli minori Axxx Sxxx e Kxxx Sxxx, premesso che:

lo stesso, cittadino italiano, risiede in Ofena insieme alla propria famiglia, i cui componenti professano tutti la religione islamica; in occasione dell’inizio dell’anno scolastico ha potuto constatare che nei locali della Scuola materna ed elementare statale “Antonio Silveri” di Ofena, in cui si svolge l’attività didattica cui partecipano anche i figli dello stesso, vi è esposto il crocifisso, simbolo con valenza religiosa riferibile soltanto a coloro che professano la religione cristiana; autorizzato dalle maestre, il ricorrente ha affisso anche un quadretto riportante un versetto della Sura 112 del Corano, che è stato però rimosso il giorno successivo su disposizione del dirigente scolastico; il permanere dell’affissione del solo crocifisso costituirebbe lesione delle libertà di religione e di uguaglianza, costituzionalmente tutelati, tanto del ricorrente quanto dei figli minori, ponendosi peraltro in contrasto con il principio di laicità della Repubblica italiana affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 203 del 1989, che peraltro qualifica lo stesso come (principio supremo dell’ordinamento costituzionale);
ha domandato in via cautelare d’urgenza la rimozione del crocifisso dalle aule della scuola statale materna ed elementare frequentata dai suddetti figli minori.
Fissata l’udienza di comparizione personale delle parti, si sono costituiti tanto l’Istituto comprensivo di scuola materna ed elementare di Navelli, circolo didattico cui appartiene la Scuola materna ed elementare “Antonio Silveri” di Ofena, quanto il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, rappresentati e difesi dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, i quali:

preliminarmente, in rito, hanno eccepito la nullità del ricorso per aver agito il solo Smith per entrambi i figli minori, laddove l’art. 320 c.c. prescrive che la rappresentanza legale spetta congiuntamente ad entrambi i genitori; in via subordinata al mancato accoglimento di detta eccezione di nullità, hanno eccepito il difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordina ria per essere la questione oggetto del ricorso in esame devoluta dall’art. 7 della L. 21 luglio 2000, n. 205 alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo;
in via ulteriormente subordinata, hanno eccepito la nullità del ricorso per la mancata indicazione della domanda che il ricorrente intenderebbe proporre con l’instaurando giudizio di merito e, comunque, il difetto di irreparabilità del danno non solo per quanto attiene al ricorrente in proprio, ma anche in relazione ai figli minori (di sei e quattro anni), che non sarebbero suscettibili in ragione della loro tenera età di patire il danno lamentato; nel merito, hanno affermato che nell’ dei principi costituzionali, giuridici, di costume e della sensibilità sociale, non può negarsi che (tuttora permanente nella coscienza dei singoli e dei popoli la considerazione comune e universale di un principio di trascendenza superiore in cui tutte le religioni e tutti i credo anche laici, pur nelle diverse forme, confluiscono), principio che giustificherebbe, unitamente a quanto più volte affermato dalla Corte costituzionale in relazione alla tutela penale della religione cattolica, la permanenza del crocifisso nelle aule scolasti che; ha concluso per il rigetto del ricorso.

All’udienza di comparizione personale delle parti del 15 ottobre 2003, sentito personalmente il ricorrente e discusso il ricorso dai procuratori delle parti, questo Giudice si è riservato di provvedere.

DIRITTO

Preliminarmente, devono esaminarsi le eccezioni di nullità del ricorso formulate dai resistenti. Quanto all’eccezione di nullità del ricorso per non essere stata indicata la domanda che il ricorrente intenderebbe proporre nell’introdurre il giudizio di merito ai sensi dell’art. 669-octies c.p.c. in caso di accoglimento del ricorso, ad avviso di questo Giudice, la stessa non è fondata.
A ben vedere, infatti, le conclusioni rassegnate con il ricorso costituiscono chiaramente la domanda che il ricorrente intende proporre con l’instaurando giudizio di merito, ossia la condanna dell’Istituto scolastico alla rimozione del crocifisso dalle aule frequentate dai figli del ricorrente. Con le stesse si richiede, infatti, anche la condanna alle spese della contro-parte: orbene (cfr. pag. 30 del ricorso), sicché è di tutta evidenza come non possa trattarsi della domanda cautelare: come noto, in caso di procedimento cautelare ante causam, il giudice deve provvedere sulle spese dello stesso solo laddove rigetti il ricorso (art. 669-sep comma 2, c.p.c.).
È la cautela richiesta, piuttosto, ad essere contenuta nella narrativa del ricorso stesso, e in particolare nell’ultima parte dello stesso (cfr., in particolare, pag. 29), da cui si evince – peraltro, con tutta chiarezza – come il ricorrente invochi in via anticipatoria la rimozione del crocifisso dalla aule in parola. In verità, anche laddove non si voglia condividere quanto ritenuto da questo Giudice al riguardo, parimenti l’eccezione non potrebbe essere accolta.
Vero è che, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, si è ritenuto che è affetto da nullità il ricorso cautelare ante causam che non indichi la do manda che verrà fatta valere con l’instaurando giudizio di merito (cfr. Trib. Napoli, ord. 30 aprile 1997, in Foro it., 1998, 270; Pret. Vigevano - Sez. dist. Mortara, ord. 1° agosto 1995, ivi, 1996, I, 1864; Trib. Potenza, 29 marzo 1995, in Giur. merito, I, 405; per alcuno, il ricorso dovrebbe addirittura indicare petitum, causa petendi e conclusioni: cfr. Pret. Alessandria, ord. 16 marzo 1993, in Giur. it., 1993, I, 775, che ritiene altresì trattarsi di nullità insanabile, perché siffatto ricorso non sarebbe in grado di raggiungere lo scopo che gli è proprio, ossia il collegamento teleologico tra domanda cautelare e do manda di merito), ma si è prontamente escluso che l’onere di indicazione della domanda dell’instaurando giudizio di merito richieda un’analitica e necessariamente ben distinta formulazione delle conclusioni di merito. E ciò soprattutto laddove si consideri – come rilevato in dottrina – che la disciplina del rito ordinario di cognizione consente all’attore di integrare o precisare la domanda nel corso dell’istruttoria (art. 183, comma 5, c.p.c.).
Deve affermarsi, pertanto, l’ammissibilità del ricorso che contenga anche in modo implicito, ma inequivocabilmente, l’indicazione della do manda di merito (cfr. Trib. Trani, ord. 16 gennaio 1997, in Foro it., 1998, I, 2017; Trib. Nocera Inferiore, 1° agosto 1995, in Giur. iL, 1996, I, 238). Sicché nel caso in esame, in cui è inequivocabile che la domanda di merito sia la condanna della scuola pubblica a rimuovere il crocifisso dalle aule frequentate dai figli minori del ricorrente, non sussisterebbe comunque nullità alcuna del ricorso.
Parte resistente ha eccepito, inoltre, quanto alla cautela invocata da Adel Smith quale esercente la potestà sui figli minori, la nullità del ricorso in quanto proposto da un solo dei genitori, laddove l’art. 320 c.c. prevede la regola della rappresentanza congiunta dei genitori che esercitano la potestà sui figli minori.
Non ignora questo Giudice che si è ritenuto da parte di alcuno in dottrina che, quando sia promossa un’azione dei confronti di un minore, l’atto di citazione debba essere rivolto – a pena di invalidità (sanata dalla costituzione di entrambi) – ad entrambi i genitori, in quanto la rappresentanza del minore spetta agli stessi congiuntamente.
Nel caso in esame, però, viene in rilievo non il profilo passivo di un
rapporto processuale, ma l’esercizio dell’azione giudiziale in nome e per conto dei figli minori, fattispecie in relazione alla quale la giurisprudenza ritiene che, laddove non siano destinate ad incidere sul patrimonio del minore, non sia necessario l’esercizio con giunto da parte di entrambi i genitori (oltre alla preventiva autorizzazione del giudice tutelare) (in tal senso, alcune pronunce in materia di impugnazione davanti al giudice amministrativo proprio di provvedimenti dell’amministrazione scolastica: cfr. T.A.R. Lombardia, 9 giugno 1986, n. 284, in T.A.R, 1986, I, 2827; T.A.R. Abruzzo, Sez. Pescara, 10 maggio 1985, n. 157, in T.A.R, 1985, I, 2492; T.A.R. Calabria, Sez. Reggio Calabria, 13 dicembre 1984, n. 287, in T.A.R, 1985, I, 742).
La proposizione di una domanda giudiziale, anche cautelare, non deve essere necessariamente proposta da entrambi i genitori, benché la potestà genitoriale sia normalmente congiunta, per di più laddove – come nel caso all’esame di questo Giudice – si tratta di richiesta di provvedimento d’urgenza e, comunque, privo di incidenza sulla sfera patrimoniale dei minori e volto piuttosto ad ampliare la sfera giuridica soggettiva degli stessi, che si assume compressa nel suo pieno esplicarsi.
Esclusa la nullità del ricorso introduttivo, questo Giudice deve esaminare l’eccezione di difetto di giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, poiché – secondo l’assunto difensivo dei resistenti – la presente controversia rientrerebbe nella giurisdizione esclusiva sancita dall’art. 33 del D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, così come modificato dall’art. 7 della L. 21 luglio 2000, n. 205, per «tutte le controversie in materia di pubblici servizi» tra cui, in particolare, ai sensi della lettera e) del comma 2 di detta disposizione, quelle «riguardanti le attività e le prestazioni di ogni genere, [.] rese nell’espletamento di servizi pubblici, ivi comprese quelle rese nell’ambito [.] della pubblica istruzione».
Benché, ad avviso di questo Giudice, sia necessario tenere distinta la domanda – cautelare e di merito – proposta dal ricorrente in proprio e quella proposta dallo stesso quale esercente la potestà genitoriale sui figli minori, ciò non di meno comunque l’eccezione non è fondata e deve affermarsi la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria adita.
La lettera e) del comma 2 dell’art. 33 suddetto, infatti, prosegue escludendo espressamente dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo i «rapporti individuali di utenza con soggetti privati» e le «controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona».
Orbene, proprio considerando tali espresse esclusioni dall’ambito di estensione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nella materia dei servizi pubblici, procedendo alla qualificazione della domanda – rilevando a tal fine non il contenuto dei provvedimenti d’urgenza richiesti, bensì l’azione di merito che si intenda intraprendere, rispetto alla quale la cautela invocata si pone come strumentale – deve ritenersi sussistere la giurisdizione del giudice ordinario.
In primo luogo, infatti, deve rilevarsi come la pretesa di tutela del diritto inviolabile e costituzionalmente garantito di libertà religiosa dei figli minori del ricorrente, che si assume leso in conseguenza all’esposizione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica “Antonio Silveri” di Ofena (facente capo all’Istituto comprensivo di scuola materna ed elementare di Navelli che gli stessi frequentano, attiene al rapporto individuale di utenza del pubblico servizio di istruzione tra detti alunni e l’istituto scolastico alla cui attività i medesimi attendono.
Orbene, il legislatore del 1998-2000, nel prevedere un riparto di giurisdizione per settori omogenei di materie – con criterio, in verità, non esente da censure di incostituzionalità (cfr. Trib. Roma, Sez. Il, 16 novembre 2000, in 6 giur, 2001, 72) – ha, però, con assoluta chiarezza, lasciato al giudice naturale dei diritti le controversie che attengano alla tutela del cittadino quale fruitore di un servizio pubblico in relazione agli attentati che ai propri diritti possano derivare nello svolgersi del rapporto che viene in essere con la fruizione del servizio stesso.
Né sembra possibile sviare la questione all’esame di questo Giudice riconducendola – come ritengono i resistenti (cfr. pag. 5 della memoria difensiva depositata in data 14 ottobre 2003) – ad un profilo organizzativo del pubblico servizio di istruzione. A ben vedere, affermare ciò vorrebbe dire che con il ricorso in esame il ricorrente abbia inteso censurare un profilo relativo all’organizzazione dei mezzi nell’ambito di un ufficio pubblico, essendo appunto mezzi materiali anche quelli facenti parte dell’arredo scolastico, nel cui ambito verrebbero dettate le disposizioni che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche (come si dirà diffusamente di seguito).
Tale prospettazione, benché in passato sostenuta in giurisprudenza (cfr. Pret. Roma, 17 maggio 1986, in Riv. Giur. Scuola, 1986, 619), sembra non voler cogliere la vera essenza della questione, elidendo il profilo della lesione – seppure prospettata – di un diritto assoluto costituzionalmente tutelato. Evidente forzatura che, di fronte al rilievo in tal senso del resistente in sede di discussione del ricorso, ha spinto il rappresentante dell’Avvocatura dello Stato a contestare che l’assunto difensivo possa essere riassunto nella riconducibilità della questione a meri profili attinenti all’arredo scolastico (cfr. verbale dell’udienza del 15 ottobre 2003).
Non appare pertinente, pertanto, il richiamo a quella giurisprudenza amministrativa per cui «rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia promossa da genitori e alunni maggiorenni e relativa a provvedimento di carattere organizzativo del servizio scolastico, in quanto l’esclusione della giurisdizione e del giudice amministrativo delle controversie con gli utenti non si estende anche alle ipotesi in cui sono in discussione gli aspetti organizzativi e generali per la prestazione del servizio e quindi anche spaziale entro cui il potere è gestito, tanto più che è sommamente interessante per la collettività, e specialmente per il settore, il modo con cui l’istruzione pubblica è erogata alla generalità dei cittadini» (così Cons. Stato, Sez. IV, 21 febbraio 2001, n. 896).
La questione all’esame della giustizia amministrativa riguardava, infatti, un provvedimento amministrativo avente ad oggetto l’assegnazione di edifici agli istituti scolastici, sicché, anche laddove si voglia ritenere che tale controversia rientrasse nell’ambito dell’espletamento del servizio pubblico di istruzione (in verità, con evidente dilatazione del concetto di “pubblica istruzione”), comunque non si trattava di questione riconducibile ad un rapporto privato di utenza, ma appunto – come si legge – afferente profili organizzativi generali, funzionali alla prestazione del servizio.
In verità, a ben vedere, anche laddove nel caso in esame si fosse in presenza – secondo la prospettazione di parte resistente – di questione attinente profili organizzatori dell’amministrazione pubblica, ciò non di meno dovrebbe affermarsi la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria.
Come è possibile evincere dal ricorso – e come, comunque, precisato dal ricorrente, per il tramite del proprio difensore, all’udienza del 15 ottobre 2003 (cfr. verbale) –, la cautela richiesta è funzionale al fruttuoso esercizio dell’azione di responsabilità aquiliana per l’assenta lesione del diritto di libertà religiosa di cui si invoca la tutela con la reintegrazione in forma specifica e art. 2058 c.c.. Conseguentemente, tanto l’azione proposta da Adel Smith in proprio, quanto quella proposta da questi quale genitore esercente la potestà sui figli minori, rientrerebbero nell’ulteriore esclusione sancita dalla lettera e) dell’art. 33 del D. Lgs. n. 80/1998 (e successive modificazioni) rispetto alla previsione della giurisdizione del giudice amministrativo per le controversie relative a servizi pubblici, ossia le azioni risarcitorie.
La circostanza stessa che il rimedio invocato dal ricorrente si concreti in una richiesta di ordinare ai resistenti un facere, prima in via provvisoria ed urgente e, quindi, in via definitiva, discende dal fatto stesso che venga pro posta un’azione risarcitoria in forma specifica e non può determinare – come invece ritiene parte resistente – una diversa qualificazione della domanda quale attinente ad un aspetto organizzativo del servizio pubblico, atteso che la reintegrazione in forma specifica implica sempre la condanna ad facere a un non facere e a un dare da parte del soggetto danneggiante (cfr. Trib. Venezia, ord. 14 aprile 2003, n. 214, in AmbienteDiritto.it).
Conseguentemente, deve ritenersi sussistere la giurisdizione del giudice ordinario adito anche in relazione alla domanda cautelare proposta da Adel Smith in proprio, benché in relazione a questi non possa configurarsi certo un rapporto individuale di utenza del servizio pubblico di istruzione con l’Istituto resistente, non essendo questi fruitore di siffatto servizio pubblico presso la Scuola materna ed elementare statale “Antonio Silveri” di Ofena.
Esclusa in relazione alla presente controversia la giurisdizione esclusiva dell’autorità giudiziaria amministrativa, è appena il caso di rilevare che può ritenersi pacifica la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario, vertendosi in materia di diritti soggettivi e, per di più, venendo in rilievo un diritto di libertà inviolabile e costituzionalmente garantito (cfr. Trib. Roma, Sez. II, ord. 18 dicembre 2002, in www.edscuola.it Pret. Milano, ord. 15 febbraio 1990, in Foro it., I, 1746; Trib. Milano, 18 dicembre 1986, ivi, 1987, I, 2496).
Né appare dubitabile che la situazione giuridica soggetti va dedotta dal ricorrente, in proprio e in relazione ai figli minori, sia di diritto soggettivo, poiché si riconnette in via diretta alla norma costituzionale dell’art. 19, che tutela non solo al libertà di culto, ma anche – e come si dirà più ampiamente di seguito – la libertà c.d. negativa di religione e la libertà di coscienza in relazione al fenomeno religioso (come sostenuto dalla dottrina e come affermato dalla Corte costituzionale in più decisioni).
E comunque, anche scendendo al rango della legislazione ordinaria, posizione di diritto sarebbe quella in capo ai ricorrenti alla luce della disciplina del nuovo con cordato. In tal senso, del resto, si è espressa la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 203 del 1989, orientamento ribadito nella sentenza n. 13 del 14 gennaio 1991 in relazione al diritto di avvalersi o non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica.
Ad affermare ciò, del resto, sarebbe sufficiente l’art. 2 della L. 20 marzo 1865, n. 2448, All. E, che devolve alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria le materie riguardanti un diritto civile o politico (cfr. Pret. Milano, ord. 15 febbraio 1990, cit.).
È stata in passato controversa, piuttosto, la possibilità di emanare provvedimenti che prevedano un facere (come richiesto, appunto, nel caso in esame) ovvero un non facere da parte della pubblica amministrazione.
A norma dell’art. 4 della L. n. 2248/1865, All. E, nonostante la posizione di diritto soggettivo del privato che si assuma violata da un atto o da un comportamento della pubblica amministrazione, è infatti vietato al giudice di sostituirsi all’autorità amministrativa, sicché – salvo deroghe espresse – non è ammessa, tanto in sede di giudizio ordinario di cognizione quanto in sede cautelare ed urgente, non solo l’adozione di provvedimenti di annullamento, modifica o sospensione di un atto amministrativo, ma anche di un comportamento (come appunto la condanna ad un facere o ad un non facere direttamente incidente nella sfera di discrezionalità della pubblica amministrazione, ossia in quegli atti o comportamenti attuativi dei fini istituzionali della pubblica amministrazione.
A fronte di tale divieto, che è logica e necessaria conseguenza della separazione della funzione giurisdizionale dalla funzione amministrativa, oggi sancita dagli art. 97, 102, 104 e 113, ultimo comma, Cost., la giurisprudenza di merito ha individuato il presupposto giurisdizionale della carenza assoluta di potere della pubblica amministrazione come idoneo a rendere inoperante il divieto di cui all’art. 4 suddetto (cfr. Pret. Monza, 23 marzo 1990, in Foro it., 1990, I, 1745).
Tale giurisprudenza evolutiva dei giudici di merito è stata successivamente fatta propria dalla Suprema Corte di Cassazione, che ha affermato come, allorché il privato chieda la tutela di un proprio diritto soggettivo non condizionato dal potere in concreto esser citato dalla pubblica amministrazione, la giurisdizione appartenga al giudice ordinario.
Versandosi inoltre in ipotesi di attività materiale lesiva posta in essere dalla pubblica amministrazione in carenza di potere, non opera il divieto di condanna della stessa ad un facere (cfr. Cass. civ., S.U., 1° luglio 1997, n. 9557) che è ammessa nella misura in cui la stessa non interferisca su atti discrezionali dell’amministrazione (cfr. Cass. civ., S.U., 29 gennaio 2001, n. 39) e non contrasti con il divieto riguardante la diversa ipotesi di attività rientranti nella sfera dei poteri e delle finalità istituzionali di essa (cfr. Cass. civ., S.U., 30 dicembre 1998, n. 12906).
Orbene, premesso che nel caso all’esame di questo Giudice la con danna alla rimozione del crocifisso dalle aule scolastiche non determina un’ingerenza nell’attività discrezionale della pubblica amministrazione volta alla realizzazione delle finalità istituzionali della stessa, occorre verificare se nella fattispecie in esame sussista un potere – che non può che essere attribuito da norme di legge, stante il principio costituzionale di legalità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.) – che consenta all’amministrazione scolastica l’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche frequentate dai minori figli del ricorrente.
Escluso ciò, potrà ritenersi che nel giudizio – ordinario e, quindi, anche cautelare d’urgenza – che verta sulla presunta violazione o compressione di un diritto costituzionalmente garantivo, qual è il diritto alla libertà religiosa, non sussiste il limite interno alla giurisdizione ordinaria che vieta all’autorità giudiziaria ordinaria di emettere un ordine di fare (o di non fare) a carico della pubblica amministrazione, quando quest’ultima non sia dotata di alcun potere ablatorio o compressivo del diritto medesimo (cfr. Pret. Torino, ord. 11 febbraio 1991, in Foro it., 1991, I, 2586; Pret. Torino, ord. 19 luglio 1988, in Foro it., 1988, I, 3343; Cass. civ., S.U., 9 marzo 1979, n. 1463).
Secondo il Ministero dell’istruzione (cfr. Nota 3 ottobre 2002 - prot. n. 2667), l’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche sarebbe prescritta dall’art. 118 del R.D. 30 aprile 1924, n 965, recante disposizioni sull’ordinamento interno degli istituti di istruzione media, e dall’art. 119 del R. D. 26 aprile 1928 n. 1297, precisamente nella Tabella Callo stesso allegata (Regolamento genera/e sul seri i. dell’istruzione elementare), quanto agli istituti di istruzione elementare.
Si può subito rilevare che nessuna disposizione prescrive l’affissione del crocifisso nelle aule delle scuole materne, mentre è pacifico che anche nell’aula in cui svolge attività didattica il piccolo Kxxx, di anni quattro, è esposto il simbolo della croce.
Con riferimento all’altro figlio del ricorrente, Adam, verrebbero in vece in rilievo le disposizioni da ultimo citate, che appunto prescrivono che il simbolo della croce debba far parte dell’ordinario arredamento delle aule scolastiche e che spetta al capo d’istituto (art. 10, comma 3, e art. 119 del R. D. 26 aprile 1928 n. 1297) - oggi, a seguito della riforma operata dal D. Lgs. 6 marzo 1998, n. 59, al dirigente scolastico - assicurare la completezza (nonché la buona conservazione) di tutti gli arredi occorrenti. Si tratterebbe di disciplina di rango regolamentare, dunque, in relazione alla quale, peraltro, la stessa pubblica amministrazione si è più volte interrogata circa la permanente vigenza nel nostro ordinamento (si veda anche, in relazione all’esposizione del crocifisso nella aula giudiziarie, il quesito del 29 maggio 1984 - prot. n. 612/14-4 posto al Ministero dell’interno dal Ministero di grazia e giustizia).
In particolare, con riferimento alle scuole pubbliche, a seguito dell’entrata in vigore della L. 25 marzo 1985, n. 121 di modifica del concordato (Ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo addizionale firmato a Roma il 18 febbraio 1985 n° 121, che apporta modifca al Concordato Lateranense dell’11 febbraio 1929, tra La Repubblica italiana e La Santa Sede), l’allora Ministero della Pubblica Istruzione si è interrogato circa il possibile contrasto con il nuovo quadro normativo in base al quale viene impartito l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole.
Al riguardo il Consiglio di Stato, Sezione III, con il parere 27 aprile 1988, n. 63/88, ha preliminarmente distinto la normativa riguardante l’affissione del crocifisso nelle scuole da quella relativa all’insegnamento della religione cattolica; ha quindi rilevato che «le due norme citate, di natura regolamentare, sono preesistenti ai Patti Lateranensi e non si sono mai poste in contrasto con questi ultimi» e che «Nulla, infatti, viene stabilito nei Patti Lateranensi relativamente all’esposizione del Crocifisso nelle scuole», sicché «le modificazioni apportate al Concordato lateranense, con l’accordo, ratificato e reso esecutivo con la Legge 25 marzo 1985, n. 121, non originario, non possono influenzare, né condizionare la vigenza delle norme regolamentare di cui trattasi»; ha così concluso che le suddette disposizioni devono intendersi «tuttora legittimamente operanti».
Le stesse motivazioni, peraltro, sono state fornite dall’Avvocatura dello Stato di Bologna nel parere reso in data 16 luglio 2002 (menzionato nella suddetta Nota 3 ottobre 2002 del Ministero dell’istruzione), che ha affermato la permanenza in vigore ditale disciplina e la non lesività della libertà di religione della stessa nel prevedere l’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche.
Siffatto argomentare è, in verità, eccessivamente semplicistico. Non è necessario un particolare approfondimento, infatti, per rilevare come le norme che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche non siano entrate in contrasto con le disposizioni concordatarie poiché entrambe partono dalla logica della confessione cattolica come istituzione religiosa privilegiata.
Un minimo approfondimento della natura stessa della normativa in questione consente, invece, di giungere ad una soluzione del tutto opposta. Il R.D. 30 aprile 1924, n. 965 estendeva quanto già previsto con ininterrotta continuità da una norma del regolamento per l’istruzione elementare (R.D. 15 settembre 1860, n. 4336 di attuazione delle L. 13 novembre 1859, n. 3725 - c.d. legge Casati), poi ripresa dal Regolamento generale dell’istruzione elementare del 19(1)8 (R.D. 6 febbraio 1908, n. 150). In tale solco si pone, quindi, l’art. 10 del R.D. n. 1297/1928 nel prevedere l’affissione nelle aule delle scuole elementari del crocifisso.
Si tratta, quindi, di una normativa regolamentare di esecuzione di una legge che, per quanto laica si voglia ritenere, appartiene comunque ad un sistema costituzionale, quale quello disegnato dallo Statuto Albertino, che all’art. 1 sanciva che la religione cattolica era la sola religione dello Stato.
E benché l’origine della disposizione in parola risalga all’epoca dello Stato liberale, ciononostante la previsione dell’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche risponde ad intenti confessionali, come è stato da più parti e autorevolmente osservato dalla dottrina storica. «Dall’unità d’Italia la scuola costituisce [.] terreno tradizionale di confronto fra gli interessi ideologici dello Stato e della Chiesa, forse l’oggetto privilegiato delle pretese confessionali e probabilmente, quindi, anche il luogo ove si avverte più forte l’esigenza di laicità».
In altri termini, anche all’epoca dello stato libera le, la previsione dell’affissione del crocifisso nella aule della scuola pubblica esprimeva il regime di privilegio accordato alla religione cattolica.
La dottrina giuridica (oltre che storica) indica, poi, nella previsione dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche contenuta nei RR. DD. n. 965/1924 e n. 1297/1928, nonché negli altri uffici pubblici (a proposito della presenza del crocifisso nelle aule giudiziarie, si veda la Circolare n. 1867 della Div. III n. 2134 del Reg. Circ. emessa in data 29 maggio 1926), uno dei sintomi più evidenti del neo-confessionismo statale del regime fascista, che ha nel Concordato del 1929 il suo ideale punto di arrivo.
Conclusioni cui detta dottrina perviene anche sulla scorta del chiaro tenore delle circolari dell’epoca (basti riportare un passo della circolare del Ministero dell’interno del 16 dicembre 1922, indirizzata ai Prefetti, in cui si rileva come «in questi ultimi anni in molte scuole sono state tolte le immagini del Crocifisso e il ritratto del Re: tutto ciò costituisce aperta e non più oltre tollerabile violazione d’una precisa disposizione regolamentare, offende altresì, e soprattutto, la religione dominante dello Stato e il principio unitario della Nazione [ diffidandosi «perché siano immediatamente restituiti [ i due simboli sacri alla fede e al sentimento nazionale»).
Premesse le ragioni storiche e l’interesse pubblico perseguito dalla disciplina in parola, la funzione regolamentare esplicata dai suddetti regi decreti non può non ritenersi superata, a meno di affermare che ci sia un altro interesse pubblico che, sostituendosi al precedente, continui a giustificarne il vigore. Nel caso in esame, però, ciò non può sostenersi, proprio alla luce del nuovo quadro normativo di riferimento disegnato dalle disposizioni dell’Accordo di modifica del concordato, come peraltro correttamente “intuito” sul finire degli anni ottanta del secolo scorso dall’Amministrazione di grazia e giustizia prima (si veda il citato quesito del 29 maggio 1984) e della pubblica istruzione poi, quest’ultima nel richiedere il citato parere reso dal Consiglio di Stato.
L’esplicita abrogazione del principio della religione cattolica come religione di Stato, contenuta nel punto 1, in relazione all’art. 1, del Protocollo addizionale agli Accordi di modifica del Concordato del 1929, ha sicuramente introdotto un nuovo assetto normativo che si pone in contrasto insanabile con la disciplina (scolastica e non) che impone l’esposizione del crocifisso.
Per quanto l’accordo di revisione del 1984 non contenga alcun riferimento esplicito all’affissione del crocifisso, assorbente è il rilievo che i provvedimenti che ciò prescrivono, peraltro di rango secondario, in quanto intimamente legati al principio della religione di Stato, debbano ritenersi abrogati.
Come noto, l’abrogazione esplicita di un principio giuridico comporta necessariamente e naturalmente l’abrogazione tacita delle disposizioni che vi fanno riferimento, in particolare se si tratta di normativa di rango secondario, che offre una minore resistenza nell’eventuale contrasto determinatosi con l’introduzione di una nuova disciplina della materia, dovendo le disposizioni regolamentari, per loro stessa natura, eseguire il dettato di determinate disposizioni di legge.
Nel caso del nuovo concordato, poi, l’eliminazione del primo, lasciando intatte le seconde, vorrebbe dire eludere una delle poche novità sostanziali contenute nella riforma sancita dall’accordo di Villa Madama.
Non può negarsi che tanto la dottrina – soprattutto certi studiosi di diritto ecclesiastico – quanto anche la giurisprudenza, ordinaria e amministrativa, hanno avuto la tendenza a ridimensionare la portata dell’innovazione conseguente all’art. 1 del Protocollo addizionale suddetto.
La stessa Corte costituzionale, per ribadire la legittimità costituzionale delle disposizioni del codice penale in tema di reati contro il sentimento religioso, ha precisato, che le stesse «troverebbe tuttora un qualche fondamento nella constatazione, sociologicamente rilevante, che il tipo di comporta mento vietato dalla norma impugnata concerne un fenomeno di malcostume divenuto da gran tempo cattiva abitudine per molti» (cfr. Corte cost. sentenza n. 925/1988).
In altri termini, sebbene non possa ritenersi, nell’ordinamento costituzionale, la Repubblica Italiana come uno stato confessionale in senso cattolico, tale religione è però professata, nella comunità statale, dalla maggioranza dei suoi cittadini. Così ragionando, però, si continua sostanzialmente a considerare la religione cattolica come “religione dello Stato”.
Come è stato rilevato in dottrina, evocare il criterio della maggioranza, del gruppo (numericamente e culturalmente) prevalente, cui debba guardare il legislatore, in tema di libertà è l’argomento più denso di pericoli per le libertà dei consociati. «Una delle più significative rivoluzioni del ventesimo secolo è rappresentata dall’esplosione dell’idea democratica: un’idea che trova un’essenziale riferimento nei principi di sovranità della persona umana e di eguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge».
Il principio di uguaglianza assume, inoltre, un significato particolare nelle società plurietniche, culturalmente variegate, dove vi sono delle minoranze per cui l’eguaglianza «rimane solo saldissimo principio contro ingiustizie, discriminazioni, razzismi. Diviene l’asse portante per l’affermazione del “diritto alla differenza”».
In molte norme della Costituzione italiana (artt. 3 e 8, comma 1), ed in verità anche nella comune valutazione dei rapporti sociali, il principio di libertà si pone in diretta connessione con quello di uguaglianza. Ed anche a proposito della libertà di religione è necessario considerare la relazione che sussiste tra i principi di libertà e di uguaglianza.
È quanto ha ritenuto di recente la IV Sezione penale della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 439 del 1° marzo 2000. Richiamandosi anche ad esperienze di altri paesi, il Supremo Collegio ha ritenuto che la rimozione del simbolo del crocifisso da ogni seggio elettorale si muovesse nel solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale in termini di laicità e pluralismo, reciprocamente implicantisi.
Vero è che tale decisione fa perno sul concetto di neutralità del pubblico ufficiale, ma essa è solo apparentemente lontana dalla questione all’attenzione di questo Giudice – come, invece, ha ritenuto l’Avvocatura nel discutere il presente ricorso – poiché, a ben vedere, proprio in considerazione del fatto che la scuola pubblica rientra (espressamente, nella previsione della lettera e) dell’art. 33 del D. Lgs. n. 80/1998 e successive modificazioni) nel novero dei servizi pubblici, anche l’oggetto del ricorso in esame riguarda la questione della laicità delle istituzioni.
Alcuni commentatori hanno rilevato criticamente come la conclusione cui è pervenuto la Suprema Corte nella decisione sopra riportata tragga origine da una lettura parziale, e per ciò solo non corretta, del concetto di laicità, poiché, come tratteggiato dalla nota sentenza n. 203 del 1989 della Corte costituzionale, laicità non significa indifferenza nei confronti delle religioni, ma implica la «garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale», non comportando tuttavia il rinnegamento o l’abbandono delle proprie radici storico-religiose.
Esisterebbe – secondo detta opinione – un’identità italiana, forgiata dai principi del cattolicesimo, che non può essere cancellata, «così come non si possono cancellare la Divina Commedia o gli affreschi di Giotto», che pur nel rispetto delle diverse sensibilità, del multiculturalismo e del concetto di laicità dello Stato, non potrebbe essere intesa quasi come una sorta di onta da cancellare, giacché, anche da un punto di vista pedagogico, il nascondimento di quell’identità costituisce un disvalore che priverebbe la popolazione di fondamentali elementi di identificazione personale e comunitaria.
Tale ragionamento, cui fa riferimento – e su cui sembrerebbe, in realtà, fondarsi – il parere n. 63/1988 del Consiglio di Stato, è quello diffusamente utilizzato dalla giurisprudenza e dalla dottrina per giustificare nell’attuale regime costituzionale la legittimità delle norme penali a tutela del sentimento religioso.
Sennonché, anche tali disposizioni, come quelle relative all’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche, hanno la medesima origine ideologica, trovavano fondamento nella previsione della religione cattolica come religione di Stato di cui all’art. 1 del Trattato lateranense, venuto meno il quale, il permanente vigore è stato motivato con il passaggio della religione cattolica da religione di Stato a fatto culturale e sociale di rilievo nazionale, procedendo attraverso il concetto di religione della maggioranza dei cittadini.
È questa, in buona sostanza, l’opinione di coloro che ritengono che il perdurante vigore dei provvedimenti che dispongono l’esposizione del crocifisso nelle aule possa desumersi dall’art. 9 dell’Accordo di revisione concordataria del 1984, che prevede l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole e riconosce «i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano».
Orbene, non si può negare che tale norma del nuovo concordato abbia in un certo senso riassunto le due formule precedenti della religione di Stato e della religione della maggioranza dei cittadini nel quadro di un rinnovato rapporto fra istituzioni e società civile.
Ciò costituisce lo sviluppo di una costruzione giuridica che si fonda su un fatto incontrovertibile, il ruolo storico e quello attuale della Chiesa, e continua a tradursi in un diffuso atteggiamento privilegiato per la religione cattolica.
Sennonché, come ha già osservato il Supremo Collegio nella sentenza n. 439/2000, «il riconoscimento contenuto nell’art. 9 1. cit. è privo di valenza generale perché non è un principio fondamentale dei nuovi accordi di revisione ma è funzionale solo all’assicurazione dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche: peraltro, non obbligatorio ma pienamente facoltativo, limitato cioè agli alunni che dichiarino espressamente di volersene avvalere, senza che agli altri possa farsi carico di un onere alternativo (infatti, gli alunni possono anche non presentarsi o allontanarsi dalla scuola: corte cost. 14.1.1991, n. 13)».
Ritenere la rilevanza sociale e culturale della religione cattolica in quanto religione della maggioranza dei cittadini equivale a stabilire una perfetta identità tra cultura cattolica e cultura civile nel nostro paese, che – in verità – non corrisponde neanche al significato della nuova norma concordataria in materia scolastica, la quale, pur tra tante (in parte certamente volute ed in parte in ogni caso inevitabili) ambiguità, fa riferimento ad un patrimonio storico in cui si collocano anche – e non solo – i principi del cattolicesimo.
Le giustificazioni addotte per ritenere non in contrasto con la libertà di religione l’esposizione del crocifisso nelle scuole (e negli uffici pubblici), così come di ogni altra forma di confessionalismo statale, sono divenute ormai giuridicamente inconsistenti, storicamente e socialmente anacronisti che, addirittura contrapposte alla trasformazione culturale dell’Italia e, soprattutto, ai principi costituzionali che impongono il rispetto per le convinzioni degli altri e la neutralità delle strutture pubbliche di fronte ai contenuti ideologici.
Per tale ragione, non può concordarsi con quell’opinione che ritiene che il crocifisso potrebbe rimanere nella aule scolastiche «quando l’insieme degli studenti (se maggiorenni, o dei loro genitori se minorenni) di una scuola pubblica vi colgano tutti pacificamente, implicitamente, un comune significato culturale (oltre a quello di fede dei soli cristiani); se viceversa anche un solo alunno ritenga di essere leso nella propria libertà religiosa negativa, essi andrebbero rimossi».
Proprio perché è in questione non solo la libertà di religione degli alunni, ma anche la neutralità di un’istituzione pubblica, non è possibile prospettare una realizzazione del principio di laicità dello Stato e, quindi, della libertà di religione dei consociati “a richiesta”, ma piuttosto deve essere connaturato all’operare stesso dell’amministrazione pubblica.
A ciò si aggiunga che ritenere il crocifisso sia solo un “simbolo passivo”, oltre a sviare la forte valenza religiosa per la fede cristiana di tale simbolo, costituisce una forzatura. Il crocifisso assume, infatti, nella sua sinteticità evocativa una particolarmente complessa polivalenza significante: se ogni simbolo è costituito da una realtà conoscitiva, intuitiva, emozionale molto più ampia di quella contenuta nella sua immediata evidenza, per il crocifisso ciò si esalta, comprende una realtà complessa, che intrinsecamente non si può esprimere per tutti nello stesso modo univoco.
Appare persino riduttivo affermarne l’ambivalenza di cui si è detto sopra, che, peraltro, veniva storicamente ricomposta fino a quando la contrapposizione tra cristiani e non cristiani è rimasta comunque circoscritta a coloro che nel crocifisso vi leggano pacificamente un simbolo culturale e cristiani che sottolineano il significato religioso e assolutamente non culturale, ma confessionale, del simbolo della croce (che a rigore, come è stato osservato in dottrina, «esprimerebbe un conflitto radicale con la cultura, la politica e l’istituzione giudiziaria del tempo e che di conseguenza non potrebbe essere utilizzata per un “concordismo” con qualsiasi Stato sulla terra, anche col migliore di essi»).
Ciò ha consentito – più da parte degli studiosi del diritto ecclesiastico che del pensiero costituzionalistico – di ricondurre i profili individuali della libertà religiosa ai rapporti tra Stato e culti religiosi, che nell’esperienza storica italiana altro non sono stati che sfumature di un’omogenea tradizione giudaico-cristiana.
La società multietnica odierna introduce, però, delle incrinature che sicuramente sono provocate dalla necessità di contemperare concezioni etico-religiose fortemente divergenti dalla tradizione culturale italiana, mettendo così in luce tutti i limiti di un’impostazione che dei due profili della libertà di religione, la fede e il culto – peraltro mantenuti con chiarezza distinti dalla corte costituzionale sin dalle sue prime sentenze –, ha visto prevalere il secondo.
In particolare, nell’ambito scolastico, la presenza del simbolo della croce induce nell’alunno ad una comprensione profondamente scorretta della dimensione culturale della espressione di fede, perché manifesta l’inequivoca volontà – dello Stato, trattandosi di scuola pubblica – di porre il culto cattolico «al centro dell’universo, come verità assoluta, senza il mini mo rispetto per il ruolo svolto dalle altre esperienze religiose e sociali nel processo storico dello sviluppo umano, trascurando completamente le loro inevitabili relazioni e i loro reciproci condizionamenti .
Come è stato acutamente osservato in dottrina, «è anche il segno visibile che la scuola di fronte al fatto religioso arretra la sua sfera d’azione, rinuncia alla sua funzione educativa, compie la precisa scelta di abbandonare il criterio dell’approccio culturale e critico, accogliendo simboli e concetti la cui interpretazione, quando non è delegata per legge all’autorità ecclesiastica, risulta in ogni caso inevitabilmente riconducibile alla tradizione cattolica per i forti condizionamenti che essa ancora esercita sul corpo sociale ed ai quali è molto difficile sfuggire specie in giovane età».
Alla luce di quanto si è detto, si comprende anche come non possa condividersi la netta distinzione operata dal Consiglio di Stato tra la normativa riguardante l’affissione del crocifisso nelle scuole e quella relativa all’insegnamento della religione cattolica.
Come era stato correttamente avvertito dallo stesso Ministero della pubblica istruzione, che detto parere aveva richiesto, l’affissione del crocifisso nelle aule è questione non neutra rispetto al problema dell’istruzione o, più in generale, non può essere dissociato da quello dell’educazione.
La presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, infatti, comunica un’implicita adesione a valori che non sono realmente patrimonio comune di tutti i cittadini, presume un’omogeneità che, in verità, non c’è mai stata e, soprattutto, non può sicuramente affermarsi sussistere oggi, e che, però, chiaramente tende a determinare, imponendo un’istruzione religiosa che diviene obbligatoria per tutti, poiché non è con sentito non avvalersene, connotando così in maniera confessionale la struttura pubblica “scuola” e ridimensionandone fortemente l’immagine pluralista.
E ciò facendo si pone in contrasto con quanto ha stabilito la Corte costituzionale al riguardo, rilevando come il principio di pluralità debba intendersi quale salvaguardia del pluralismo religioso e culturale (cfr. Corte cost. 12 aprile 1989, n. 2(1)3 e 14 gennaio 1991, n. 13), che può realizzarsi solo se l’istituzione scolastica rimane imparziale di fronte al fenomeno religioso.
E’ appena il caso di rilevare, seppure in estrema sintesi, che, alla luce di quanto si è detto, parimenti lesiva della libertà di religione sarebbe l’esposizione nelle aule scolastiche di simboli di altre religioni.
L’imparzialità dell’istituzione scolastica pubblica di fronte al fenomeno religioso deve realizzarsi attraverso la mancata esposizione di simboli religiosi piuttosto che attraverso l’affissione di una pluralità, che peraltro non potrebbe in concreto essere tendenzialmente esaustiva e comunque finirebbe per ledere la libertà religiosa negativa di coloro che non hanno alcun credo.
Sebbene non possa negarsi che la contemporanea presenza di più simboli religiosi eliderebbe la valenza confessionale che si è detto avere l’esposizione del solo crocifisso.
In conclusione, ritenuta la mancanza di una norma – sia essa di legge che di rango secondario – che prescriva l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, considerato conseguentemente che non v’è preclusione alla condanna dell’Amministrazione ad un facere, premessa la ricostruzione del diritto di libertà nell’attuale assetto costituzionale, ad avviso di questo Giudice, deve ritenersi che sussista il fumus boni iuris per la concessione della cautela invocata dal ricorrente.
6.1. Quanto alla sussistenza dell’imminenza e dell’irreparabilità del pregiudizio lamentato dai ricorrenti, richiesto dall’art. 700 c.p.c., è invece necessario distinguere la posizione del ricorrente in proprio da quella dei figli minori.
Solo in relazione a questi ultimi, infatti, può ritenersi sussista il requisito dell’imminenza del danno, che consente di accordare l’invocata cautela atipica, e che esso sia di tutta evidenza in considerazione della natura del bene giuridico leso (cfr. Pret. Monza, ord. 23 marzo 1990, cit.).
La valutazione della sussistenza del pericolo discende dall’accertata sussistenza dello “scuotimento” o della crisi del diritto di libertà di religione come si è cercata di delineare sopra.
Se il concetto di pericolo di risolve in un rapporto tra eventi, di cui il primo – ossia l’evento lesivo denunciato – si è già verificato, e l’altro, invece, futuro, nel caso all’esame di questo Giudice il giudizio probabilistico volto a porre in correlazione i due eventi è quanto mai agevole: vi è un grado di probabilità assai elevato circa il permanere del suddetto simbolo confessionale nelle aule della scuola pubblica, e quindi anche in quella di Ofena di cui si tratta, proprio in considerazione dell’orientamento espresso dall’amministrazione centrale con la Nota 3 ottobre 2002 - prot. n. 2667 e del vincolo che la stessa determina per i dirigenti scolastici; ne consegue che continuerà a perpetrarsi la lesione al diritto inviolabile di religione dei piccoli alunni di fede islamica.
In altri termini, nel caso all’esame di questo Giudice, è la circostanza di fatto – pacifica – dell’esposizione del crocifisso nelle aule frequentate da Adam e Khaled Smith ad essere di per sé sufficiente per ritenere la sussistenza dell’imminenza del pregiudizio.
A ciò si aggiunga che se un adulto può – in teoria – essere meno esposto a condizionamenti culturali, i più giovani, e in particolare gli alunni delle scuole elementari e medie, in assenza di convinzioni radicate, tendono a dare al simbolo religioso la valenza che gli è immediatamente propria. Come è stato lucidamente rilevato, affermare il contrario vorrebbe dire dare per scontata la formazione culturale e delle coscienze dei giovani, e quindi ritenere già realizzato lo scopo stesso dell’istruzione pubblica.
Il danno lamentato, poi, è per definizione irreparabile. Come più volte si è ripetuto, si è in presenza di un diritto di libertà assoluto e costituzionalmente garantito, non suscettibile di essere risarcito in relazione alla lesione medio tempore patita. Non a caso, infatti, la domanda di merito proposta dal ricorrente è di risarcimento in forma specifica attraverso la condanna dell’Istituto convenuto alla rimozione del simbolo della croce, trattandosi di lesione per definizione non risarcibile in termini economici.
A tal proposito non appare superfluo osservare che la rimozione del crocifisso, che il ricorrente invoca come indispensabile per prevenire la (ulteriore) lesione, è l’unica misura possibile per inibire la lesione del diritto di libertà dei figli minori, poiché l’alternativa sarebbe non far partecipare all’attività didattica i piccoli Adam e Khaled. In relazione al primo, in parti colare, non è neanche rimesso alla discrezione dell’utente (o dei genitori di questo) la scelta se fruire o meno del servizio di istruzione pubblica: infatti, la L. 31 dicembre 1962, n. 1859 prevede l’obbligo e prevede all’art. 8 la responsabilità dei genitori o di chi ne fa le veci - anche penale per l’istruzione elementare (art. 731 c.p.) – per l’adempimento dell’obbligo da parte dei figli minori per complessivi dieci anni (cfr. L. 20 gennaio 1999, n. 9).
6.2. Per quanto riguarda, invece, il ricorso presentato da Adel Smith in proprio, la circostanza che lo stesso non attenda ad attività didattica presso la scuola materna ed elementare “Antonio Silveri” di Ofena, che non abbia alcun obbligo di frequentarla e che possa, quindi, anche sottrarsi alla lesione lamentata non recandosi all’interno delle aule, deve far ritenere che non sussista in relazione alla posizione giuridica soggettiva dello stesso l’imminenza del pregiudizio. Per tale ragione, questo Giudice deve rigettare il ricorso quanto alla domanda cautelare proposta dal ricorrente in proprio.
Questo Giudice reputa opportuno chiarire, infine, chi sia il soggetto destinatario del j imposto dalla presente ordinanza.
Come noto, l’art. 21 della L. 15 marzo 1998, n. 59 ha attribuito la personalità giuridica, già prevista per gli istituti tecnici professionali e gli istituti statali, anche - tra gli altri - ai circoli didattici. In particolare, il comma 7 di detto art. 21 prevede l’autonomia «organizzativa e didattica» degli istituti.
Non possono esservi dubbi, quindi, che soggetto destinatario dell’ordine di rimozione in via cautelare dei crocifissi esposti nelle aule della Scuola materna ed elementare “Antonio Silveri” di Ofena è l’Istituto comprensivo di scuola materna ed elementare di Navelli, al quale detta scuola appartiene, e non il Ministero dell’istruzione.
8.Quanto alle spese di lite del presente procedimento, è necessario distinguere. In relazione alla domanda cautelare proposta da Adel Smith in proprio, in considerazione del rigetto della stessa per mancanza del requisito del pericolo, si deve provvedere con la presente ordinanza alla liquidazione delle spese del procedimento, ai sensi dell’art. 669-sep c.p.c.
E questo Giudice reputa sussistere giusti motivi, da individuarsi nella particolare natura della controversia, per compensarle interamente tra le parti, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c.. Con riferimento, invece, alla cautela invocata dal ricorrente in nome e per conto dei figli minori, l’adozione di un provvedimento positivo da parte di questo Giudice determina che la statuizione in ordine alle spese è rimessa alla decisione dell’instaurando giudizio di merito.

P.Q.M.

rigetta il ricorso proposto da Adel Smith in proprio; in accoglimento del ricorso proposto da Adel Smith quale esercente la potestà genitoriale sui figli minori Axxx Sxx e Kxxx Sxx, condanna l’Istituto comprensivo di scuola materna ed elementare di Navelli, in persona del Dirigente scolastico pro tempore, a rimuovere il crocifisso esposto nelle aule della Scuola statale materna ed elementare “Antonio Silveri” di Ofena frequentate dai suddetti minori; assegna termine di giorni trenta per l’inizio del giudizio di merito; compensa interamente tra Adel Smith, quale ricorrente in proprio, e i resistenti le spese del presente procedimento; riserva di provvedere all’esito del giudizio di merito in ordine alle spese del procedimento proposto da Axx Sxx quale esercente la potestà genitoriale sui figli minori Axx Sxx e Kxxx Sxx.

SI COMUNICHI.
L’Aquila, 22.10.2003

IL GIUDICE
(Dott. Mario Montanaro)

[1] Tratto da http://digilander.libero.it/jocan/archivio/2003/novembre/chiarezza_crocefisso-palombarini.htm.
[2] Cfr. Esodo 20, 4-5.
[3] Le lettere della parola greca IKHTUS sono le iniziali delle parole Iesus Khristos Theu Uios Soter, Gesù Cristo, di Dio Figlio, Salvatore.
[4] Cfr. Luca 24, 13s.
[5] La morte in croce era dolorosissima. Sopravveniva rapidamente per paralisi progressiva dei muscoli, in particolare dei pettorali, bloccati nel naturale movimento della respirazione, giacché il corpo sostenuto soltanto dai polsi ricadeva tutto sul diaframma. I Romani per rendere più lungo il supplizio pensarono di porre sotto i piedi del condannato un’assicella di legno (suppedaneum) in modo tale che quest’ultimo facendosi forza con i piedi, potesse sollevarsi un pochino per respirare. Muovendosi in questo modo, il condannato faceva ruotare i polsi attorno ai chiodi, provando, in cambio di un po’ d’ossigeno, un dolore fortissimo.
[6] Renato Pierri (Genova 1936), ex docente di religione cattolica nelle scuole medie superiori a Roma, oltre a diversi articoli d’argomento religioso, ha scritto La sposa di Gesù crocifisso (Kaos edizioni 2001), storia delle vergine lucchese Gemma Galgani, condannata alla santità in nome di un falso Dio; Il quarto segreto di Fátima, (Kaos edizioni 2003), la storia di un imbroglio che dura da quasi un secolo.
[7]Tratto da Liberazione del 28 dicembre 2001.

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